mercoledì 30 dicembre 2009

Nightmares after Christmas


03.49 antimeridiane dell’antivigilia del nuovo anno. Appena due ore di sonno e poi i miei incubi mi hanno già destato.
Il problema è che da sveglio è peggio, la realtà di questi due giorni appena passati è molto, molto peggiore.
Cosa è successo? Non è importante, ma nell’ordine sparso in cui mi hanno colpito gli eventi sono così riassumibili: ho capito cosa ha provato un caro amico più di un anno fa, ho decifrato oggi la sua smorfia, silenziosa, di dolore interiore. Non un’illuminazione improvvisa, semplicemente oggi è toccato a me; ho verificato che i miei tre assiomi sulle donne sono veri tutti e tre, in particolare i primi due; ho avuto bisogno di chi non c’era/non voleva esserci. Nonostante io a suo tempo per lei ci fossi stato ed infine che I sogni mi dicono sempre qualcosa, non vanno mai ignorati. Ho capito oggi perché allora sognavo lei, ossessivamente, notte dopo notte. Pregavo che smettesse. In realtà stavano dicendomi qualcosa che ero troppo sordo per ascoltare e troppo cieco per capire.
E ora sono sveglio. Oltretutto.
Quando più avrei bisogno di dormire, meno ci riesco.
Non esistono le coincidenze, mai. Se una data cosa accade c’è sempre un perché. Anche in relazione al momento in cui questa si verifica.
Cavolo sta già facendo effetto. Le parole iniziano a confondersi sulla mia tastiera. Speriamo di riuscire ad arrivare in fondo e a dire quello che vorrei dire.
Dunque. Innanzitutto vorrei dire a D.Z. (a D.Z. di un anno fa, quello di oggi è sparito. Ed ha fatto bene…) che gli sono vicino. Quello che è successo a noi è la brutta copia di uno scherzo amaro. Qualcosa che accade e che non possiamo impedire. Come la pioggia, ma meno pulita. Ma non è vero quello che fu detto allora. Non è colpa di chi scegli. Puoi scegliere chi vuoi, finirà comunque in merda.
Poi vorrei sottolineare come l’assioma sulle donne nr. 2 sia più che vero. Non può esistere l’amicizia tra uomo e donna. E non solo perché a noi non interessa o perché comunque vogliamo venire a letto con voi, anche se siete nostre amiche.. ma anche, soprattutto, Perché quando noi abbiamo bisogno di voi, quando abbiamo bisogno di pralare con voi, di chiederiv come funzionano le cose, di parlare con qualcuno con un altro punto di vista o, semplicente, di parlare ccon qualcuno perché stasera non è proprio il caso di stare da soli da nessuna parte… bhé non ci siete. Andtae in culo.
Però. Però pretendete che noi ci si sia quando a voi si spezza un’unghia, il vostro ragazzo vi lascia e voi piangete, avete problemi di vita ecc. è la prima volta che aver ragione su qualcosa mi crea tanta tristezta.
È fantastico ora. Tutto pare avvolto nl ovattta è come se guardassi la mia anima dalla lto posso guardare quello che ho dentro senza sertitlo. Sti sorridendo ora.
Da qualche oarte ho ritrivarìììo le ultime due fiael . le avevo nnascoster o oerrse. Domani fovrò riniziare a frequentare i malati terminale per verne latra.
Ma ora, cazzo quanto è belka la fdroga.., dormo.

lunedì 7 dicembre 2009

New Years


Stasera ho avuto una Grande Rivelazione PreNatalizia:
Sono in ritardo di dieci anni con me stesso.
Dieci anni precisi.
Per me dovrebbe essere il 1999, con tutte le aspettative che allora si portava dietro. La mia mente inizia solo ora a preoccuparsi di cose come il millenium bug, la fine della sinistra italiana e la necessità di scrivere gli anni con un 2 all’inizio e due zeri in mezzo…
Non è che sia rimasto indietro. Mi sono solo distratto qua e là.
Ascolto musica di dieci anni fa (Pearl Jam, in questo istante) e, non scherzo, avrei voglia di andare al Cencio’s con gli altri.
Se non fosse che il Cencio’s neppure so se esiste ancora e gli altri sono, in ordine sparso, sposati, convivono, hanno figli, sono morti o non so che fine hanno fatto.
Un tempo ero avanti agli altri. A tutti.
Sono stato il primo ad andare via di casa e abitare per conto mio (1999, ancora), a smettere di girare l’europa in treno per mete più esotiche (1999, perù e bolivia), a riuscire a mettermi insieme ad una persona davvero importante, su base stabile (1999, ancora).
Il primo ad avere un lavoro regolare (che non fosse cioè servire ai tavoli pagato a nero, spacciare agli amici roba di merda con un ricarico del 20% o derubare i miei genitori di nascosto…), a lasciare (rectius trovare il modo di farmi buttare fuori) dagli scout, grande calderone social affettivo entro cui quasi tutti al tempo crescevamo le nostre amicizie e, soprattutto, esperienze sessuali. Non importa che vi dica che anno era, vero?
Cavolo, gente, qua è cambiato tutto e io no.
In questi dieci anni non sono avanzato di un passo in nessuna direzione.
Non ho un lavoro decente (ne ho due del cazzo, a nero, e sono sfruttato in entrambi), guadagno meno di una cassiera del Carrefour, sono ancora soggetto alla schiavitù aberrante degli esami, dove qualcuno che non conosco giudicherà se sono degno o meno di ottenere il voto sufficiente per andare avanti nella vita sulla base della mia calligrafia/memoria/fortuna. E dio solo sa se non faccio schifo in tutte e tre le categorie.
Però sono bravo a parlare. Come dieci anni fa.
Non ho una relazione fissa né alcuna prospettiva che questa si affacci alla mia porta a breve, i miei interessi sono più o meno gli stessi, non voto da un sacco di tempo (inutile, nel 1999 non ci furono elezioni, non ci provate) e continuo a cambiare amicizie e compagnie ogni due giorni.
In compenso reggo meno l’alcol e non mi diverto più a vedere l’alba ogni fine settimana quasi volessi controllare che sia sempre la stessa.
Sono come sospeso in alto, con una vista eccezionale sugli ultimi/prossimi dieci anni. Chiedetemi qualsiasi cosa, le so tutte.
Prendiamo il mondo per esempio:
Non credo che Clinton sia un buon presidente per gli USA, ma purtroppo so che chi verrà dopo sarà anche peggio.
Israele resterà Israele (e qui nessuno ci scommetterebbe molto in verità), un mucchio di sabbia abitato da stronzi razzisti e beduini ignoranti che si odiano.
Saddam Hussein farà il fico per un po’ e poi sarà impiccato (ma non chiedetemi perché, non l’ha capito ancora nessuno), in Russia continuerà a comandare Putin, ma con nomi diversi, in Inghilterra non comanderà nessuno, in Francia una zoccola di origini italiane con un bel culo (e basta).
Ci saranno tre guerre identiche (oops, due, la terza deve restare segreta ancora per un po’).
Finalmente un papa con l’Alzheimer ci rivelerà il 3° segreto di Fatima. Ma sarà una cagata incredibile, come i mondiali del 2002 (quelli del 2006 invece…)
In italia, cazzo, nei prossimi dieci anni aumenterà il prezzo di ogni cosa grazie alla furbata di scambiare le banconote con su artisti ed inventori per delle cose psichedeliche (gialle, vi rendete conto che ci daranno 400.000 lire colorate di giallo?) in cui nessuno capisce cosa ci sia raffigurato (ponti? Porte? Simboli massonici occulti?).
la politica invece rimarrà sempre uguale: Berlusconi contro tutti.
Noioso, inoltre tutti invecchieranno. Lui no, è eterno come il bambino sulle confezioni dei Kinder Ferrero (ah, cambierà anche lui e quello nuovo sembrerà ancora più anni settanta di quello vecchio, un po’ come le canzoni dei rolling stones).
A proposito, De andrè morirà a giorni, ma baglioni, morandi, albano, renato zero e irene grandi no, purtroppo.
Nei prossimi dieci anni andare al cinema vorrà dire infilarsi in macchina e dover decidere già a Capezzana se andare a destra o a sinistra. E sarà una decisione difficile. Farsi un paio di km di coda per trovare parcheggio, infilarsi in un ambiente che ricorda un bordello arredato come un asilo nido (o viceversa), pagare 4.000 lire mezzo litro d’acqua (cavolo, ma dal prete ci prendo una margherita con quattromila lire…) e diligentemente avviarsi verso una delle miriadi di sale tutte uguali, stando attento a non sbagliare posto che, se no, non torna un cazzo e la gente si sfava.
Cristall, Excelsior, Astra sono nomi che dovrebbero ricordarci qualcosa ma nessuno si ricorda cosa.
Le nostre case saranno tutte, invariabilmente, arredate dallo stesso gruppo di svedesi ubriachi, che faranno delle cose dal design assurdo e, a volte, bello un sacco.
La televisione farà davvero cacare nei prossimi dieci anni, ma i peggio restiamo noi, che la guardiamo.
E io? Io cambierò fede politica, perderò un sacco di occasioni, vedrò qualche altro pezzo di mondo sparso qua e la.
Da un punto di vista affettivo perderò più di quanto guadagnerò e, comunque, tornerò sempre al punto di partenza.
Guadagnerò un foglio di carta e scoprirò che non serve a un cazzo, tanto nel frattempo grazie alla riforma dell’università saranno dottori tutti, anche chi in tre anni impara solo a pulire il culo ai vecchi allettati.
Cambierò tre case, farò due traslochi, perderò un accappatoio, una tenda, un padre, tre gatti, la fiducia negli altri. Mi ruberanno un orologio, lo stereo, una macchina (che poi ritroveranno). In compenso non forerò la bicicletta neppure una volta.
Cavolo che anni assurdi saranno stati anche per me. Sarà bene preparami
Ah, sarà il caso che faccia l’abbonamento a Internet. Dicono che mi servirà, nei prossimi dieci anni.

giovedì 26 novembre 2009

Long Nights


Ultimamente i ricordi della mia infanzia affollano la mia mente.
Cercano di emergere, richiamati da sensazioni, odori e suoni dimenticati che all’improvviso, si riaffacciano.
Quest’oggi è toccato alla mia prima avventura in tenda.
Risale a quando avevo 11 anni ed ero un ragazzino curioso e rompipalle, pieno di idee strane, con la fissa di voler scrivere un libro di avventura, il cui protagonista era, invariabilmente, un cavaliere-bambino eroico ed intrepido che, guarda strano, nelle mie fantasie mi rassomigliava in modo sospetto.
Comunque a quei tempi condividevo le mie avventure con David L. che aveva idee assolutamente opposte alle mie riguardo a cosa significasse la parola avventura. Per lui erano astronavi e buchi neri. Ovviamente era impossibile conciliare le due esigenze e le liti erano frequenti. Ora che ci penso è stato lui ad insegnarmi i rudimenti del combattimento infantile, fatto di colpi scorrettissimi che farebbero arrossire Mike Tyson.
Anche lui, naturalmente, voleva scrivere un libro, ma siccome gli sembrava poca cosa, lo voleva fare in inglese. Era ambientato sotto i mari e non è mai andato oltre la seconda frase.
In ogni caso con lui ho diviso gran parte della mia infanzia, fino a quando i suoi non lo hanno portato con loro a vivere in spagna.
Anch’egli è rimasto fermo, nella mia mente, ai 13/14 anni.
Comunque sia un pomeriggio di settembre decidemmo che quel fine settimana avremmo preso la tenda ed avremmo esplorato i monti di Bacchereto.
Ci armammo al meglio che il nostro senso pratico ci suggeriva e partimmo (ancora oggi mi domando a cosa pensassero i nostri genitori quando ci lasciarono andare… forse volevano sbarazzarsi di noi…).
Mentre percorrevamo i campi, un po’ a casaccio per la verità, discutevamo sulle speranze di uscire vivi da un buco nero, dell’opportunità di tracciare una mappa del nostro cammino, se fosse meglio il verso del lupo o quello del coyote (!) quale segnale di pericolo per allertare l’altro ecc. ecc.
Intanto risalivamo le vigne che circondano la strada che da Seano porta a Bacchereto ma siccome era piovuto, facevamo una fatica boia a fare ogni passo. Oltretutto gli zaini non erano precisamente fatti ad arte.
Quindi una volta arrivati in cima decidemmo che quello era il posto ideale per fermarci prima che facesse buio.
Scegliemmo quindi un luogo che era pianeggiante esattamente come uno scivolo ed iniziammo a montare la tenda.
Anche qui avevamo idee molto diverse, io e David, su come dovesse essere inteso il concetto.
Io suggerivo il modello militare, lui il tepee indiano. Alla fine qualcosa venne fuori, visto che ne eravamo orgogliosi.
Quindi ci accingemmo a preparare il fuoco. Sperimentammo il sistema della carta. Ma questa bruciò in men che non si dica.
Allora toccò a legni e legnetti. Che naturalmente non volevano saperne di accendersi.
Decidemmo che l’olio d’oliva era un combustibile e irrorammo gli stessi legnetti. Nessun risultato. Anzi.
Delusi e scontenti frugammo tra gli zaini e… trovammo della diavolina. Evidentemente i nostri genitori volevano sbarazzarsi di noi, ma non subito…
Risolto quel problema iniziammo a non cucinare la roba che ci eravamo portati.
Gli spiedini di salsiccia e formaggino divennero un intruglio impraticabile. Lo stesso dicasi per le patate crude col ketchup. I wurstel con la sottiletta avvolta risolsero il problema insieme ad un quintale di cioccolata.
Intanto l’oscurità scendeva lenta e dolce, come si addice alla fine di settembre. Da dove eravamo noi si vedeva tutta la piana, le luci di Prato, di Firenze e di Pistoia. Nel cielo le stelle. Luna non ce n’era e la notte divenne subito scurissima.
Pertanto discutemmo animatamente su chi dovesse andare a cercare legna (ne avevamo presa pochina…) e chi l’acqua (idem). Non riuscendo ad accordarci (nessuna delle due prospettive pareva particolarmente invitante…), decidemmo che non era saggio lasciare l’accampamento mentre si era in territorio indiano.
Quindi iniziammo a discutere su chi dovesse fare il primo turno di guardia e chi l’ultimo. Entrambi volevamo fare il primo. Finì che facemmo insieme una mezz’oretta di guardia insieme, per sicurezza.
Passammo quindi in rassegna l’armamentario di cui disponevamo. Io avevo il mio coltellino. Ben 5 cm di terrore puro, una lama così affilata da non poterci tagliare neppure il pane. Era nero e ne ero orgoglioso. David aveva la fionda (ehi, solo oggi mi rendo conto del paragone biblico. Fantastico…). Inoltre avevamo 3 petardi con cui avremmo debellato chiunque avesse osato attaccarci.
Al momento di andare a letto tuttavia dal sacco a pelo di David spuntò… un orsacchiotto.
Lui spergiurò che non era suo e che non sapeva come fosse finito lì. Anzi, mi disse che l’avevo messo li io per umiliarlo.
Ma non reggeva e se ne accorse anche lui. Io intanto pensavo che era una fortuna che avessi nascosto Boby nello zaino invece che nel sacco a pelo…
La notte si accingeva a scorrere tranquilla tranne che per i terrificanti rumori che provenivano dall’esterno, quando penso a come mi sono familiari oggi non posso fare a meno di sorridere, ma allora…
Fruscii, scricchiolii, animali paurosi e cattivissimi aspettavano la’ fuori, in agguato. E poi iniziò a lampeggiare in maniera terrificante. I tuoni lontani ci mettevano ansia, la presenza dell’altro ci obbligava ad essere saldi…
E all’improvviso, mentre eravamo intenti a stringerci intorno alla torcia elettrica accesa ecco che da fuori proviene un rumore di unghie che grattavano sulla terra… un raspare ansimante. Qualcosa stava girando intorno alla tenda.
Poi tutto si calmò.
Fino al momento in cui una figura enorme non entrò nella tenda d’un balzo.
Lo stesso balzo che portò noi a correre fuori urlando ed inciampando nei sacchi a pelo.
Corremmo giù dalla collina con quanto fiato avevamo in corpo inseguiti da quel mostruoso essere peloso che… scodinzolava.
Era un bellissimo cane lupo nero. Si chiamava Dark, ma questo lo scoprimmo solo dopo.
Quando riprendemmo fiato eravamo giù dalla collina e Dark ci saltellava intorno.
Poi si mise ad andare avanti ed indietro, come a volerci indicare una strada sterrata che partiva più avanti.
La seguimmo, per un po’ e giungemmo ad un casolare, una luce brillava alla porta e noi, visto che Dark saltellava tutto contento proprio li, bussammo.
Dopo tre o quattro colpi la porta si aprì ed uno strano individuo con la barba si affacciò.
Non sembrava particolarmente stupito di vederci li. Ci chiese chi eravamo. “Esploratori” dissi io, “in missione” aggiunse David. “esploratori in missione” confermammo d’un fiato.
Il tipo ci fece accomodare, come se fosse del tutto normale per lui ricevere la visita di due esploratori di undici anni, in pigiama, nel cuore della notte.
Ci offrì del latte caldo ed iniziammo a raccontargli chi eravamo.
Ci disse che non aveva il telefono, quindi non avrebbe potuto chiamare i nostri genitori, ma che potevamo stare lì quanto volevamo.
Poi ci portò in soffitta, era un casolare molto vecchio e molto grande, e ci fece vedere cosa stava facendo.
Stava guardando le stelle con un telescopio.
Il resto della notte scivolò via ed io imparai a riconoscere Orione, Cassiopea, Venere, le orse, la stella polare e tante altre stelle, i cui nomi mi affascinavano e mi attiravano.
Eravamo li, nel cuore della notte, in una casa sconosciuta nel bosco, io, David, Bartolo, così si chiamava il tizio delle stelle, ed un cane.
Intorno a noi la notte si fece amica.

mercoledì 18 novembre 2009

every night

Ogni notte
prima di dormire
Prego di non sognarti
ma raramente il Signore
mi ascolta
E allora
mi sveglio
nel buio
e il ricordo di
Te
mi brucia l'Anima

lunedì 9 novembre 2009

China food


Sono stanco di questo venerdì. Le persone normali stanno preparandosi ad uscire.
Io invece sto solo ritardando il momento in cui tornerò a casa.
Ho fame. Sono più di ventiquattro ore che non mangio, ma non fa’ differenza.
Non è di cibo che ho fame.
È stato un venerdì piuttosto scevro di emozioni.
Decido di smettere di girare a vuoto in macchina e punto verso chinatown.
È molto che non mangio cinese. Mi sembra la sera adatta.
Parcheggio in un punto qualsiasi, di traverso su un marciapiede. La mancanza di sonno mi rende alquanto indifferente, del resto è un po’ che non mi curo delle cose.
Mi incammino tra quei radi passanti, tutti cinesi, che si attardano fuori da vetrine semichiuse che espongono cianfrusaglie rosso dorate, trionfo di un barocco a me incomprensibile, ma che pare renderli felici.
Negli orecchi mi risuonano incessantemente i Rammstein, ma sono solo dentro di me.
Gironzolo un po’. Cerco un posto speciale.
Finalmente trovo un buco in una via discosta, le lanterne rosse fuori indicano che si tratta di una rosticceria o qualcosa del genere.
I vetri sono oscurati da pennellate di grigio dato a tempera spessa, la porta è velata da una tenda di perline. Alcuni ideogrammi dorati salutano, laceri, gli avventori.
Ci penso mezzo secondo, mi vedo sorridere nel riflesso del vetro. Entro.
L’odore non è male, anche se colpisce il mio stomaco vuoto con la forza della sua estraneità.
Poi le orecchie si riempiono con un suono ritmato, violento, trattenuto per una frazione di secondo e poi scandito pesantemente. Tonfi sordi, da qualche parte più avanti, poi voci. Parlano in modo concitato nella loro bizzarra lingua di cui non capisco nulla.
Il pavimento è stranamente pulito. Pochi sgabelli da un lato, oltre il bancone su cui troneggia solo la cassa, accanto ad un doraemon giallo, che mi spia dagli occhi a fessura. La zampa alzata porta incisi degli ideogrammi. Mi affascina e la vecchia padrona grassa che spunta fuori da dietro il bancone mi trova così, intento a fissare la sua statuina portafortuna, o quello che cazzo è.
Sembra stupita di vedermi li. In effetti lo sono anch’io.
Poi esce un uomo in canottiera. Anche lui mi guarda. Devo essere proprio buffo stasera.
Io li guardo di rimando. Sinceramente non mi interessa cosa pensino o dicano. A stento mi frega di ciò che penso io.
Avanzo, lento come in un film. In realtà sto strascicando i piedi per dare tempo al mio cervello di assimilare i particolari. Sono bravo in questo.
Prendo un menù ed inizio a leggerlo con cura. In fondo questo sarà l’apice sociale della mia serata, perché non godermelo.
La porta dietro di me si apre, un refolo freddo mi raggiunge e qualcuno entra dentro, arriva di fretta al bancone e si mette a parlare con la padrona. Parla mezzo in italiano, mezzo in inglese. È un pakistano del cazzo. Dietro di lui entra un magrebino magrissimo.
Benvenuti nel melting pot.
Tutto questo lo annoto senza neanche alzare lo sguardo dal piccolo menù bianco stampato a caratteri rossi.
Ordino in fretta, poche cose. Mi sta già passando la fame.
Mi scosto dal bancone e mi appoggio al muro.
Dietro la porta oltre il bancone intanto i colpi continuano, anche le voci sembrano animarsi sempre di più. Probabilmente discutono del grande fratello…
Il paki intanto continua a tentare di farsi intendere dalla padrona, sfodera il suo inglese da punjab, ma non basta. Si volta verso di me mi chiede “understand?”
Certo che capisco cretino, ma decido di non interrompere il loro piacevole momento di integrazione socio culturale.
Quindi non gli rispondo neppure.
Il magrebino esce silenzioso. Evidentemente ha deciso che tutto quello non fa per lui.
Finalmente il paki sembra riuscire a far capire alla vecchia cinese grassa cosa vuole. Questa prende l’ordine e sparisce oltre la porta, lasciandola socchiusa.
Il paki si volta verso di me, ridacchia e mi ammicca complice.
Ti sbagli cazzone. Non siamo complici manco per il cazzo. Mi volto verso la porta da cui è sparita la vecchia.
Le porte socchiuse hanno sempre esercitato un fascino particolare su di me. Nuovi mondi dipartono appena oltre la soglia ed io devo solo guardare per coglierne l’essenza.
Scopro l’origine dei tonfi. Stanno tagliando la carne. Chili di carne, per la precisione.
Quattro persone in grembiule bianco sono intorno ad un tavolo. Calano delle mannaie enormi su dei pezzi di carne dalla forma indefinibile. Trinciandoli in grandi bocconi sanguinolenti.
Le mannaie calano sui taglieri, sincopate.
L’uomo più a destra è molto agitato. Quello a sinistra è oltre lo stipite e non lo vedo.
Quello di destra comunque colpisce il tagliere con molta foga, spargendo pezzi di carne ovunque, molti finiscono sul pavimento.
Ogni tanto si ferma e rovescia il contenuto del tagliere in un grande secchio di plastica arancione che ha ai piedi. Altri pezzi volano sul pavimento.
Lui si china, li raccoglie e li depone nel secchio, insieme agli altri.
Tanto io ho ordinato tofu con verdure.
Intanto che aspetto mi prendo una birra. È fresca e piacevole. Mi rimetto al posto di prima, contro il muro.
Oltre la porta intanto la situazione sembra farsi sempre più animata. Il tizio incazzato si china e fa una cosa stupefacente: rovescia l’intero contenuto del secchio, una decina di chili ad occhio e croce, in un sacco dell’immondizia nero, che poi chiude con cura. Decido di non pensare.
Tanto più che il padrone, il tizio con la canottiera di prima, viene fuori, mi guarda con astio e chiude la porta dietro di se.
Anch’io lo guardo, in fondo è un cinese interessante. E poi ha la canottiera pulita.
Mangio il mio Tofu con esasperata lentezza. Il paki invece la sua roba la porta via. O almeno è cio che vorrebbe fare.
Apre la porta, quella che da sulla strada. La soglia è occupata da un uomo in carrozzina. Sembra ubriaco. Ha un coltello in mano.
Il paki si ritira spaventato verso di me (devo proprio ispirare questa sera!).
Io mi scanso. Mi urta di più la puzza del pakistano che l’ubriaco in carrozzina che, anzi, mi ispira simpatia.
Non altrettanto al cinese in canottiera, che sbuca dalla porta misteriosa con una delle mannaie in mano (è pulita. Non so perché lo noto).
E urlando scaccia l’ubriaco con grandi gesti della mannaia.
Il pakistano lo ringrazia e se ne va.
Gli do due minuti di vantaggio, poi decido che è ora di andarmene. Pago con cinquanta euro. Prendo il resto senza contarlo. Esco di lì.
Fuori mi aspetta l’ubriaco che fa qualche metro dietro di me parlandomi in una lingua che mi pare slavo.
Mi volto, lui mi chiede dei soldi, minacciandomi di col coltello.
Mi avvicino a lui, mi fermo e mi accovaccio, raggiungendo la sua altezza.
Lo guardo in faccia e gli chiedo se davvero pensa di corrermi dietro in carrozina. Credo sia evidente che non mi frega un cazzo di tutto ciò che succede. Lui lo capisce e mi dice che scherzava. Ha paura di me. In fondo non sono proprio piccolo e quello in carrozzina è lui. Metto una mano in tasca e gli do tutti gli spiccioli che trovo con una manciata. Non so quanti sono, non li conto. Spero per lui fossero abbastanza per una birra.

martedì 3 novembre 2009

A friend of mine and a thunder, far away...


Oggi mi è tornato in mente Fabbrì.
Erano decenni che non pensavo a lui, oggi, non so perché, complice forse la malinconia della giornata, mi sono trovato a ricordare la sua voce. Mi è parso di sentirla dietro di me, ma quando mi sono voltato ero, naturalmente, solo.
Non credo nel soprannaturale, ma credo che il passato, a volte, rifiuti di scomparire, come invece proprio dovrebbe, nella maggior parte dei casi, almeno.
Dunque, Fabbrì.
Fabbrì è il fratello di Marco. Fabbrì era il migliore amico delle mie estati dai nonni.
Le estati più belle da che ho memoria e che hanno smesso di essere tali solo quando ho iniziato a crescere lontano da li.
Con Fabbrì giocavo a soldatini, con Fabbrì giocavo a batman (io) e robin (lui), ben prima che l’accoppiata fumettistica assumesse definitivamente i connotati gay che ha oggi.
Ricordo la sua bicicletta meglio della mia. D’altronde era assurda, aveva il manubrio alto come un chopper ed un rapporto di marce ridicolmente basso, quando pedalava Fabbrì sembrava un anitra che tenti di spiccare il volo e non ci riesca.
Giocavamo ai soldati, sempre in guerra col mondo dentro divise fatte di sacchi di plastica annodati.
Giocavamo alle olimpiadi, che lui non vinceva mai.
Eravamo un gruppo, io, Massi, Marco, Emanuele, Manu, Luca e due ragazze di cui non ricordo i nomi. Al solito, nemmeno mi curavo delle donne, che esistessero o meno a me era indifferente. E poi come soldati non erano un gran ché. Non riuscivano nemmeno a distinguere un inglese (soldatino giallo/verde in pantaloncini corti ed elmetto a padella), da un americano (soldatino verde scuro con elmetto tondo)… deficienti.
Erano “gli amici”, come li chiamavo io: “Nonna vado dagli amici…”, “ero dagli amici…”, “sono gli amici torno alle dieci”…
Fabbrì era l’unico che credeva che le mie croste da scarlattina fossero davvero cicatrici di guerra (la nonna di Fabbrì no, infatti per un mese non vidi più né lui né gli altri. Quando arrivavo io loro venivano misteriosamente richiamati in casa per fare i compiti…).
Ad un certo punto, verso i 13 anni, gli altri iniziarono ad interessarsi di altre cose.
Marco aveva la pallavolo ed una delle due di cui non ricordo il nome, ricordo solo che a me non piaceva.
Massi aveva strane cose in testa, che ad oggi ancora non capisco.
Luca ed Ema il calcio.
Fabbrì era l’unico che lottava insieme a me per impedire che quell’ultima estate d’infanzia arrivasse a conclusione.
Continuavamo ad andare in bici nelle ore di canicola, a rubare i fichi dall’albero della casa stregata, a cacciare le rane “giù al fosso”, a prendere a colpi di cerbottana la gente alla fermata dell’autobus.
Le mie armate di soldatini improvvisamente divennero inferiori alle sue, che aveva ereditato quelle del fratello, cui non interessavano più. Ma tanto Fabbrì faceva schifo a lanciare la palla da tennis contro il mio schieramento, quindi vincevo sempre io lo stesso.
La sera, mentre gli altri sembravano trovare interessanti i discorsi delle 3 o 4 ragazze di cui intanto il nostro gruppo si era circondato, Fabbrì era l’unico che volesse venire ancora con me ad esplorare le cantine buie in costruzione dei palazzi nuovi (in realtà ci voleva venire anche Pamela, ma io naturalmente allora non capivo e quando mi disse che avremmo potuto andarci soli, senza Fabbrì, io per tutta risposta lasciai lei lì ed andai con Fabbrì…pagherei per avere ancora quello spirito!).
Fabbrì…
Poi iniziai a passare sempre meno tempo dai nonni, erano arrivati gli scout, i miei avevano deciso che ero abbastanza grande per andare in Inghilterra ad imparare l’inglese ed improvvisamente le mie estati, che erano sempre state lunghe e roventi, quasi eterne, si accorciarono, fino a scomparire.
Quando il comune levò il fosso, nostra eterna trincea, giungla da esplorare, terreno di caccia e di paura, per farci passare una strada io non c’ero a guardare le ruspe che ci toglievano i ricordi. Infatti quasi non me ne accorsi.
Era rimasto solo Fabbrì. Lui se ne accorse senz’altro. Casa sua dava proprio sul fosso.
Non ho più rivisto Fabbrì. Però anni dopo, mia madre e mia nonna mi dissero la verità.
Fabbrì era autistico. Aveva dei grossi problemi relazionali. Lo sapevano tutti da sempre.
L’unico che non se ne era mai accorto ero io. Per me il fatto che balbettasse e sputacchiasse quando parlava non sembrava così rilevante. Invece lo era. Insieme ai disturbi nervosi e tanto altro, che per me era solo Fabbrì.
Quando seppi questo già non lo vedevo da anni. Ero grande e gli anni novanta mi avevano già portato via.
Da allora non ho più saputo nulla di lui. Quando mia nonna è morta ho smesso di avere notizie “degli amici”.
Fabbrì non è altro che un ricordo rimasto fermo all’età di 12 anni. Che non crescerà mai, non morirà mai.
Ora è insieme ai luoghi della mente. Quei posti che non esistono più se non dentro di me, cui resto fedele negli anni, popolati da persone che non sono più o comunque non più come le ricordo. Solo che ogni tanto la loro voce mi raggiunge, chiedendomi di aspettare, di non correre in bicicletta che lui non ce ce ce la fa a sta-a-a-rmi dietro. Ed io invece corro avanti, faccia al vento, sempre più avanti. In lontananza il tuono. L’estate stava davvero finendo.

venerdì 16 ottobre 2009

spared organs

La rabbia e la violenza sono l'unica via di fuga.
il massacro apocalittico dei peggiori B-Movie mi pare la redenzione dell'essere.
l'uomo scisso dai sensi è il parto di una eccessiva esposizione culturale.
il mio cervello è l'unico organo di cui davvero potrei fare a meno.

Schriftliche Sache

Il rifiuto del mito della perfezione euclidea con cui sono cresciuto, l'asimmetria giapponese, il bianco ed il nero schietti e contrastanti sono la spinta estetica che muove il mio senso creativo.
voglio inventare la scrittura asimmetrica, decostruire la sintassi e rivoluzionare il linguaggio dei miei libri.
voglio trasmettere il senso del ridicolo inevitabile, dell'ironia di vivere male, l'odio per ciò che è normale, tiepido, di massa che permane la mia visione della vita, voglio divertire col dolore, creare dei lettori-mostri, incoscienti, che guardino con orrore a se stessi perché si scopriranno a ridere della miseria e del dolore.
Voglio una scrittura limpida e lucida, che tagli la carta come una lama. voglio che le persone pensino a ciò che scrivo, riflettano sulla mie stesse recondide elucubrazioni, e dopo le accantonino come il parto di una mente malata.
e poi, una volta messomi da parte, tornino a godere il sole.

martedì 13 ottobre 2009

Whores – Puttane

Sabato sera ho regalato una coroncina di fiori ad una puttana triste e lei mi ha sorriso.
Sabato sera in effetti ho parlato con un sacco di puttane.
Più di quanto mi capiti di fare ogni giorno.
E mi sono pure divertito un sacco.
Laura, Anna, Cristina e altre di cui non ricordo i nomi ci hanno intrattenuto con le loro storie assurde, scherzi incomprensibili, bronci comprensibilissimi e mostrandoci parti dei loro corpi che normalmente non dovrebbero essere mostrate per strada.
Funziona così: quelle più carine vogliono 50 euro per farlo in macchina, 100 euro in albergo che, caso curioso, era lo stesso dove alloggiavamo noi… quando glielo abbiamo detto non ci credevano.
Comunque, il prezzario delle prestazioni va avanti.
Quelle meno carine ( o semplicemente in vena di promozioni), costano 40 euro. Valeria 30, ma aveva già avuto 2 figli e aveva le emorroidi (dopo questo particolare la voglia di scherzare con lei ci è un po’ passata, a dire la verità…).
Il culo generalmente non lo danno, ma se paghi, allora viene 80 euro (coerenti le bambine…).
Sono tutte bellissime. Davvero, non scherzo.
Ridono sempre e sono disposte a scherzare e a parlare, anche se capiscono subito che non le pagherai.
Sono maliziose e spregiudicate, divertenti, eccitanti, furbe ma con gli occhioni ingenui.
Poi ho pensato che per fortuna nella mia vita mi sono sempre dedicato a ragazze serie.
Per ognuna delle quali ho dovuto lottare mesi e mesi per far breccia nei loro cuoricini stretti.
Per le due più importanti addirittura anni.
Ho lottato contro concorrenti, fidanzati ed ex fidanzati, che regolarmente mi hanno minacciato di morte, pestaggi, riti vudù e altre amenità. Il più coglione pensava di battermi con una spada. Avesse scelto un’altra arma, forse. Ma con la spada…
Poi, dopo dura lotta, finalmente le ho avute… per pochi mesi. Di solito impiego più tempo a fidanzarmi che a farmi lasciare.
Nel mezzo, grandi promesse di amore eterno (eh si, sono uno che ispira…) felicità a tratti (come la nebbia sulla A22) e passione (sempre tanta, per la verità).
E poi… niente. Se mi va bene il vuoto, se mi va male, mesi (anni, a volte), di sordo dolore.
Loro invece impiegano pochissimo tempo per mettermi da parte (ehi, ma non mi amavi tanto? Come dici? Ah, era un’altra cosa… si, capisco, si, so come va.).
bhé, mi dico, in fondo Laura riesce a farsi un cliente ogni 12 minuti…
Vorrei estirparmele dal cuore, ma a volte è impossibile e torno a sognare gli amori perduti notte dopo notte, sogni che mi riempono di cicatrici, morsi per non urlare, ferite per scatenare le endorfine, buchi per la morfina.
Niente, sei condannato a vederle flirtare con i tuoi amici (in qualche caso anche con i tuoi nemici), a ricevere resoconti dettagliati di ciò che fanno da persone che si divertono nel colpirti dove fa male (non vi preoccupate, ho preso nota, prima o poi restituirò tutto, sono un tipo preciso, non mi piace avere debiti, neanche con i figli di puttana).
E poi, quando guarisci, ecco che tornano avanti, come se niente fosse, pronte a giocare con i sentimenti (che evidentemente a loro funzionano in maniera diversa, sarà che guardano troppa TV…).
Dio, quanto mi paiono oneste Anna, Cristina e Laura, che prendono solo 50 euro e un po’ di gentilezza…

venerdì 4 settembre 2009

Regretful Deaths I

L’incontro con la Morte è inevitabile, quotidiano, sillogistico (ricordate? Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, Socrate è la Morte …).
A me poi capita spesso di trovarmici faccia a faccia. Svolto l’angolo ed eccola là, che si pulisce le unghie indifferente, accovacciata su un disgraziato pensionato che ha attraversato la strada quando non doveva.
Non dimentichiamoci poi che ogni mattina mi affaccio dalla finestra e Lei mi fa un cenno distratto (non devo stare molto simpatico neppure a Lei, penso) agitando una delle piume dell’anitra morta condominiale.
La cosa strana è che per quanto si sforzi di apparire seria (una volta si è travestita da professoressa di latino, ma l’ho sgamata lo stesso. Ha potuto solo rimandarmi a settembre per due anni consecutivi, la puttana), spesso è grottescamente comica.
Alcuni dei miei incontri con la morte sono alquanto surreali, quasi imbarazzanti.
Prendiamo ieri sera ad esempio.
Lei, per ingannare il caldo di fine stagione, aveva deciso di farsi vedere dalle parti di S. Giusto, a casa di un vecchietto che, a dirla tutta, probabilmente sembrava già cadavere da almeno un paio di anni, sennonché il cadavere in fieri rantolava, muoveva gli occhi e tentava di esprimersi. Un cadavere tutto sommato socievole.
I familiari del cadavere next gen di cui tratto erano un po’ preoccupati perché l’infermieradomiciliareautorizzatasonoio aveva diagnosticato un’improbabile glicemia attestata intorno ai 30. Dato questo invero preoccupante, in tutti tranne che nel nostro simpatico protagonista, il quale, a mio modesto parere, poteva fregarsene della glicemia bassa, tanto erano in pole position disidratazione, dispnea e quella simpatica patologia che lo teneva allettato da anni.
Una volta fatto il nostro trionfale ingresso (salve signò, siamo i power ranger) e subite le presentazioni di rito (salve dottò, l’infermieradomiciliareautorizzatasonoio) iniziavamo le complicate manovre di soccorso che prevedevano che il cadavere (ancora non abbastanza piacente per i canoni estetici di Grey’s Anatomy) fosse riempito di buchi, prima, e tubi, poi al solo scopo evidente di migliorarne l’estetica generale, visto che altri risultati in genere non sortiscono (Disclaimer: tale affermazione è vera solo per i cadaveri next gen, tutti gli altri soggetti traggono giovamento e letizia dall’essere riempiti di buchi e tubi, provate anche voi.).
Ebbene, essendo che oramai dobbiamo mendicare gli strumenti professionali dato il costante malfunzionamento/mancanza/eccessivacervelloticità dei nostri apparecchi, chiedevo alla famiglia del simpatico ometto (che in tutto questo frangente aveva emesso tre rantoli, guardato un po’ a destra e un po’ a sinistra, giusto per far partecipare un po’ tutti), il permesso di utilizzare il loro apparecchio per la rilevazione della glicemia. A quel punto una voce autorevole si faceva immediatamente avanti e mi ricordava che l’infermieradomiciliareautorizzatasonoio (caso mai fossi stato distratto le due volte precedenti).
Ottenuto quello che presupponevo essere il permesso del superiore diretto di Dio sul campo, scoprivo che, a causa dell’ignoranza della suddetta, la lettura glicemica tanto allarmante era errata (non vi spiego i tecnicismi, ma è un po’ come se a casa chiamaste l’idraulico perché non riuscite a farvi la doccia tirando lo sciacquone… ma in fondo l’infermieradomiciliareautorizzataeralei…)
Il punto però è che a questo punto il dottore (quello vero, inteso come laureato in medicina, non in scienze del niente assoluto), assolutamente ignaro del fatto che il cadavere apparentemente pronto per la sepoltura in realtà aveva ancora ben più di un barlume di consapevolezza, iniziava ad istruire i famigliari su come “non restassero che poche ore” assicurandoli che “non avrebbe superato la notte” e che “al massimo domattina… sono gli ultimi momenti…” o la perla di saggezza medica per cui “inutile farlo morire all’ospedale è meglio che muoia qui”.
Il cadavere, protagonista di tante attenzioni, su cui concentravo il mio distaccato interesse mediatico, da principio si è guardato intorno, per quanto gli permettesse la sua precaria condizione di “già defunto, tanto…” come per cercare chi fosse il disgraziato di cui quel dottore ed i suoi amorevoli parenti disquisivano tanto amabilmente (sembrava rallegrarsi che non stessero parlando di lui… cavolo sfigato quel tipo cui tutto ciò che restava era la massima per cui “morire a casa meglio che in ospedale”) salvo poi accorgersi del disguido e roteare gli occhi freneticamente, come per comunicare il suo “che cazzo dici stronzo, sono ancora qui! Bastardi!” A tutti.
Ahimé, il dottore, l’infermieraautorizzataeralei ed il parentame erano troppo occupati a disquisire su come la prossima morte “entro la notte…” come puntualizzava imperterrito il dottore, sarebbe stata un sollievo ( per voi bastardi, per voi! Dicevano chiaramente gli occhi del terrorizzato giàcadavere che intanto aveva portato il ritmo del suo respiro rantolante in pari con quello di un Labrador e aveva aumentato di 100cc il contenuto del sacchetto del catetere)…
A quel punto non ho più retto ed ho riso in faccia alla Morte, ridicola, grottesca, vuota e misera. Esattamente come la Vita.
Per fortuna a me tocca un proiettile.

venerdì 31 luglio 2009

hate

Sogno di camminare in una città deserta, accompagnato da rock sparato ad altissimo volume, mentre intorno a me esplodono macchine e palazzi.
BUM, il supermercato salta in una palla di fuoco purificatore, BUM, il palazzo dove sta il commercialista, il condominio borghese dove non si può giocare a pallone e dove i cani non possono entrare, la gastronomia che ti fa pagare otto euro 100 gr di formaggio ai frutti di bosco.
sogno il caos primordiale del nulla sociale, l'assenza di convenzioni, leggi, limiti estrinseci.
Sogno l'annientamento dei parassiti, dei ricchi figli di papa nullafacenti, dei discotecari culturalmente vuoti, delle fighette troppo oche, delle sciampiste insignificanti e del codazzo di terroni montati privi di intelletto che le circondano sbavando sullo scollo provocante.
sogno la sparizione della categoria delle imprenditrici di se stesse, che per 3 ore di lavoro settimanale percepiscono stipendi mensili di 2.000 sporchi e fottuti euro, oltre auto e telefono, degli imprenditori che fanno 8 settimane di ferie l'anno ma che ti negano la tua unica settimana perché "c'è da lavorare", ma loro intanto sono al mare.
voglio che spariscano i notai, i commercialisti, i geometri e gli agenti immobiliari, ladri fottuti.
che muoiano infine quelli che vanno in giro con macchine che costano quanto un appartamento, comprate da padri troppo ricchi per capire qualcosa del mondo, e con loro quelle sciocche mignotte che si congratulano per l'acquisto come se avessero conseguito un titolo di studio o se avessero sudato anche solo per 10 centesimi del prezzo pagato.
Invidioso? no, non voglio quello che hanno loro, voglio che loro spariscano per sempre, inghiottiti dalla ragione, dall'altruismo e dalla comprensione.
fanculo a loro, pezzenti morali, privi di cognizione.
fanculo a voi splendide creature che vivete nell'illusione del divertimento forzoso, tirando le 5 tutte le sere per non pensare e riempirvi di vita, che vi fate ammirare per ciò che non siete e che cercate ciò che non volete,
fanculo anche a te, che ti fai beffe di ciò che provo, che ti fingi ignara e mi ignori persa dietro ad utupie personali vivendo una vita non tua,
e fanculo a te, Rafael, figlio di puttana, che predichi giustizia e ti scagli contro i forti, che ti immagini puro, ultimo cavaliere del cazzo e poi usi la tua misera intelligenza per umiliare pubblicamente chi non si accorge neanche che lo stai facendo.
tu, che baratti la fiducia di un semplice con la popolarità della massa ingorda, che scambi le risate di chi ti sta intorno per ovazioni e che fai tutto questo calpestando chi ha commesso il solo crimine di non essere all'altezza dei tuoi scherzi crudeli.
'fanculo Rafael, che le porte dell'inferno si spalanchino anche per te.

lunedì 27 luglio 2009

The Indian Summer

È notte ed esco a caccia.
Sono secoli che non lo faccio. Salgo per la strada, con il vento alle spalle. I lampioni della statale su in alto mi impediscono di vedere le stelle.
Ancora per poco, penso dentro di me. Accelero il passo. Mentre cammino veloce e silenzioso la mia mente è divisa. Una parte è viva ed è assalita dalla vita. Sento il profumo del bosco, la terra, lo scricchiolio leggero dei miei stivali (li ho preferiti agli scarponi perché magari mi risparmio le caviglie dai rovi che ultimamente non perdono occasione di flagellarle), il vento e altre mille sensazioni familiari.
Un’altra parte invece è immersa nei ricordi istintivi che camminare nei boschi da solo la notte fa affiorare.
Sorrido. Un’altra parte del mio passato di cui mi riapproprio.
Arrivato abbastanza in alto abbandono la strada e mi infilo nel bosco. La salita naturalmente è ripida, ma procedo rapido, quasi senza fatica. Mi piace scoprirmi allenato nonostante gli ultimi anni di nulla assoluto. Gli anni che ho impiegato per diventare “intelligente” mi hanno reso molle.
Avrei dovuto capirlo prima. Il rinnovato interesse per i viaggi, le uscite a piedi, lunghe ed appaganti su sentieri un tempo così familiari. La bicicletta, i progetti folli e, da ultimo, le arrampicate esaltanti e pericolose di domenica sono indizi chiari non posso più ignorarli.
Così come non ignoro cosa si nasconde dietro il mio rifiuto di unirmi agli altri nelle uscite serali.
Finalmente la statale scompare, oramai è buia ed indistinguibile, sono in alto abbastanza da rendere quasi ininfluente il bagliore dei lampioni del paese. Le case sono tutte buie da ore.
Il cielo è terso, le stelle finalmente si vedono. Non c’è la luna. Forse è già tramontata o forse è tempo di luna nuova. Un tempo lo avrei saputo senza bisogno di pensarci. Pazienza, tornerà anche quello.
Mi chino a spostare una pianta per vedere se sono su un sentiero o si tratta di una semplice pista di animali. Compiaciuto mi rendo conto che vedo ancora bene al buio, come è sempre stato. Spesso ho usato questo giochetto per fare colpo sugli altri, ma ancora più spesso l’ho usato per me. Da che mi ricordi non ho mai avuto bisogno di torce per camminare di notte.
Scollino e mi siedo, rivolto verso la montagna. Sono sudato in viso, addosso invece la camicia ha già asciugato tutto. Fa quasi freddo. Mi rilasso e seguo la linea dei monti che si stagliano contro il cielo chiaro. La notte mi entra dentro poco alla volta. Vorrei descrivere tutte le sensazioni, dalla consapevolezza dei piccoli sassi e della radice su cui sono seduto fino al calore che sento nelle mani. Ma è inutile. Chiudo gli occhi e lascio andare i pensieri, sperando che prima o poi decidano di tornare spontaneamente.
Sento improvviso un rumore. Avanti sulla destra. Un animale. La mia testa già lavora per conto suo. Sa già quanto è grosso, in che direzione (probabilmente) sta andando. Sul tipo di animale invece mi occorre un attimo in più. Per prima cosa penso ad una volpe. Potrebbe essere, ma era troppo veloce. Un gatto no, troppo lontano dalle case, e poi si sarebbe avvicinato a meno che non avesse una preda. Un topo, no, troppo piccolo. Un uccello non era, aveva quattro zampe, perché ad un certo punto ha saltato qualcosa. Non rimangono che lepri e conigli. Anche se alla fine, tutto sommato, anche l’idea della volpe riacquista consistenza. Non ho comunque intenzione di andargli dietro, quindi lascio andare la questione e penso.
Penso che forse non è esatto dire che sto tornando quello di una volta. Allora non sarei uscito senza la borraccia ed il coltello. Allora avrei camminato per raggiungere una meta, fissata in precedenza, oppure per fare qualcosa, fosse anche solo per esplorare o per giocare con altri come me.
Allora non avrei avuto la rabbia a spingermi in alto, non avrei cacciato i miei pensieri perché non mi seguissero (pensieri pallosi, per lo più), non avrei avuto la voglia di ululare e ringhiare verso l’alto che ho ora.
Magari sto diventando qualcosa di diverso ancora rispetto a tutto quello che sono stato finora. Tremo all’eccitazione che questo pensiero mi provoca. Gioisco all’idea di un Rafael solitario e feroce che si aggira in un mondo di ignavi inconsapevoli, dediti alla sciocca ossessiva pratica del divertimento socialmente appagante, che vivono inconsistenti vite di relazione con altri simili a loro e per i quali la notte vuol dire solo luce e rumore. Kurtz, tu solo sai lo schifo che provo. Kurtz, tu solo sai quanto sono forte, qui fuori da solo.
Kurtz, questa sarà un’estate indiana.

venerdì 17 luglio 2009

Kindness

Caldo e zanzare quest’oggi. Tanto per condire una giornata di struggente merdosità.
Tutto va in malora, ma porcoddio, solo a me?
Sono qua stretto nei miei confini pensando a cosa voglio fare della mia vita. La voglia di fuggire è tentatrice. Lascio tutto, vado, non so dove, semplicemente… parto.
Piacerebbe fosse così, ultima analisi di un bilancio non piacevole o primo anelito del giorno dopo domani?
Chissà se ancora riesco.
Vorrei. Tanto.
Vorrei tanto che di me si dicesse:
è cresciuto, liebchen
si è fatto strada
è andato ovunque
ha visto molto
ha imparato
ha conosciuto
ha saputo
per me e per altri
ha passato il peggio, ma ce l’ha fatta
non si è arreso
ha lottato sempre
ha guardato più lontano
ha urlato più forte
non si è annoiato
non ha mai voluto essere secondo
si è sempre messo dopo gli ultimi
ha servito
ha portato molti pesi
non ne ha lasciato cadere neppure uno
non ha lasciato indietro nessuno
ha camminato a fianco di molti
Il c’est ne pa ici
Sorrideva ad occhi chiusi
He is dead alive
R. è felice
‘fanculo.

mercoledì 15 luglio 2009

Brand Guerrilla: Enjoy, Think positive and just do it.


In questi ultimi tempi guardo molto la TV (un esempio ne è il fatto che un tempo la sigla TV, mentalmente la leggevo “tivvu” ora la leggo “tiviii” con lo stesso gridolino, mentale, di Homer Simpson…).
Probabilmente è un segno di depressione, un tempo avrei giocato ai videogame o avrei letto. Ma queste sono attività, guardare la tiviii è una non attività, semplicemente. Ad un certo punto comunque il mio cervello ha iniziato (da solo, io ero contrario, io volevo solo un’altra birra) a suddividere mentalmente gli spot in due categorie: quelli permanenti e quelli volatili. I volatili sono quelli che non hanno un messaggio forte sotto, quelli che semplicemente ti offrono due fustini al prezzo di un rasoio di cui l’unica cosa difficile è scegliere il gusto del GPL di serie della tua vacanza che passerai a bere brioblùmipiacitù.
Tra questi, ben nascosti, ci sono gli spot permanenti, quelli caratterizzati sia da un brand che da un messaggio. Mi spiego meglio: l’uomo nella sua evoluzione sociale, filosofica e culturale ha elaborato dei concetti teleologicamente molto complessi (e a volte molto stupidi, pensate al sillogismo o alla tripartizione hegeliana della realtà ontologica). Da dieci anni a questa parte alcuni geniali pubblicitari se ne sono appropriati: il carpe diem caro ad orazio (e alla mia generazione, grazie all’attimo fuggente), è inscindibilmente associato alla Nike (just do it: non ci pensare, fallo, comprati le scarpe dai che non le facciamo più cucire ai bambini cinesi o terzomondisti in genere). La tolleranza, la multiculturalità razziale (o la cultura multirazziale, se preferite) sono principi collegati strettamente ai maglioni colorati (hanno anche fatto una rivista, indipendente, sull’argomento: COLORS. Leggetela anzi, visto che è fatta al 95% da immagini, guardatela, merita). La tradizione familiare è barilla, lo style e l’eleganza si esprimono usando un computer sostanzialmente non compatibile che con se stesso, disponibile sono in toni di bianco o di nero, ma con una mela morsicata sul davanti. Nietzsche ha ceduto il suo concetto cardine alla Lacoste, che ci invita a diventare ciò che siamo, con un coccodrillo sulla polo. Se ci piace è Coca Cola (Enjoy!), se invece lo ami semplicemente è McDonald (I’m loving it, perdio!).
La cosa interessante culturalmente è come i brand di punta della nostra società (globale, of curse) stiano assumendo significati spirituali. Non ci invitano a comprare la loro merce. Ci chiamano a vivere secondo lo stile, il principio nazionalpopolarfilosofico cui si sono (auto)associati e di conseguenza, a comprare la loro merce che rispecchia il concetto/stato d’animo cui hanno deciso che dobbiamo aspirare.
Nella sostanza la cosa non è male. In se per se tutti i concetti propugnati sono essenzialmente positivi, migliorativi e superficialmente profondi (ossimoro, ossimoro, ossimoro, avevi promesso di non farlo più, cazzone!). il problema semmai è che, appunto, nella loro apparente profondità, sono piatti e superficiali.
Se il principio cardine della poetica di Orazio diviene uno slogan la massa lo utilizza come tale. Una specie di ritornello filosoficamente orecchiabile. Nessuno riflette realmente sull’invito a vivere la vita prima che questa sfugga irrimediabilmente (e non è certo colpa della Nike, magari è solo perché riflettere in generale è noioso e deprimente…). Comunque sia la cultura di massa se ne appropria come principio socialmente corretto, traghettando al contempo anche il brand, che magari qualche peccatuccio di sfruttamento terzomondista lo avrebbe, tra i politically correct o meglio tra i socially approved.
È pericoloso tutto questo? No, la consapevolezza ci protegge dall’omologazione. Almeno alcuni.

Questa transizione è recente, molto recente. Riflettete su quand’è che avete sentito per la prima volta l’invito Enjoy (2000), just do it (1998?)I’m loving it (2002/3?). la cultura della massa, che alla fine dell’ottocento aleggiava intorno ad astratti principi filosofici (lo stesso proletariato che diviene consapevole di essere tale grazie ad un borghesuccio mantenuto), fino a metà del novecento si costruiva intorno a principi socio-politici ambiziosi (socialismo, nazionalsocialismo, fascismo, liberismo, imperialismo) negli anni cinquanta-ottanta si sta forgiava intorno alla televisione (il mass-media per eccellenza).
Oggi, che da cultura dei mass media siamo passati ad una cultura multimediale (che non vuol dire cultura dei computer, come sperano di farci intendere da mediaworld), ovvero ad una cultura che si basa su molteplici ed eterogenee fonti: la radio, l’arte di strada, la comunicazione visiva, pubblicitaria in primis, la stereo tipizzazione della cultura classica.
Ascoltate radio deejay ad esempio. Sono fantastici, li conosciamo per nome, sappiamo cosa fanno, lo sport che prediligono, la musica che piace ad ognuno di loro… e non ci accorgiamo che NESSUNO di loro usa i congiuntivi quando parla. Normale direte. Si, sarebbe normale se fossero due ragazzini che parlano su un treno. Ma per radio diffondono cultura (scusate, la “c” la tengo minuscola, non vogliatemene), se loro usassero i congiuntivi, forse inizierebbero ad usarli anche i ragazzini sul treno. Lo stesso dicasi per la stereo tipizzazione della cultura classica. Siamo erroneamente convinti che chi legge molto è, per la nota proprietà transitiva del sapere cartaceo: colto.
e invece... credo vada chiarito come ci sia una sostanziale differenza di valore in quello che si legge: Ken Follet, Stephen King, Baricco, Benni, intrattengono, non fanno cultura. Sartre, Camus, Camilleri, Pratolini, Forster Wallace invece trasmettono pensiero, idee e contenuti, quindi sono cultura. Allo stesso modo di come le ricette di suor germana non sono cultura (oppure si? Forse forse…) mentre un saggio di filosofia classica di Canfora o di linguistica di Chomsky lo sono. (personalmente quindi non mi considero granché acculturato...).
in conclusione a questo post eterno (e probabilmente noioso, ma che volete farci, è il mio blog, decido io...) fottetevene della cultura associata ai jeans di marca e sceglieteli per quello che sono: un simbolo di appartenenza sociale. Sono il nostro burka e ne siamo orgogliosi. Almeno fino alla prossima stagione.

giovedì 2 luglio 2009

Aspects of an Undetermined Life

Aspetti della mia vita ignoti ai più.
E immagino che se sono ignoti, ci deve essere sicuramente un’ottima ragione.
Ci sono aspetti estemporanei, tipo che stasera la luna ha un lampione accanto. Intendo proprio accanto, alla stessa altezza esatta. Sopra gli alberi, si tengono compagnia, o magari si stanno sul culo vicendevolmente. Stasera sono in vena romantico riflessiva e sulla cosa potrei scriverci una storia, alla Saint Exupéry. Ma poiché ritengo che cosa sia blasfema preferisco parlarvi d’altro. (ah, sulla mia scelta stilistica di iniziare le frase con una congiunzione, una parentesi o con qualsiasi cosa mi vada dopo il punto ho già parlato, ve ne ricordate vero?).
Tipo il fatto che un’anatra morta si sta decomponendo da mesi di fronte alla mia finestra.
E non posso farci nulla. È lì, urla il suo memento mori in maniera più allegra di quanto fece savonarola. È apparsa un giorno immobile sul biancore del tetto dei garage, 4 o 5 metri oltre la portata della mia mano. Senza farsi notare ha attirato la mia attenzione e i miei vacui e ritorti pensieri mattutini. Se ne sta li, semplicemente, per i fatti suoi. Se non altro ha smesso di puzzare. Però si decompone inesorabile.
All’inizio la guardavo e pensavo a come toglierla di li. Poi ho smesso di pensare a toglierla, ho iniziato ad osservarla. Ad aprile le penne si sollevavano quando soffiava il vento, come un ciuffo ribelle sulla fronte di un ragazzino che corre (ancora quelle dannate foto. Devo smetterla di pensarci!). poi ha iniziato a ripiegarsi su se stessa, come un pallone da calcio di plastica che si sgonfia piano piano. Le penne non si alzano più, immagino che siano incollate ben benino da qualsiasi cosa stia imputridendo la sotto.
Non so cosa le sia preso per decidere di morire davanti alla mia finestra. Effettivamente se io fossi un’anatra non so dove mi piacerebbe morire (probabilmente alle anatre non piace morire in generale, ma tant’è…). Se fosse rimasta a morire sul fiume sarebbe affondata, magari avrebbe assistito impotente al rush finale tra la morte che l’ha colta e l’annegamento, stupendosi in ultimo del vincitore (l’annegamento probably). Se fosse morta sui sassi sarebbe stata semplicemente lavata via dalla pioggia che ingrossa periodicamente il fiume. Se fosse morta dalla parte di qua o di la della riva, ci avrebbero pensato i gatti. Non il gatto mucca, troppo fifone, né il certosino ficcanaso, troppo preso di se per abbassarsi a mangiare un cadavere anche se di anatra. Probabilmente l’onore sarebbe toccato al timido e modesto tigrato, il mio preferito, che ha l’aria di fare quello che gli pare stupendosi poi di averlo fatto.
Se fosse morta sul muretto ci avrebbe pensato la mia vicina impicciona (non a mangiarla idioti, a spazzarla via). Invece scegliendo di morire davanti alla mia finestra si è consegnata alla durevole memoria umana. Si sta decomponendo al sole, alla pioggia, al vento, lontana dai predatori, dai vermi, dagli scarafaggi, dai ragazzini rompicoglioni, dalle vicine, dai padri di famiglia zelanti (effettivamente l’idea di avere un’anatra morta condominiale deve contrastare alquanto con la loro idea di decoro). È un anatra rivoluzionaria, si sta decomponendo ed in culo a tutti. Non so quanto impiegherò a dimenticare l’anatra morta. Un anno o forse dieci (ehm… dimenticavo, non ci arriverò tanto in la’…). Magari anche chi legge la storia dell’Anatrachesidecomponeva la ricorderà, per un po’, almeno.

venerdì 19 giugno 2009

stars and nails

Invidio le stelle rotolanti
senza chiodi fissi
cui ancorare pensieri immoti

lunedì 15 giugno 2009

Out of focus pictures


Le foto mi scorrono tra le mani come se fossero le pagine di una rivista dove qualcuno si è divertito ad inserire la mia vita in ordine sparso.
Le faccio scorrere, passandole una ad una rapidamente. Giusto il tempo di riconoscere volti e ricordare nomi che oramai mi sono meno familiari di quanto lo siano Julien Sorel e Andrè Bolkonsky.
Odio le fotografie, stasera più che mai, ma non posso fare a meno di scorrerle tutte. Sono quasi 100 e congelano attimi passati, troppo lontani e troppo felici per non procurare un sordo malessere.
In alcune foto ho meno di 10 anni, in altre 16, 18. Nessuna oltre il mio 20 anno di età.
Alcune sembrano prendere vita, le più vecchie. Vedo la scena andare avanti, mia madre che prosegue il suo gesto interrotto, mio fratello che si volta, il ragazzo di cui non ricordo il nome che passa oltre, riuscendo finalmente, dopo 20 anni, ad uscire dall’inquadratura. Spero per lui che quello che avesse avuto da fare quel giorno non fosse poi così urgente…
Tutto è pervaso dagli stessi colori troppo saturi che hanno le foto degli anni 80. Colori che ti si appiccicano agli occhi, scalfendo i contorni dei piumini, dell’erba, delle luci. Sono foto impressioniste, mi aspetto quasi di vedere gruppi in frack e cilindro che fanno colazione fra l’erba o dame coll’ombrellino che passano dietro ad un me stesso dimenticato.
Poi arrivano le voci, i rumori, la palla che finalmente arriva a meta, inseguita da me, stefano e luca. Passo la foto e faccio un salto indietro di 4 anni. Sono alla stazione, sto partendo, ho lo zaino in spalla. Anche qui sento le voci degli altri ragazzi intorno al me stesso di allora, il rumore dei treni, la puzza della stazione. Ho sete e vorrei prendere l’acqua gusto plastica che la borraccia gio style che ho al collo sicuramente contiene.
Avanti piano, la mia promessa in reparto, la foto di classe, due spettacoli teatrali, io a londra, io a Budapest, io a ‘ffanculo.
Alcuni volti si sovrappongono a volti che ancora mi sono cari. Andrea e David alla chiusura del 1990, ma mi pare quasi che non siano le stesse persone. Altri volti non si sovrappongono a nulla, sono semplicemente rimasti per sempre a quell’attimo. Non più rivisti, non sono mai cresciuti o invecchiati. Essi sono i più fortunati.
Altri volti semplicemente spariscono. Leonardo, Riccardo, Alessio, il prof. Giorgi. Li guardo, sembrano lasciare uno spazio vuoto nelle foto, quasi che morendo si siano portati via anche le loro immagini. Uno scriveva poesie ed è morto soffocato, l’altro faceva forca con me alle superiori e si è sparato in bocca tre o quattro anni fa.
Alcune foto fanno male più di altre. La ragazza che ho amato. Il mio migliore amico. Il cutty sark. l’atmosfera di un viaggio che non si replicherà mai più. Tutto è andato. Tutto è perduto, sciupato, bruciato, perfino. Ed a me pare di non essermene accorto. Come se ad un certo punto di un viaggio in treno mi fossi assopito e poi, aprendo gli occhi all’improvviso, mi sia reso conto di essere quasi arrivato, di aver dormito per la maggior parte del tragitto, durante il quale molti compagni di viaggio siano scesi ed io non li abbia potuti salutare.
La cosa peggiore di tutte però è il mio volto sereno. In quelle foto, in tutte, sorrido.
Sorrido davvero, non il ghigno forzato delle foto di maniera cui devo saltuariamente sottostare, ma un sorriso vero. Penso: ero felice. Davvero felice. E mi domando quando io abbia smesso.
La stessa domanda me la pongono gli altri volti intorno a me, paiono guardare oltre la superficie bidimensionale della foto. Ne posso, oggi, intercettare lo sguardo di allora. Alcuni mi sorridono, altri mi guardano con aria interrogativa, taluni sembrano aspettarsi qualcosa. Ed io non ho risposte per loro. Sono felice che non possano aggredirmi.
Dannate fotografie resuscitate. Erano nascoste in uno scatolone, seppellito in una cantina non mia, in mezzo a vecchie cose dimenticate. Sono riuscite a farsi trovare da qualcuno che ha pensato le volessi indietro e me le ha riportate. Così mi hanno raggiunto di nuovo. Proprio oggi che dubito di volere che la notte ceda il passo al giorno, stanotte né la morfina né l’alcol riescono ad allontanare il dolore. Domani, domani sarò forte abbastanza da riuscire a fuggire di nuovo, ma non stanotte. Stanotte sono solo, fuori della mia finestra anche la notte tace. Tacciono le rane, tace il fiume. Macchine non ne passano più ed è troppo presto per il primo treno della mattina. Mi par di vegliare con il freddo cielo, di cui non scorgo le stelle. Mi scuoto.
Le foto cadono a terra. Le calpesto, passo oltre. Le voci si perdono in distanze misurate in decenni, i gesti tornano a cristallizzarsi, i colori riprendono il loro lento decadimento.
Mi rifugio in un nuovo libro e spero che il sonno mi venga in soccorso, portandomi l’oblio spossato e senza sogni che agogno.

lunedì 8 giugno 2009

The SEXy AND THE exCIT(Y)ed women

OK bimbe, non leggete questo post, non è per voi. Se lo leggete potreste pensare che io non sia il romantico gentiluomo che voi invece sapete bene io sono… vi ho avvertite.
Questo interminabile finesettimana mi sono annoiato.
Non è una novità in verità, succede spesso. Annoiandomi mi sono rivisto un paio di puntate di una serie Tv che mi ha insegnato molto sulle donne. (Avete indovinato, proprio quella, bravi, sapete leggere i titoli dei post…).
Non fraintendetemi, non ti insegna qualcosa delle donne, ma sulle donne. Ovvero come vedono se stesse.
Da quando ho capito questo molte cose mi sono apparse immediatamente più chiare e… ne ho tratto vantaggio.
Infatti ognuna di quelle splendide creature dietro alle quali perdiamo tanta parte del nostro tempo (in pensieri e parole ed omissioni più che in azioni, citando l’atto di dolore chiesastico), è intimamente convinta di ricalcare in tutto o in parte il carattere di almeno una delle quattro tardone protagoniste della serie.
La serie di per se non fa che osannare il mito della donna intelligente e autonoma, che si, si lascia coinvolgere da storie strampalate ma che alla fine, qualsiasi cosa accada, ha le sue amiche con cui condividere tutto… (si lo so, viene da ridere anche a me, ma loro ci credono).
Ecco allora che si profila all’orizzonte un ottimo argomento di discussione indiretta. Prendete un episodio qualsiasi, ricamateci un po’ sopra, raccontatelo come esperienza vostra (ricordatevi di convertire al maschile le esperienze di vita vissuta, mi raccomando…) e loro sapranno che voi siete un ragazzo sensibile, dolce e che ha molto in comune con loro… ma non è finita qui: fase seconda, passare all’attacco.
Ricordatevi: se volete portarvela a letto (tra noi non c’è bisogno di sparare cazzate giusto? Se voglio parlare o andare in un posto esco con gli amici quindi se esco con una…) dovete essere quello che la capisce profondamente. In linea generale basta annuire qua e là, dargli ragione e assumere un aria interessata anche quando vi parla di quanto è stronza la sua amica del cuore che ieri si è comprata il completino intimo sexy di hello kitty proprio uguale al suo (bleah!) anche quando poi cambia argomento per dirgli di quanto vuole bene alla sua amica del cuore perché “ha i gusti proprio come i miei, ci piacciono le stesse cose… e… …”.
Comunque, per dimostrare la vostra profonda comprensione del suo animo intimo e segreto dovrete solo sforzarvi di individuare quale dei quattro modelli lei prenda a riferimento per se stessa e lasciare andare un commento tipo “ehi, sai che parlando con te mi viene in mente Miranda, sei intelligente, ironica e parli bene …” oppure “Hai più classe di Charlotte, sei sicura di non abitare a New York?”. Omettete, almeno al primo appuntamento, qualsiasi riferimento a Samantha (anche se funziona bene dopo che avete preso confidenza…) ripensandoci su Samantha va alla grande “che storie, sei proprio una che gli uomini li maneggia come vuole, li prende, li lascia a seconda di come le occorre. Anche se scommetto (sorriso e sguardo intenso) che quando ti innamori sei dolce e fedelissima…”.
In ogni caso, qualsiasi frase utilizziate (fatelo anche random, va bene comunque), finite sempre con l’immancabile “ ma in fondo sei più simile a Kerry, indipendente, colta (?!), e decisamente sexy”… funziona, ve l’assicuro. Sono fatte così, hanno bisogno di modelli cui illudersi di somigliare.
Attenzione però che la cosa funziona meno con altre serie TV, quest’inverno a Lucca Comics, al banco del GLN dove presenziavo, si è presentata una ragazza, amica di non so chi. Il posto era pieno di Cosplayer, quei tizi che invece di vestirsi intelligentemente da orchi, elfi e guerrieri, si travestono da uomo ragno, sailor moon o altro. Ebbene io, convintissimo, le ho fatto i complimenti per il suo costume da Ugly Betty.
Non era un costume. Quindi occhio alla serie che scegliete.
Tornando all’origine del post, tutto questo mi ha fatto tornare alla mente l’amarezza per l’inconsistenza dell’universo femminile, almeno come lo percepisco io.
le dolci fanciulle di cui ci invaghiamo non cercano in noi un ragazzo/fidanzato/scopamico. Cercano più qualcosa tipo un animatore da villaggio turistico. Qualcuno che le faccia ridere, telefoni spesso (4 volte al giorno è il minimo per rassicurarle che le amate) salvo poi lamentarsi perché “non dici niente…” (cazzo, ti ho sentita a pranzo, ora sono le 17, nel mezzo ho dormito, cosa vuoi che ti racconti?), le porti fuori a qualsiasi ora (ma le amiche non ce le avete? O quelle sono solo per la Passerella il giovedì sera?), a cena, in giro, ovunque, l’importante è che non rischino di annoiarsi. Tappe d’obbligo sono l’aperitivo la domenica pomeriggio è d’obbligo, così come il mare d’estate. anche se devi lavorare tutta la settimana, il fine settimana è tutto, obbligatoriamente, loro. Sappiatelo.
Infine non dimenticate che l’animazione della relazione (concetto di alta psicologia di coppia postmoderna) include anche una profonda e reale considerazione dei loro Problemi. Sia si tratti di apparenti cazzate tipo che gli sia saltato l’appuntamento per la lampada (oh povere… ma attenzione, non sottovalutate questo tipo di Problema, potrebbe riverberarsi interamente addosso a voi e allora entra in gioco l’assioma, la soluzione al Problema è: non dartela…) sia che abbiano perso un parente. Considerando che hanno un Problema praticamente ogni giorno…

Bene. Questo è, in estrema sintesi (maschile) il rapporto uomo/donna aggiornato al 2009 ( a proposito non provate a dir loro che i test su facebook sono una cagata da sfigati come cento vetrine, grande fratello, talpa, amici, et similia e che guardare la TV di pomeriggio lo fa solo chi non ha un cazzo da fare nella vita, dire queste cose è un affronto che non può essere perdonato…).
Finalmente quindi ho capito CiòCheSiDeveFareAffinchéUnaRelazioneFunzioni. C’è però una cosa che sfugge.
Perché se a volte i problemi capitano a te, e purtroppo succedono anche a te, e magari il problema è di quelli che ti fanno stare male dentro, come se si fosse rotto qualcosa che ti legava a te stesso (e lei non c’entra, anche se magari potrebbe fare molto per aiutarti a riaggiustarti), il primo giorno sono amorevoli, anche un po’ invadenti come se si aspettassero davvero che il bacino sulla bua metta a posto le cose… (ah, la bua è sempre più in alto di dove diciamo noi…).
Ma poi, se stai male un po’ di più o dura un po’ di più (e stranamente i problemi seri, quelli difficili da esprimere, durano tutti di più…), allora iniziano i guai.
Smetti di essere interessante e divertente con loro e per loro, percepiscono che non hai molta voglia di andare in giro a “divertirti” se stai male… insomma diventi noioso e non vai più bene. E se non vai più bene hai un paio di giorni per rimetterti in riga (“io ho provato a farti capire che mi stavo allontanando, ma tu eri troppo chiuso in te stesso, non mi hai lasciato spazio” ipocrita del cazzo!) altrimenti saluti e tanto peggio per l’Ideale.
La cosa incredibile è che questo succede sempre con le tue storie importanti, non con quelle frequenti solo per aver qualcuna intorno o che non prendi in considerazione per altro che il letto (o la macchina, il dormitorio, i cessi della P.A. …).
È una realtà consolidata dall’esperienza. E anche se ora lo so, non mi abituerò mai.

mercoledì 3 giugno 2009

Swimmin’ in Marshmallow’s jam

Non è una canzone degli smashing pumpkins.
È la trasposizione figurativa della sensazione di impotenza assoluta, quasi onirica, in cui in certi passaggi dello stupido copione in cui sono invischiato mi costringono.
Immagino che succeda anche ad altri di passare momenti in cui qualsiasi cosa fai, dici, pensi, ti si ritorce inesorabilmente contro. Bene, oggi mi sono reso conto di nuotare nella marmellata con cui titolavo.
Non è tanto la sfiga, con cui convivo amabilmente da anni, quanto l’impossibilità fisica di arginare l’onda che sale. Pensate a quelle vecchiette che quando gli si allaga casa prendono scopa e cenci e tentano di spazzare in strada l’acqua che entra da tutte le parti. Quale gesto più sublime ed inutile di questo? Eppure… serve. Almeno non devono stare impotenti in un angolo a guardare l’acqua salire.
Se davvero questo blog fosse il mio personale surrogato dello psicologo, come a volte sostengo, ora seguirebbe una lunga elencazione di sventure di fronte alle quali mi pare di nuotare nella melassa… sono anche sicuro che tale elencazione farebbe deflagrare l’ilare sogghigno di molti (ad esempio sono assolutamente impotente contro l’assurdo vortice Kafkiano che ha ingoiato la mia macchina nuova, oppure verso il fatto che di fronte a Lei le parole mi tradiscano e, sensazione per me sconcertante, si tramutino, , in confusi balbettii e ogni mia affermazione, battuta, timido tentativo di conversazione divengano puttanate tragicamente fuori luogo, il cui unico risultato è farLe apparire in volto un’insegna luminosa con su scritto “ma che cretino”…).
Non ho però intenzione di fare tale elencazione catartica, preferisco soffermarmi sulla mancanza di rimedi escatologici (catartica… escatologici… parlo come un cretino, scusatemi, ma purtroppo i termini corretti sono proprio quelli li.).
Intanto, ad esempio, devo provvedere a farmi una ragione che l’assoluta onnipotenza della volontà è una cazzata.
non è un concetto filosofico di Nietzche, ma la favola educativamente propizia con cui hanno cresciuto tutta la mia generazione: “se vuoi ce la fai… se vuoi ce la fai”. Il mantra dell’inutilità. Spero che i genitori di oggi abbiano cambiato registro, magari con un più realistico “lascia perdere… fottitene.”
Dicevo, è una cazzata perché molto poco di quello che accade intorno a noi viene influenzato dai nostri desideri, azioni o sforzi morali. Almeno nulla di ciò che conta davvero. Noi, semplicemente, non facciamo la differenza. Ecco che allora viene a galla la frustrazione dell’impotenza quotidiana, diversa da quella del risultato impossibile che pure mi distingue, contro cui tendo costantemente e da cui il vento forte delle avversità mi respingono. In molti più campi di quelli che sarebbe per me salutare fossero.
Tutto questo mi porta a volgermi indietro e riguardare il cammino intrapreso per arrivare ad essere quello che sono e mi rendo conto che forse, forse, ci sono state occasioni in cui avrei potuto fare la differenza e non l’ho fatto. Prendiamo l’amore ad esempio (si lo so, lo prendo spesso ad esempio, ma che volete, devo pur far contente anche le telespettatrici... in fondo è un blog per famiglie).
Mi domando se in qualche punto, quando sono passato attraverso le molte separazioni conflittuali che mi caratterizzano, ci sia stato un attimo, anche uno solo, in cui avrei potuto voltarmi indietro, tornare sui miei passi, abbracciarla e dirle “non ti preoccupare, io sono ancora qua, andrà tutto bene” lenire il dolore, portare… serenità. Oggi, mentre digrigno i denti perché mi sembra di non riuscire ad andare avanti in nulla, a tormentarmi davvero sono quei quattro passi indietro che non feci.
Allora.

martedì 26 maggio 2009

Blut und Boden

Sangue e suolo.
È un vecchio principio nazista, stava ad indicare i due valori supremi per il Volk nazionalsocialista.
Sono passati 70 anni e siamo di nuovo qua. Il nostro mondo, inteso come quella parte di complesso sociale che riverbera i suoi effetti sulla nostra sfera individuale combatte di nuovo per questo arcaico principio, forse in assoluto il primo ad essere formulato dal pensiero sociale primitivo (Carl Schmitt sarebbe d’accordo con me, Chomsky forse no).
L’altro, l’estraneo, lo straniero (avete letto tutti Camus vero?), spinge per entrare nei confini del nostro mondo. che sbarchi a Lampedusa, si rivolti a Parigi o a Lione, stupri nei parchi, ci venda la droga per il nostro svago finesettimanale o ci derubi personalmente, Loro sono qui. Noi questo lo percepiamo attraverso i sensi, tutti e 6 (ultimamente ritengo che la TV, facendoci percepire accadimenti, sensazioni e paure a noi lontane come nostre proprie sia divenuta uno dei nostri sensi, il sesto). Ecco dunque che l’uomo nero arriva. E noi non possiamo far altro che difenderci.
Lo facciamo ricorrendo ad un altro istinto arcaico. L’affidamento di massa. Ci affidiamo all’alto, allo stato/europa/polizia perché tuteli i nostri beni, alla chiesa/volontariato/carità perché tuteli la nostra ipocrisia. Le risposte a questa invasione (lo è, credetemi, stanno arrivando davvero, come sono arrivati gli unni, i vandali, i germani, i longobardi etc etc, quasi per gli stessi motivi di allora, tra l’altro), noi le percepiamo e basta. Per il resto non agiamo minimamente. In prima persona noi non ci difendiamo, non accogliamo non aiutiamo. Personalmente non ci muoviamo né in un senso né nell’altro. Ci limitiamo ad approvare o disapprovare la politica governativa attuale (o meglio, quello che la TV ci trasmette della politica governativa) a seconda del nostro colore politico. Non perdiamo neppure tempo ad interrogarci sulla portata di alcune decisioni politiche, ci limitiamo ad un sillogismo neopolitico tipicamente itagliese: sei di sinistra: lo fa Berlusconi, quindi è sbagliato, sei di destra: lo fa Berlusconi quindi è giusto. Non mi stancherò mai di dire che Aristotele dovrebbero eliminarlo dalle nostre scuole insieme all’educazione civica (serve a un cazzo) e al Manzoni (ma a chi cazzo frega di Renzo e Lucia. Tra l’altro, in che edizione del Grande Fratello erano questi? La 4a mi pare?).
Comunque torniamo a loro quei fetenti puzzoni amanti delle gite in barca che riempiono le nostre strade e la nostra indignazione: immigrati, zingari, albanesi, rumeni (ma chi cazzo li ha fatti entrare in europa questi trogloditi?), negri, pakistani, cingalesi, filippini (eh no cazzo, i filippini no, altrimenti chi riassesta casa alla liberal chic che pretende di essere pure di sinistra?) ecc. ecc.
Cosa facciamo con Loro? Effettivamente siamo in balia Loro: il 75% dei reati viene commesso da Loro, che sono meno del 10% della popolazione. Wow, ma allora basta eliminarli e tagliamo la criminalità di tre quarti (c’eri già arrivato da solo eh? minchia, dovrebbero farti ministro...).
Ho letto che un rumeno ha fatto una rapina in un ufficio postale, gremito di gente, con un taglierino in mano. Ora, perché non hanno reagito? Perché non hanno preso una sedia, un palo divisorio, le loro stesse mani e in 15 non l’hanno finito a calci e pugni? Avevano paura.
Cammino per strada e vedo che la reazione tipica di chi viene avvicinato da un ambulante, che venda accendini o rose è lo stesso, è di ignorarli. Ignoriamo le persone che ci chiedono di acquistare qualcosa. Non ci parliamo mai. Eppure non ci derubano, ci vogliono vendere qualcosa. Noi li ignoriamo e basta. Abbiamo paura.
Io personalmente dopo un paio di sere così baratterei le rose per il taglierino, non so voi.
Forse dovremmo semplicemente iniziare a reagire. A vederli. Tutti, i cattivi, tanti, i buoni, che sono sicuramente di più. Reagire alla loro presenza nel bene e nel male e farlo fino in fondo.
Forse davvero potremmo cambiare alcune dinamiche sociali del nostro “mondo”.
Ma non servirebbe a molto comunque. Loro vinceranno. Loro sono talmente disperati che lasciano tutto, attraversano il deserto a piedi e arrivano qui a mangiare la nostra merda. Loro si fanno saltare in aria per i loro ideali. Noi per i nostri al massimo cambiamo canale.
Loro non hanno paura, o meglio, ne hanno e molta, ma di cose diverse.
Loro vinceranno. E probabilmente è giusto così.
In culo alla politica.

venerdì 22 maggio 2009

Rage I

Post un po' politico, un po' filosofico, sicuramente lungo e noioso. non vale la pena leggerlo.
Rabbia. È l’unico sentimento che ci possiamo permettere, noi pochi infelici disadattati. Siamo nati in un mondo che ci va stretto, di cui, sostanzialmente, non capiamo le dinamiche ed i meccanismi.
La gente che ci circonda ci paiono teatranti ignavi, legati a particine sterili, miriadi di comprimari scialbi.
Un tempo lottavamo per la sopravvivenza. L’uomo era una razza determinata. Si lottava giorno dopo giorno e ogni primevo tramonto cui i nostri antenati si affacciavano era una vittoria.
Poi lottavamo per espandere i nostri confini, per sopravvivere meglio, perché la nostra comunitas fosse più ricca e potente di quella vicina. Ci siamo evoluti e la lotta ha iniziato a perdere il suo significato primitivo. La sopravvivenza in gioco ora non è quella dell’individuo ma quello della realtà sociale in cui eravamo immersi. La guerra divenne elemento preponderante del nostro essere quotidiano.
Poi, nel medioevo, la lotta si scisse in miriadi di sfaccettature, tutte espressione dello stesso concetto: lo scontro.
Da una parte lo scontro di masse, popoli migranti contro gli autoctoni, barbaros contro poleicos, barbarorum contro cives, poi barbari contro barbari: unni, vandali, germani, poi visigoti, ostrogoti, longobardi, rus, sassoni e franchi. Poi ancora vichinghi, mori e turcomanni, infine kazachi, mongoli e tartari.
Dall’altra scontri locali, altrettanto cruenti: comune contro comune, feudo contro feudo, signore contro signore.
Infine apparve anche lo scontro individuale, per i principii: cavaliere contro cavaliere, eroi contro potenti, san Giorgio contro il Drago.
Anche allora l’Uomo lottava e ogni sera, dopo la battaglia, l’Uomo era sazio.
Passano i secoli, cambiano gli ideali, ma la lotta rimane, sempre più estesa, sempre più organizzata.
Anche la lotta individuale rimane quale sfogo concreto della pulsione recondita all’omicidio, alla distruzione alla necessità di sopravvivere intesa nel senso estrinseco, sopravvivere a qualcun altro.
L’ultimo secolo infine è stata l’apoteosi della lotta, il carnaio disumano della Grande Guerra, dove la lotta viene privata anche dei suoi valori di facciata, della morale propria di ogni fazione. Lo scontro è tutti contro tutti, fino alla fine. Si combatte con i fucili, con le baionette, le bombe, le vanghe, i coltelli, i gas, le mani, i denti, i sassi. Si combatte nel fango per sopravvivere al giorno, come millenni prima.
In ogni combattimento la rabbia ti porta avanti, finché ce n’è. Quando questa finisce, ti svuoti e muori.
Poi arriva la seconda guerra mondiale, la guerra giusta per tutti.
Era giusta per i tedeschi, che portavano scritto sui cinturoni le parole Got mit Uns e, probabilemente ci credevano.
Giusta per i francesi, i polacchi e gli olandesi, che erano stati aggrediti e che, naturalmente, scordavano che appena 20 anni prima hanno vessato fino alla fame l’odierno aggressore. Era giusta per i sovietici, che inalberavano il loro rosso vessillo per la grande guerra patriottica di liberazione. Stalin, con i suoi venti milioni di morti purgati dal suo regime passa per un liberatore, quasi un bonaccione nei confronti di Hitler, lo sterminatore del popolo di Davide.
Era una guerra giusta per i giapponesi, che allargavano il loro spazio di influenza nel nome del loro arcaico imperatore-dio. Lo era per i finlandesi, che combattevano contro i sovietici che tentavano da anni di sovietizzarli, per gli ungheresi ed i rumeni, più o meno per gli stessi motivi.
Naturalmente lo era anche per i mitici soldati statunitensi ed inglesi, che sono sempre dalla parte del giusto, in ogni caso e circostanza. Lo hanno pure scritto sulla loro cazzo di costituzione.
Era una guerra giusta per i cinesi che si liberavano dal giogo di altri cinesi nel nome di un contadino ignorante e fanatico dalla pettinatura ridicola.
Era una guerra giusta anche per il Brasile, anche se nessuno ha mai capito perché…
Infine era giusta anche per noi italiani, anche se abbiamo combattuto prima da una parte e poi, quando ci ha fatto comodo (oops, volevo dire quando ci siamo liberati del pelatone, cattivone), siamo diventati tutti partigiani.
Comunque sia abbiamo lottato, e tanto. Dopo abbiamo ricostruito.
I nostri genitori? Loro avevano lotte ideologiche, il ’68, le lotte per i diritti civili, aborto e divorzio in testa. Poi il rock’n’roll, il sesso libero e sfrenato (in realtà rispetto alle 16enni di oggi erano tutte educande, ma non lo ammettono), il Vietnam, la droga come stato della mente.
Anche li la rabbia veniva ben utilizzata.
Oggi invece? Per cosa cazzo combattiamo oggi? Per i soldi e per le donne. Sono le uniche cose che ci premono. E la rabbia ribolle dentro, senza possibilità di sfogo alcuno. Ci hanno levato la guerra e ci hanno dato il calcio. Non esiste più lo scontro individuale, ora al massimo abbiamo il televoto. La sera non siamo mai completi. Dateci, vi prego, una scusa per poter uccidere il nostro prossimo. Una qualsiasi, ne ho bisogno.

mercoledì 20 maggio 2009

Fears and Escapes in the sadness of a late spring night


Paura. Sono attanagliato dalle paure più assurde.
La notte spesso mi sveglio reduce da spaventosi incubi… inconsistenti come pallidi fantasmi orgiastici, ebbri di fantasie astruse.
Nelle mie paure non temo mai per me o per la mia incolumità, anzi quegli incubi dove alla fine trapasso, mi danno sollievo. Perché con il mio provvidenziale decesso l’incubo finisce e non continua come altri. Eh già, perché gli incubi li ho anche a puntate. Nel senso che mi sveglio da un incubo, magari in un'altra stanza rispetto a dove mi ero addormentato, a me capita, mi calmo, magari torno a letto, leggo un po’ e, mezz’ora dopo, appena mi riaddormento, ecco che riprendo l’incubo esattamente dal punto dove l’avevo lasciato. Sono incubi gentili, mi aspettano.
Sogno di tutto, i miei gatti, tutti quelli che ho avuto e che sono morti, e sono sogni tristi. Sogno della mia ex, sogno che ora stia con uno dei miei migliori amici, ed è un sogno disperato (quando ti sottraggono anche gli amici, vuol dire che è stato un divorzio pessimo e che dovresti cambiare avvocato…). A volte sogno di uccidere altri, che conosco o che ancora non conosco… li uccido al termine di una lotta barbara, primitiva, in cui incasso molti colpi, spesso vengo ferito da armi bianche, che mi terrorizzano, ma poi uccido il mio avversario. Fin qui è un sogno normalissimo. Il fatto è che lo uccido in modo catartico. Con le mani, con i denti, non uso mai armi. L’ultima volta ho ucciso uno strappandogli la trachea a morsi. Ho sentito perfino il sapore del sangue, non potete immaginare la sensazione che si prova ad avere la vita di un’altra persona, che odi, tra i denti ed in effetti mi ero morso il labbro a sangue. Questi sinceramente sono sogni che generalmente apprezzo, liberatori. Di questi sogni mi spaventa solo il fatto che prima o poi lo farò davvero. ucciderò qualcuno a morsi. Quindi siete avvertiti, non fatemi incazzare.
Sogno, stereotipo notturno classico, che un pericolo incombe, spesso non riesco a vederlo o a capirlo, ma so che c’è, lo sento dentro. Sento che devo fuggire, ma non ce la faccio. Le gambe non mi rispondono, le braccia neppure, mi sento soffocare ma sono lucido e attento. Vedo tutto e penso che potrei arrivare a pisciarmi a letto. Se solo fossi ancora a letto, naturalmente.
Questi sono i sogni mi fanno fuggire (ah, la fuga, quanto adoro la fuga come soluzione ai problemi della vita, ma ne parlerò un’altra volta) (ehi, l’ultima frase funziona anche se sostituite la “u” con la “i”…). dicevo che questi sogni terrificanti mi fanno fuggire, letteralmente. Scappo, corro, urlo, mi impiglio nei lenzuoli, sbatto contro le porte, mi perdo dentro l’attaccapanni e alla fine mi sveglio. Da qualche altra parte.
Ma i sogni più terribili sono altri, sono quelli come quello di questa notte. Sono quelli dove sogno Lei. Dove sogno di sfiorarla, di baciarla, di stringerla. In sogno sono felice, finalmente. Vorrei che non finisse mai e non mi rendo conto di stare solo sognando. Non c’è rabbia in quei sogni, solo amore. Sono sogni bellissimi. Ma dolorosissimi.
Alla fine infatti mi sveglio e in un attimo mi rendo conto di aver solo sognato. e rimango pieno di amarezza per giorni. Non posso nemmeno scappare, perché il sogno mi ha regalato l’illusione della realtà e da essa non c’è fuga non c’è liberazione. Non posso strappare la trachea alla realtà.

giovedì 14 maggio 2009

unrecoverable choises

post programmatico privo di interesse e di senso compiuto, solo per ricordare a me stesso che non durerà ancora a lungo.
sapete, è esistito un conte polacco, un tal Potocki, grande viaggiatore, uomo di cultura eccezionale, scrittore la cui opera, dopo 200 anni, è ancora ricca di contenuti moderni.
ma non è della sua opera che parlerò, ma di un episodio su cui rifletto da anni.
Bene, il conte di Potocki, ad un certo punto della sua vita, stacco il pomello della sua teiera d'argento, a forma di fragola.
Con una lima, delicatamente, iniziò ad arrotondarne le forme. pochi colpi di lima al giorno, un giorno dopo l'altro. per anni.
i suoi familiari naturalmente gli chiedevano ragione del suo quantomeno singolare hobby. Lui semplicemente non rispondeva.
con costanza limò la fragola d'argento fino a farne una sfera perfetta. a quel punto rimirò il suo lavoro, immagino anche con una certa soddisfazione, caricò la sua pistola utilizzando la sfera d'argento come proiettile e si sparò. semplicemente.
Un pazzo? non penso. credo anzi ci voglia una lucidà estrema per applicarsi costantemente ad un progetto di tanto lunga durata. un depresso? può darsi, ma se lo era davvero, avrebbe trovato un modo molto più semplice, e veloce, per farla finita. invece no, ha scelto di metterci anni, di applicarsi con costanza alla sua dipartita.
e sapete una cosa? io quando penso a lui sorrido. mi immagino la sua soddisfazione quando ad ogni domanda, ad ogni sofferenza, ai momenti no, lui rispondeva con un colpo di lima. quando la gente gli chiedeva cosa facesse lui probabilmente sorrideva e rispondeva "niente". come farei io.
ecco, quello non era un gesto di disperazione, ma di consolazione. per anni, il conte Jan Potocki, è vissuto con la consapevolezza che, qualsiasi cosa accadesse, lui già sapeva come sarebbe finito e quanto mancava. ed era una sua scelta. io lo ammiro e non mi stanco di sorridere, pensando a lui e oramai sono anni che lo faccio. peccato che non usino più le teiere con i pomelli a forma di fragola.
R.

lunedì 11 maggio 2009

Deeply sunken hours and the unpredictable projects…


È sparita la luna,
Le pleiadi. Notte
Alta.
L’ora del tempo varca.
Ed io dormo
sola.

È singolare, ma la poesia che più mi rappresenta in questo periodo è stata scritta da una donna più di 2500 anni fa. Coglie, credo, l’essenza di quei momenti di solitudine notturna, quando è troppo tardi per dormire e troppo presto per alzarsi, in cui i tuoi pensieri si attorcigliano su se stessi e tu ti autopensi. Cartesio era un dilettante in confronto ad un qualsiasi erratico non dormiente moderno. Tipo me, per esempio.
Non dormo, ma non è una novità di oggi. È di oggi invece il pensiero di come spesso la nostra testa viaggi qualche mese nel futuro, a dispetto di noi e, soprattutto degli altri.
Ho sempre pensato che fare progetti strampalati fosse per me l’alternativa alla noia quotidiana di cercare di essere quello che dovrei, ma che non sono sicuro di voler essere. Va avanti così da anni. Cambiano solo i protagonisti passivi, le mete, i mezzi. Il resto rimane invariato: Io.
Prendiamo due esempi catastroficamente distanti fra loro: l’amore e le vacanze.
In entrambi i casi mi pare di spiccare voli omerici, sorretto da ali di cera, con la somma incertezza se alla fine mi scoprirò Deadalus o Icarus. Arriverò a destinazione o cadrò perché oso troppo?
L’obiettivo è sempre un passo troppo in là. Lo scelgo, inconsciamente, apposta. Odio la mediocrità di ciò che faccio (Ok, ok, l’ho già scritto… sono noioso e ripetitivo, ve l’avevo detto di smettere di leggere e di seguire il link in fondo alla pagina), ma quando sogno, progetto, mi innamoro… volo molto alto.
Quindi ogni volta eccomi pronto a gettarmi a copofitto in imprese fantastiche, avventurose, intense e potenzialmente molto, molto pericolose. Soprattutto per me.
Viaggiare fa parte di me, sono cresciuto viaggiando. Anche letterariamente. I miei autori preferiti di quando avevo 12 anni scrivevano di viaggi fantastici ed avventurosi (Jack London, Jules Verne, J.R.R. Tolkien).
A 18 anni leggevo di altri viaggi,più maturi e impegnati (J. Kerouac, il Che, B. Chatwin). A 25, complice la scoperta che con lo zaino e a piedi si va davvero dappertutto, ero tornato all’avventura classica (J. Conrad, Steinbeck). A 30 ecco che rispunta la filosofia del viaggio come ricerca interiore: Junger, Langerdorff, Malraux, Hopkirk.
Oggi guardo i Simpson.
La stessa escalation l’hanno avuta i viaggi: ho iniziato a viaggiare da solo (o almeno con gente che non conoscevo prima) a 13 anni, quando i miei hanno deciso che ero grande a sufficienza per andare a Londra da solo a studiare l’inglese. Avevano ragione, naturalmente, anche se di inglese non imparai nulla.
A 16 ero di nuovo lassù, anche a 17 e 18 anni. Amo Londra, amo l’Inghilterra.
Poi ho iniziato a girellare l’Europa. Un po’ a caso ed in modo assurdo. Per aver compiuto il mio dovere di studente ed essermi maturato ufficialmente ho vinto un mesetto a Budapest, in un appartamento preso in affitto (in realtà era subaffittato da dei ragazzi all’insaputa dai genitori di questi, che erano a loro volta in vacanza), con il mio amico Stefano. In quegli anni ho maturato anche la predilezione per i posti sfigati nei momenti sfigati: c’era la guerra in Jugoslavia? Io ero lì a fare il bravo scout e ad aiutare i profughi (non ci fate caso, ero anche comunista). C’era la guerra in Albania? Eccomi, pronto, guidavo la jeep della P.A. che dall’aeroporto militare di Tirana portava i feriti ai vari ospedali, appena arrivavano freschi freschi con gli elicotteri militari (la Cinza è rimasta l’unica con cui condivido questo ricordo oramai decennale).
Anche la bicicletta ha sempre avuto un certo fascino per me. Su di essa sono arrivato a Budapest, anni dopo mi sono arrampicato sui passi alpini per raggiungere Salisburgo, partendo da Innsbruck.
Poi sono andato in treno fino a Praga, poi in Polonia poi ancora a Budapest, Vienna, Bratislava, Monaco.
Ho studiato mesi e mesi da a Friburgo, per re-imparare il tedesco perso nella mia infanzia, imparando al contempo una notevole dose di parole intime in Svedese, Norvegese e spagnolo. In quei mesi riuscivo a dire ti amo a 4 persone contemporaneamente in 4 lingue diverse. Chissà se poi davvero ci credevano come dicevano.
Anni dopo sono arrivato fino a Capo Nord, dove, il 18 di agosto, una tempesta di ghiaccio e neve ha abbattuto la mia tenda e mi ha costretto alla fuga notturna (e allo scontro con una cazzo di renna suicida ed incazzata, ma questa è un’altra storia). Tutto rigorosamente con i mezzi trovati sul posto. Pensate che abbiamo finito i soldi più o meno a metà della Norvegia. Abbiamo risparmiato fino all’eccesso, non mangiavamo quasi niente e dormivamo per terra nelle stazioni. Fino al momento in cui abbiamo scoperto che rubare nei supermercati norvegesi è facilissimo. Da li in poi…
Viaggi complicati? Forse.
Pensate che un anno ho deciso che volevo vedere il Perù. Sono stato via più di un mese, ho viaggiato sulla panamericana (la stessa che ha percorso il Chea suo tempo, ma in direzione opposta…), sono arrivato a Macchu Picchu… a piedi. Ci ho messo 4 giorni per arrivare fino lassù, giorni in cui camminavo 14 ore e crollavo morto le altre 10. Faceva caldo, avevo la peggiore dissenteria della mia vita (la diarrea ed i viaggi sono inseparabili, ricordatevelo). Ma sono arrivato e me lo ricorderò per sempre. Ricorderò per sempre anche che il 21 di agosto di quell’anno, verso sera, prima di crollare pensai che quello sarebbe stato per me il giorno più difficile della mia vita, ero sfinito, i miei compagni di viaggio stavano male, persino Marco aveva vomitato per la fatica e lo stress. Non credevo che avrei mai patito tanto di nuovo. Mi sbagliavo, il 21 agosto dell’anno dopo moriva mio padre per un cazzo di errore medico. Odio le coincidenze.
Poi sono andato in Africa. Ci tornai con Marco e con la mia ragazza di allora (che è stata la mia unica Fidanzata, finora). Sono partito da Dakar, in Senegal, abbiamo attraversato il paese, poi il Gambia, poi siamo andati a pescare con i pescatori di li ed ho imparato cosa vuole veramente dire Insch’Allah. Siamo risaliti verso il Mali e, abbiamo preso un treno fantastico, con la gente sul tetto e gli animali dentro. Fino a che un ponte crollato non ha costretto tutti i passeggeri a guadare il fiume con i bagagli sulla testa per poi riprendere il treno di là del ponte. Marco si è beccato qualcosa che pareva a tutti malaria ma che dopo un po’ è guarita. Siamo andati verso Timboctou, solo per scoprire che l’idiota di conducente che avevamo preso aveva voluto risparmiare sulle gomme. Fermi nel deserto per 11 ore, fino all’arrivo di una jeep di simil banditi, che poi sembra che invece fossero governativi. Mai chiarito del tutto. Intanto noi ci eravamo bevuti tutto il radiatore, mitigando il sapore di motore con l’aspira effervescente. Timboctou. Città magnifica, ogni volta che ci penso mi viene da piangere per la nostalgia. Mal d’Africa? Non lo so ma vi giuro che è lì che ora vorrei essere.
Poi il Burkina Faso, Ouagadogu, il Niger, Niamey ed una pletora di posti incredibili nel mezzo. Cattedrali fatte di fango, fiumi larghi, mangrovie, scorpioni, un varano di un metro e mezzo nel cesso mentre pisciavo. personaggi strani, compagni di viaggio improbabili.
Tutto questo è il mio viaggiare. Fatto di luoghi e di persone, ma soprattutto di compagni di viaggio. Li scelgo con cura e confeziono la meta del viaggio su di loro. Scelgo mete impegnative e persone interessanti. Tutto è sempre andato bene.
E finora ho sempre pensato che tutto sarebbe continuato così. Bastava scegliere una meta e andare, partire. Al massimo c’era da convincere gli indecisi. Di solito io organizzo e propongo e le persone mi seguono e arricchiscono il viaggio. Ho sempre pensato che tutto dipendeva da me e che ogni ostacolo potesse essere superato. Purché io lo volessi.
Oggi ho scoperto invece che ci sono cose più grandi di me. Cose contro cui non posso fare nulla. Battaglie che non si possono vincere, ma solo combattere.
Qualcuno mi ha detto qualcosa oggi. Ed il mio viaggio di quest’estate è andato in una zona di discussione.
Una voce beffarda dentro di me ripete: Insch’Allah, cazzone. E ride.
Vedete, ho passato l’ultima settimana a programmare, leggere, studiare mappe, pensare e sognare l’avventura estiva. Ed in tutti i miei pensieri eravamo almeno in tre. A volte potevamo essere quattro, o cinque o di più. Ma i tre di base c’erano sempre, non cambiavamo.
Oggi non siamo più tre ed io mi sono reso conto che così non è più lo stesso viaggio. Ha un sapore diverso. Un po’ amaro.
E non so che fare. Arrendermi o continuare a progettare? Ci sono davvero cose che non posso realizzare? Posso vincere il destino di qualcun altro anche solo per 15 giorni? Per la prima volta ho paura.
Ok, questo era il viaggio, direte, ma l’amore? Cosa c’entra?
È la stessa cosa. Le stesse difficoltà e, soprattutto, la stessa paura: che alla fine non dipenda da me. Che, per quanto io faccia, lotti, soffra, a lei non importi. Ed io non so se potrò farci nulla. Anche qui, per la prima volta, ho paura.