lunedì 9 novembre 2009

China food


Sono stanco di questo venerdì. Le persone normali stanno preparandosi ad uscire.
Io invece sto solo ritardando il momento in cui tornerò a casa.
Ho fame. Sono più di ventiquattro ore che non mangio, ma non fa’ differenza.
Non è di cibo che ho fame.
È stato un venerdì piuttosto scevro di emozioni.
Decido di smettere di girare a vuoto in macchina e punto verso chinatown.
È molto che non mangio cinese. Mi sembra la sera adatta.
Parcheggio in un punto qualsiasi, di traverso su un marciapiede. La mancanza di sonno mi rende alquanto indifferente, del resto è un po’ che non mi curo delle cose.
Mi incammino tra quei radi passanti, tutti cinesi, che si attardano fuori da vetrine semichiuse che espongono cianfrusaglie rosso dorate, trionfo di un barocco a me incomprensibile, ma che pare renderli felici.
Negli orecchi mi risuonano incessantemente i Rammstein, ma sono solo dentro di me.
Gironzolo un po’. Cerco un posto speciale.
Finalmente trovo un buco in una via discosta, le lanterne rosse fuori indicano che si tratta di una rosticceria o qualcosa del genere.
I vetri sono oscurati da pennellate di grigio dato a tempera spessa, la porta è velata da una tenda di perline. Alcuni ideogrammi dorati salutano, laceri, gli avventori.
Ci penso mezzo secondo, mi vedo sorridere nel riflesso del vetro. Entro.
L’odore non è male, anche se colpisce il mio stomaco vuoto con la forza della sua estraneità.
Poi le orecchie si riempiono con un suono ritmato, violento, trattenuto per una frazione di secondo e poi scandito pesantemente. Tonfi sordi, da qualche parte più avanti, poi voci. Parlano in modo concitato nella loro bizzarra lingua di cui non capisco nulla.
Il pavimento è stranamente pulito. Pochi sgabelli da un lato, oltre il bancone su cui troneggia solo la cassa, accanto ad un doraemon giallo, che mi spia dagli occhi a fessura. La zampa alzata porta incisi degli ideogrammi. Mi affascina e la vecchia padrona grassa che spunta fuori da dietro il bancone mi trova così, intento a fissare la sua statuina portafortuna, o quello che cazzo è.
Sembra stupita di vedermi li. In effetti lo sono anch’io.
Poi esce un uomo in canottiera. Anche lui mi guarda. Devo essere proprio buffo stasera.
Io li guardo di rimando. Sinceramente non mi interessa cosa pensino o dicano. A stento mi frega di ciò che penso io.
Avanzo, lento come in un film. In realtà sto strascicando i piedi per dare tempo al mio cervello di assimilare i particolari. Sono bravo in questo.
Prendo un menù ed inizio a leggerlo con cura. In fondo questo sarà l’apice sociale della mia serata, perché non godermelo.
La porta dietro di me si apre, un refolo freddo mi raggiunge e qualcuno entra dentro, arriva di fretta al bancone e si mette a parlare con la padrona. Parla mezzo in italiano, mezzo in inglese. È un pakistano del cazzo. Dietro di lui entra un magrebino magrissimo.
Benvenuti nel melting pot.
Tutto questo lo annoto senza neanche alzare lo sguardo dal piccolo menù bianco stampato a caratteri rossi.
Ordino in fretta, poche cose. Mi sta già passando la fame.
Mi scosto dal bancone e mi appoggio al muro.
Dietro la porta oltre il bancone intanto i colpi continuano, anche le voci sembrano animarsi sempre di più. Probabilmente discutono del grande fratello…
Il paki intanto continua a tentare di farsi intendere dalla padrona, sfodera il suo inglese da punjab, ma non basta. Si volta verso di me mi chiede “understand?”
Certo che capisco cretino, ma decido di non interrompere il loro piacevole momento di integrazione socio culturale.
Quindi non gli rispondo neppure.
Il magrebino esce silenzioso. Evidentemente ha deciso che tutto quello non fa per lui.
Finalmente il paki sembra riuscire a far capire alla vecchia cinese grassa cosa vuole. Questa prende l’ordine e sparisce oltre la porta, lasciandola socchiusa.
Il paki si volta verso di me, ridacchia e mi ammicca complice.
Ti sbagli cazzone. Non siamo complici manco per il cazzo. Mi volto verso la porta da cui è sparita la vecchia.
Le porte socchiuse hanno sempre esercitato un fascino particolare su di me. Nuovi mondi dipartono appena oltre la soglia ed io devo solo guardare per coglierne l’essenza.
Scopro l’origine dei tonfi. Stanno tagliando la carne. Chili di carne, per la precisione.
Quattro persone in grembiule bianco sono intorno ad un tavolo. Calano delle mannaie enormi su dei pezzi di carne dalla forma indefinibile. Trinciandoli in grandi bocconi sanguinolenti.
Le mannaie calano sui taglieri, sincopate.
L’uomo più a destra è molto agitato. Quello a sinistra è oltre lo stipite e non lo vedo.
Quello di destra comunque colpisce il tagliere con molta foga, spargendo pezzi di carne ovunque, molti finiscono sul pavimento.
Ogni tanto si ferma e rovescia il contenuto del tagliere in un grande secchio di plastica arancione che ha ai piedi. Altri pezzi volano sul pavimento.
Lui si china, li raccoglie e li depone nel secchio, insieme agli altri.
Tanto io ho ordinato tofu con verdure.
Intanto che aspetto mi prendo una birra. È fresca e piacevole. Mi rimetto al posto di prima, contro il muro.
Oltre la porta intanto la situazione sembra farsi sempre più animata. Il tizio incazzato si china e fa una cosa stupefacente: rovescia l’intero contenuto del secchio, una decina di chili ad occhio e croce, in un sacco dell’immondizia nero, che poi chiude con cura. Decido di non pensare.
Tanto più che il padrone, il tizio con la canottiera di prima, viene fuori, mi guarda con astio e chiude la porta dietro di se.
Anch’io lo guardo, in fondo è un cinese interessante. E poi ha la canottiera pulita.
Mangio il mio Tofu con esasperata lentezza. Il paki invece la sua roba la porta via. O almeno è cio che vorrebbe fare.
Apre la porta, quella che da sulla strada. La soglia è occupata da un uomo in carrozzina. Sembra ubriaco. Ha un coltello in mano.
Il paki si ritira spaventato verso di me (devo proprio ispirare questa sera!).
Io mi scanso. Mi urta di più la puzza del pakistano che l’ubriaco in carrozzina che, anzi, mi ispira simpatia.
Non altrettanto al cinese in canottiera, che sbuca dalla porta misteriosa con una delle mannaie in mano (è pulita. Non so perché lo noto).
E urlando scaccia l’ubriaco con grandi gesti della mannaia.
Il pakistano lo ringrazia e se ne va.
Gli do due minuti di vantaggio, poi decido che è ora di andarmene. Pago con cinquanta euro. Prendo il resto senza contarlo. Esco di lì.
Fuori mi aspetta l’ubriaco che fa qualche metro dietro di me parlandomi in una lingua che mi pare slavo.
Mi volto, lui mi chiede dei soldi, minacciandomi di col coltello.
Mi avvicino a lui, mi fermo e mi accovaccio, raggiungendo la sua altezza.
Lo guardo in faccia e gli chiedo se davvero pensa di corrermi dietro in carrozina. Credo sia evidente che non mi frega un cazzo di tutto ciò che succede. Lui lo capisce e mi dice che scherzava. Ha paura di me. In fondo non sono proprio piccolo e quello in carrozzina è lui. Metto una mano in tasca e gli do tutti gli spiccioli che trovo con una manciata. Non so quanti sono, non li conto. Spero per lui fossero abbastanza per una birra.

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