giovedì 22 luglio 2010

Summer Snakes

Che palle.

Arrivare alle tre e trentacinque rigirandosi nel letto sforzandosi di dormire.

E invece riesco solo a pensare a storie prive di senso e pensieri girovaghi e tortuosi, che si rincorrono seguendo intricati percorsi fatti di memoria, rancori e tanti se.

Decido di arrendermi all’evidenza. Niente sonno. Tanto vale scrivere.

Scrivere di tanto tempo fa. Di quando da grande volevo fare il naturalista.

Ecco, a pensarci bene fare il naturalista mi sembra un po’ generica come professione. Un po’ sfumata.

Ma era comunque un passo avanti. Alle elementari infatti avevo in testa un’altra professione. Volevo fare il principe. La vedevo come un ottima scelta. Mi piaceva tutto dell’idea di fare il principe da grande. Soprattutto la spada, il cavallo e la principessa. Anche la guerra immagino.

In classe mia, alle elementari, non è che godessi di un’immensa popolarità. Tutt’altro.

L’idea che volessi fare il principe poi infastidiva molti. Si perché gli altri, i normali, si dividevano in futuri calciatori e futuri poliziotti (alle ragazze non ho mai chiesto cosa volessero fare da grandi. In realtà alle ragazze non credo di aver chiesto proprio nulla alle elementari. Per me erano parte della classe, come i banchi e le sedie, solo che loro, stranamente, facevano educazione fisica con noi, i banchi no).

E incredibilmente a dirsi, i calciatori erano più simpatici. I poliziotti invece non li sopportavo proprio.

Avevo con loro tutta una serie di discussioni incentrate sul ruolo politico-sociale che le rispettive figure lavorative rivestivano per la società contemporanea. Soprattutto alla luce delle teorie di Foucault.

- Da grande farò il poliziotto perché è il più meglio assai (che ci volete fare, abitavo a San Paolo…)

- Ah si? Io invece faccio il principe.

- Il poliziotto neppure lo sa cosa che minchia è un principe (questo probabilmente è vero…), perché è più importante lui assà.

- Il principe se vuole licenzia il poliziotto.

- I poliziotti sono fichi. Hanno le pistole e se vogliono ti sparano e poi t’ammuortano ( evidentemente Nicola studiava logica aristotelica…) .

- Io ho la spada e comunque ho l’armatura. Puoi sparare quanto vuoi.

- E iì t’arrest’!

- E io ti faccio decapitare te e tutta la tua famiglia.

A questo punto era troppo tardi per salvarsi dalle botte che inevitabilmente prendevo a raffica da tutti i futuri poliziotti presenti. Erano decisamente troppi.

Il problema è che a me i libri avrebbero dovuto levarmeli subito, finché avevo ancora speranza di diventare un ragazzo normale. Magari dovevano obbligarmi a giocare a calcio… ora sarei fidanzato, probabilmente.

Come la storia del naturalista di cui vi dicevo…

Il problema è che avevo scovato l’anello di re salomone, libro capace di traviare anche le menti più solide con storie di anatre e pappagalli. Scritto da Konrad Lorenz.

La mia idea quindi era di vivere in una casa di campagna circondato da tutti gli animali che mi piacevano di più, tra cui rientravano, abbastanza incompatibilmente, orsi e leoni, ma anche papere, scimmie ecc. ecc.

Nel libro si diceva come lui avesse iniziato studiando la natura e raccogliendo ogni tipo di animale.

Ecco, se quello bisogna fare per essere accettati quali naturalisti, bhé, quello avrei fatto.

Così le mie estati dagli zii, dove l’immensa campagna maremmana ampliava moltissimo le mie possibilità, divennero infiniti giri solitari, nelle ore più impensabili, alla ricerca di tutti gli animali. Noè mi faceva un sega a me.

Quel pomeriggio in particolare era di canicola pesante. Tutti dormivano o riposavano in pace da qualche parte all’ombra. i miei erano al mare, che è a due passi. Io non avevo voglia di dormire. Ho sempre odiato dormire per la verità.

Così mi incamminai per la strada che divideva i casolari dei miei zii, poco oltre le stalle. L’unica sveglia a quell’ora era Rondinella, che era il cavallo di mia cugina e che occasionalmente potevo cavalcare anch’io.

Mi ricordo perfettamente la strada, circondata dai campi. Tutto intorno a me era giallo o ocra intenso. I campi di grano, le sterpaglie, i campi di girasoli. Persino le colline verso Allumiere erano ocra bruciata. E così per chilometri. Camminavo lungo la strada, uno stretto nastro di asfalto che da una parte raggiungeva l’aurelia.

L’aria vibrava di colore, le immagini tremolavano e in mezzo andavo io, vestito nei modi assurdi in cui si vestono i bambini se li lasciate fare. In testa avevo il cappello dei mangimi purina. Ne andavo fiero, perché nella mia mente assomigliava molto ai cappelli con la falda ripiegata dei soldati australiani. Almeno nei soldatini che avevo io. Ai piedi dei sandali di gomma rossa mezzi rotti, del modello che, se eri un bambino negli anni ottanta, non potevi non avere. Ti facevano puzzare i piedi in modo fantastico. Un giorno con quelli e la sera potevi stare ore ad annusarti i piedi e a togliere le pellicine. Probabilmente era per questo che i bambini di allora li adoravano.

In mano uno stecco lungo, un po’ fucile e un po’ spada. A seconda delle situazioni.

Camminavo e ogni tanto entravo nei campi. Quelli che mi ispiravano di più, alla ricerca di animali. Speravo di trovare i conigli o le volpi che si incrociavano la notte, su quella stessa strada, quando venivano stanate dai fari dell’auto e restavano a fissarti con gli occhi luminosi finché non passavi.

Invece trovai una vipera sotto un sasso. Grossa anche.

A me i serpenti hanno sempre fatto paura. Ma ero un naturalista. E i serpenti... Beh, non ero troppo sicuro ma… magari Lorenz l’avrebbe presa con se. Aveva preso le allodole e le anatre.

Mi avvicinai e lei si mosse. Troppa fifa per fare altro: trasformai il mio stecco in una spada e vibrai un paio di fendenti alla testa. Lei morì travolta dalla mia superiore abilità con la spada. Avevo ragione io. Gli fa una sega il poliziotto al principe.

Avevo un trofeo e… si, potevo comunque studiare la vipera morta. Corsi indietro e sgattaiolai in cantina, dove erano riposti i barattoli per quando si sarebbe fatta la conserva, appena avessimo finito di raccogliere i pomodori dai campi.

Tornai sul posto e, dopo un po’ di esitazione presi la vipera per la coda. Cazzo se era grossa. Tenendola davanti a me quasi toccava terra. Quasi. La infilai nel barattolo e tornai verso casa. Sapevo che dovevo immergerla nell’alcool se volevo che si conservasse (non ho mai capito perché i bambini, tutti i bambini, sanno queste cose assurde… è l’istinto di chi si mette nei guai?).

Quindi giunto a casa prendo un boccia di alcool rosa, apro il barattolo e inizio a spruzzare la vipera, nell’intento di sommergerla.

Solo che dopo pochi secondi questa inizia a muoversi, agitandosi un sacco e sbattendo da tutte le parti per tentare di uscire dal barattolo (questo a Lorenz non era capitato di sicuro, merda). Non so con quale istinto ma tappai subito il barattolo.

La vipera era chiusa dentro, incazzata per lo scherzetto dell’alcool e mi guardava con uno sguardo molto poco rassicurante. Almeno pareva a me.

Che cazzo ci facevo ora con una vipera incazzata in barattolo? Di liberarla neanche per idea. Ora sapeva anche dove abitavo.

Perché quando servono gli adulti non ci sono mai? Dovevo cercarne qualcuno. Qualcuno in gamba. l’unico posto che mi veniva in mente era il bar del paese. È sempre aperto e c’è sempre qualcuno. Ma era tanta strada da fare a piedi. Quindi il principe naturalista si ricordò del suo cavallo. Era bianco, si chiamava Graziella e aveva un pedale fatto di legno e scotch. Perfetto.

L’unico problema era dove mettere il barattolo. Nel portapacchi neppure per idea. Se si liberava non volevo averla alle spalle mentre pedalavo ignaro. Nei film finivano sempre male quelli che pedalavano ignari con il pericolo alle spalle. Eppure c’era anche la musica che cambiava, avrebbero dovuto accorgersene. Invece mai. Non si rendevano mai conto di un cazzo e continuavano ad andare e aprivano quella cazzo di porta.

Allora, pensai di metterla davanti a me in un cestino. Che la bici non aveva. Ma la zia si. Se ero veloce, magari non se ne sarebbe mai accorta. Tanto ci teneva solo gli aghi e i fili.

Legato alla meglio il cestino alla bici ci ficco dentro il barattolo con la vipera che pareva ancora maledettamente incazzata. Porca merda.

Mezz’ora di terrore dopo ero dentro il bar. Era uno di quei bar che vendevano di tutto, dai gelati alla pasta, dal sugo ai sottaceti. Era buio come erano tutti i posti pubblici d’estate, prima che arrivasse l’aria condizionata. Ed era semivuoto. Un paio di ragazzi ai videogame, il barista addormentato sulla sedia vicino alla cassa, un paio di signore sedute che si sventolavano con i ventagli e che, annoiate, aspettavano di morire.

È incredibile come i bambini sopra i 5 anni divengano improvvisamente invisibili. Fina 4 anni, 11 mesi e 30 giorni, ovunque vadano vengono circondati da folle affettuose intenzionate a chiedergli le cose più assurde, così, per vedere se sanno parlare, o a tocchicchiarli ovunque, nella speranza che questi siano così educati da ridacchiare. O peggio, tentano di baciarti. Io odiavo essere baciato e toccato. Soprattutto dalle vecchie.

Comunque in quel periodo ero,come ho detto, invisibile.

Infatti entrai e nessuno mi cacò nemmeno di striscio. Faceva troppo caldo per cacare un bambino con un cappello ed un barattolo, immagino.

Mi resi conto che non c’era nessun adulto rassicurante a cui affidare la vipera, la quale, tra l’altro, nel frattempo pareva essersi un po’ calmata.

Ci pensai su e decisi che questa storia mi aveva un stufato.

Pensai quindi che, se avessi lasciato la vipera da qualche parte, qualcuno l’avrebbe trovata e avrebbe risolto il problema. Tuttavia ora io non volevo più entrarci nella questione. Infatti, passata la paura, mi rendevo conto che, se qualcuno raccontava ai miei che me ne andavo in giro con un serpente velenoso in un barattolo, ne avrei buscate fino a natale. E natale era lontano.

Quindi di lasciarla sul bancone neppure per idea.

Mi guardai intorno e la soluzione venne da se. I sottaceti. Splendido, i barattoli erano anche simili.

Appoggiai con discrezione il barattolo sullo scaffale, lo spinsi dietro la prima fila e mi defilai.

Chi abbia trovato la vipera non l’ho mai saputo e Konrad Lorenz aveva smesso di essere questo mito assoluto.

lunedì 12 luglio 2010

Party Girl

Ho conosciuto la mia party girl venerdì, alle 6.45 di mattina, in centro.

Esatto gente, è proprio un’altra di quelle storie fantastiche piene di supereroi e sarcasmo, con una vena di malinconia di fondo che solo alcuni tra voi sono in grado di percepire (alcuni “i”, sia ben chiaro…).

In sottofondo suonano i Radiohead, fuori la notte è calda e appiccicosa, nemmeno le rane hanno più voglia di fare casino. È tardi anche per loro. Uno strano insetto cammina sulle mie parole, cercando di intercettare il cursore. È simpatico, ma non troppo sveglio. Lo manca sempre.

Sto bevendo the bollente. Lo so, sembra una cazzata. Almeno a me sembrava una cazzata in Mali, dove l’ho imparato. Invece, se bevi the bollente quando fa caldo, tutto va a posto. Credetemi, funziona.

Comunque, la mia party girl ha 8 anni. Ed è incazzata. Molto incazzata. Probabilmente ha ragione lei.

Appena arriviamo a casa sua, io e quei tre sfigati che mi sono rimasti per squadra, conosciamo sua madre.

Neanche quarant’anni, un tempo molto carina (a giudicare dalle foto sparse un po’ ovunque), le tette in evidenza sotto una camiciola il cui mestiere non era certo quello di coprire alcunché.

La casa invece mi piace. Piccolissima, con un soppalco su cui è stato posto un letto matrimoniale e un armadio. Un tavolo, un paio di librerie, quasi null’altro. Semplice e carina.

La conversazione si fa subito surreale:

- ‘giorno.

- …. …. …. (lo so, ma alle 6.45 non sono molto comunicativo)

- Ècheiononnepossopropriopiùnoncelafaccioadandareaventicosìèildiavolo.

- Signora, mi hanno detto che c’è una bambina che non va di corpo.

- Cosa?

- Non caca.

- Chi?

- Non lo so, signora, me lo dica lei.

-

- Signora?

- Mi butta le cose in terra.

-

- Io glielo ho anche date.

- Ha fatto bene.

- Ma lei me le ha ridate più forte!

- Scusi, ma quanti anni ha?

- Chi?

- La bambina, gesù!

- 8 anni

- E perché non gliele ha ridate più forte ancora? (empatia,la mia si chiama empatia)

- Mi hanno detto di chiamare lo psicologo.

- Ottima idea, allora noi possiamo andare…

- No, mi ha dato l’appuntamento a tra un mese e io che faccio intanto? (non so, un corso di autodifesa?)

- N., vai a vedere la bambina, intanto.

- È di sopra.

- Quassù non c’è…

- Sinascondesempreioglielodicomaleisbattelecoseperterraeivicinisilamentano,anchelorochevogliono,èlabambinamicaiodevonocapirechepoi…

- Hanno ragione.

- Chi?

- I vicini.

- Quassù non c’è nessuno. (perfetto, davvero perfetto. Occhiata eloquente alla signora: Magari invece dello psicologo potrebbe provare con lo psichiatra… ci sta che le risolva il problema).

- C’è una porta del bagno, magari è in bagno…

- Bagno? C’è un solo bagno ed è quaggiù, ma che dice.

- C’è una porta, che faccio apro? È uno sgabuzzino (si, dai, varca la soglia che andiamo tutti a Narnia…).

- Qui non c’è nessuno. (le bambine sono come le fate, non lo sapevi? Prova a seguire il filo d’argento…).

Decido che N. non è la persona adatta per effettuare le ricerche. Salgo anch’io ed entro nello sgabuzzino. nota per N. se c’è un letto con una trapunta(a luglio, con 30 gradi!), si chiama camerina, non sgabuzzino, anche se è un metro per due…

Mi guardo intorno. In effetti non c’è nessuno. Immobilità assoluta. Ci metto un attimo a capire.

I bambini di solito fanno esattamente quello che farei io in situazioni simili.

Mi chino e alzo le coperte.

- Vieni fuori piccola.

-

- Dai, che non è carino se tu stai li ed io ti parlo da qua.

-

- Vuoi dirmi che succede?

-

- Ok, ciao

-… tu…. tu…tu… pronto 118! (e come dubitarne…)

- si, è la treuno la bimba sta bene, è sotto il letto e non vuole venire fuori. Nessun problema, io andrei anche via.

- aspetta in linea! (loro non parlano, danno ordini...).

-…

- aspetta!

- … (musica in sotto fondo. Sembra highway blues. Mi domando come mai piacciano tanto i successi USA degli anni 50…).

- si pronto? (voce femminile, calda e sexy)

- ciao… (voce mia, calda e sexy).

- ma chi è?

- io sono l’ambulanza e tu chi sei? (tono insinuante, come se stessimo ad una festa e lei fosse la ragazza più carina dei dintorni… sono proprio un deficiente alle volte, ma mi viene spontaneo…)

- Ma, io sono la dottoressa della centrale 118, chi è che parla!

non era una domanda e non voleva alcuna risposta, così mi limito a spiegare anche a lei la situazione, sottolineando come a) non ci fosse alcun problema e b) in ogni caso non potevamo fargli nulla (non esiste un farmaco che faccia passare l’incazzatura ad una bambina di 8 anni…).

- Bene, mando l’ambulanza col medico (e invece, evidentemente, esiste).

E riaggancia. (cazzi tuoi bimba, tanto non eri affatto la più carina della festa…)

Dopo un paio di decine di minuti arriva la ssn enterprise, con a bordo, oltre al solito equipaggio di sfigati vestiti come il capitano Kirk, anche una delle mie due dottoresse preferite.

Questa per la precisione è molto carina, molto competente e assolutamente indifferente a qualsiasi cosa i pazienti abbiano da dirle. Lei si occupa di emergenza, non di consolare o dare consigli generici da medico di famiglia. E io l’adoro. E lei adora me… Peccato che lei sia molto troppe cose…

Rapido riassunto del problema. Fatto questo le dico che noi andiamo via.

- non ci pensare neanche.

Ok, tanto oramai è tardi per tornare a letto ed in fondo non mi dispiace vedere come si chiama la medicina che fa passare l’incazzatura. Magari ne avanza un po’ anche per me. Io adoro i farmaci.

Saliamo insieme sul soppalco, che è molto stretto e c’entriamo a mala pena tra il letto e la porta.

Immediatamente però tra noi si insinua prepotentemente una figura maschile. Che dal suo metroesettanta di imponenza mi squadra trasmettendomi il suo messaggio: tra di noi uno è di troppo. Lei è mia (si, nei tuoi sogni umidi, sfigato…).

Lo guardo anch’io e con un sorriso accattivante e sincero, come riesce solo a me, gli trasmetto il mio: wow quanto sei figo… perché non ti chini a succhiarmelo, già che ci sei?

Ma, al solito, devo averlo pensato a voce troppo alta, perché lei mi sorride ridacchiando e lui mi spinge via ed entra nella cameretta.

- Esci fuori dai, che ti visito (ho detto che è competente, non che è anche gentile…)

- Via esci fuori…

- Dottoressa, se vuole ci penso io, levo il materasso e la rete…

Lo guardo meglio. Mi ero sbagliato su di lui.

Non è un coglione. No, è proprio un’imbecille.

Di quelli che speri sempre che si estinguano in fretta, come i fighetti, quelli con la mini e quelli che giocano a calcetto.

Stavolta sono io che lo spingo via. Mi chino verso la bimba e facendo la mia migliore imitazione di Jerry Lewis, me esco con:

- Guarda che questi fa-fa-fa-nno sul seeerio piccola, sono caaattivi davvero, mica come noooi.

A questo punto purtroppo mi ricordo che faccio cacare a fare le imitazioni di Jerry Lewis. E poi nessuno neanche sa più chi cazzo era Jerry Lewis…

La mia party girl però mi guarda da sotto il letto. ha gli occhioni grandi ed è spaventata. Però sorride. Un po’.

Allora mi sdraio anch’io e mi infilo con lei sotto il letto. in effetti non si stava affatto male. Il pavimento era fresco e le coperte ti impedivano di vedere i piedi degli adulti intorno a noi. Sarei voluto restare anch’io li sotto per un bel po’.

Le ho chiesto cosa c’era che non andasse. Se c’erano problemi con la mamma. Mi ha detto che il babbo non abitava più con loro. Le ho detto che avevo capito. Il problema era che il letto di là era disfatto da tutte e due le parti. Le ho detto che alle volte il mondo fa un po’schifo. In generale.

Ha fatto sisi con la testa, ma non a me. In generale.

Le ho anche mentito. Le ho detto che le cose migliorano sempre. Ma non sono bravo a dire le bugie e lei se ne è accorta subito.

Dopo poco siamo dovuti uscire fuori (io, lei ha solo messo la testa fuori e ha sorriso alla dottoressa).

In fondo è stato un servizio deludente per tutti. Nessuna vita da salvare per gli eroi di star trek, nessun mondo fantastico dentro lo sgabuzzino per N., nessun caso clinico interessante per la mia dottoressa preferita e soprattutto, nessun farmaco della felicità per me.

Appena prima di risalire sull’ambulanza (la mia era parcheggiata per sbieco, un po’ come capitava, con i lampeggianti spenti. Quella del supereroe era perfettamente posizionata, come da protocollo con tutto acceso, in modo che i piccioni, gli unici in giro a quell’ora, capissero che lui era in codice giallo…), mi rendo conto di essere un gran maleducato, stavo dimenticando di salutare. mi volto e sorridendo come un imbecille punto la mano a forma di pistola verso il cretino. Lo guardo e faccio: bum! (adoro quando mi faccio nuovi amichetti con cui giocare…)

Sulla via del ritorno mi sorpassa sgommando.

giovedì 1 luglio 2010

A Dream of a Thousand Cats

01.47 am

Il sonno non vuole arrivare neppure stanotte. È la terza notte. Oramai perdo il controllo sempre più facilmente. Stamattina alle 06.45 ho minacciato di morte un vecchio che lavava un secchio sotto la mia finestra. Mi sembra di cogliere ovunque sguardi interrogativi e straniti. Nelle persone che conosco e in quelle che non conosco. Saigon. Cazzo, sono ancora solo a Saigon. Chi riconosce la battuta capisce anche come mi sento. Ho anche i Doors sotto, che non aiutano per niente.

La birra è calda. Neppure il mio frigorifero funziona più. Dall’odore direi che orami c’è qualcosa di marcio dentro. Verdura probabilmente. Spero si decomponga in fretta, perché so già che non lo toglierò di li. Non io almeno.

Prima mi sono anche guardato allo specchio. Non ho un aspetto sano. Non mi ricordo da quanto tempo non mi rado. Oggi ero in udienza con la barba lunga. Sono passato avanti a due avvocati e ho imposto al giudice di farmi un rinvio. Senza formalità, senza spiegazioni. L’ha fatto. Sono corso via.

Mi sembra di vivere in un mondo ovattato. Fuori dal tribunale c’era una gruppo di persone con delle bandiere rosse. Urlavano qualcosa e ho pensato che l’avessero con me. Anche loro. Mi ci è voluto qualche secondo per capire che era la cgil che si prendeva un anteprima allo sciopero di venerdì. Li ho guardati estraniato per qualche secondo e ho lasciato cadere il volantino che mi hanno messo in mano.

Se almeno sapessi da dove è iniziato tutto. Sapessi cosa ho, cosa mi succede.

Prima di arrendermi all’evidenza del non sonno anche per stanotte stavo pensando alla casa dei miei nonni. Ora è diventata la casa di mio zio per la verità.

Ci vive con tre gatti. La casa in cui ho passato le estati della mia infanzia è diventata una specie di ricovero per animali sommerso dai libri, abitato da un intellettuale privo di vita sociale perché disgustato dalle persone. È come guardare nel futuro.

Comunque non pensavo a questo. Pensavo ai gatti.

Da che ho memoria in quella casa hanno sempre abitato gatti. Mia madre dice che li ci sono stati gatti da quando mio nonno costruì la casa, negli anni cinquanta.

I gatti sono animali territoriali. Ed io scomposto al centro del mio letto, sdraiato solo su un lenzuolo aggrovigliato che lascia in parte scoperto il materasso, li guardavo camminare in quella casa, così familiare, così distante nel tempo.

I gatti di oggi che camminano rasenti i muri si staccano da ombre antiche, di cui conosco i nomi.

Li riconosco tutti. Li accarezzo tutti.

È come se la casa mi restituisse la loro memoria. I loro posti preferiti, i loro modi di fare, le loro stranezze.

Hanno dei nomi assurdi, anni ottanta, quando ancora li associavo ad un essenza e non ad un idea. Pippo, lilla, gatto, nero, grigione e altri, altri altri.

Le ombre si allungano sinuose sui muri scoloriti, su mobili di epoche dimenticate, su ambienti che ogni volta che vi torno mi meravigliano per come siano rimpiccioliti. Saltano su cassettiere che scopro vuote, mentre le ricordo piene. Spero sempre di ritrovarvi dentro quel foglio di soldatini di carta che smarrii un tempo e che ho cercato invano per tre estati di seguito.

Anche li, solo ombre e un odore familiare che non sono sicuro di sentire davvero.

Le ombre dei mille gatti dei miei ricordi saltano sul mio letto. si fondono insieme, si accovacciano e si raggomitolano, nonostante il caldo, nonostante la loro immaterialità. Dietro l’ombra c’è una scritta, a lapis, tracciata da mano infantile. “lascio il mio letto a pippo il gatto”. Avevo 8 anni e la mania dei testamenti. Non so perché la scritta sia rimasta lì, sul muro di camera mia. Ma c’è ancora e ci resterà per anni ancora.

Persino le coperte sono quelle di sempre. Anche i pigiami. Non uso un pigiama da vent’anni, ma loro sono sempre li. Immoti ed in attesa. L’ombra si stiracchia e si avvia giù per le scale. Non posso che seguirla. Arrivo in cucina, odori e rumori che echeggiano lontani, quasi che l’eco non si esaurisca mai. Mi volto a guardare l’ora ad un orologio da muro che non c’è più. È stato tolto. Rimane solo il chiodo. Eppure vi leggo l’ora, anche se ora non la ricordo più.

L’ombra gattesca cerca il mangiare nel solito posto. Anche se è perplessa.

Alcuni cercano gli avanzi in un vassoio di plastica, altri croccantini nella ciotola. Ognuno abituato ad un diverso regime alimentare, al passo con i tempi.

Apro gli occhi e mi distacco dal passato, dai miei pensieri sgangherati. Guardo l’ora e mi rendo conto di essere ancora qui, solo, mentre fuori la notte umidiccia e maligna mi appiccica addosso. Bestemmio in silenzio un dio qualsiasi. Ma non Bastet.

Con la mente li accarezzo ancora una volta. Li so laggiù, vaganti nella memoria di una casa immensa, di cui conoscono ogni angolo di ogni piano. Ognuno padrone della stessa casa, degli stessi ambienti degli stessi cuscini. Ma in tempi diversi, lontani fra loro, che nessuno, a parte me, ricorda più. Tornano stanotte a raccontarmi le loro storie, a farmi sognare di mille gatti che non ci sono più.