mercoledì 15 luglio 2009

Brand Guerrilla: Enjoy, Think positive and just do it.


In questi ultimi tempi guardo molto la TV (un esempio ne è il fatto che un tempo la sigla TV, mentalmente la leggevo “tivvu” ora la leggo “tiviii” con lo stesso gridolino, mentale, di Homer Simpson…).
Probabilmente è un segno di depressione, un tempo avrei giocato ai videogame o avrei letto. Ma queste sono attività, guardare la tiviii è una non attività, semplicemente. Ad un certo punto comunque il mio cervello ha iniziato (da solo, io ero contrario, io volevo solo un’altra birra) a suddividere mentalmente gli spot in due categorie: quelli permanenti e quelli volatili. I volatili sono quelli che non hanno un messaggio forte sotto, quelli che semplicemente ti offrono due fustini al prezzo di un rasoio di cui l’unica cosa difficile è scegliere il gusto del GPL di serie della tua vacanza che passerai a bere brioblùmipiacitù.
Tra questi, ben nascosti, ci sono gli spot permanenti, quelli caratterizzati sia da un brand che da un messaggio. Mi spiego meglio: l’uomo nella sua evoluzione sociale, filosofica e culturale ha elaborato dei concetti teleologicamente molto complessi (e a volte molto stupidi, pensate al sillogismo o alla tripartizione hegeliana della realtà ontologica). Da dieci anni a questa parte alcuni geniali pubblicitari se ne sono appropriati: il carpe diem caro ad orazio (e alla mia generazione, grazie all’attimo fuggente), è inscindibilmente associato alla Nike (just do it: non ci pensare, fallo, comprati le scarpe dai che non le facciamo più cucire ai bambini cinesi o terzomondisti in genere). La tolleranza, la multiculturalità razziale (o la cultura multirazziale, se preferite) sono principi collegati strettamente ai maglioni colorati (hanno anche fatto una rivista, indipendente, sull’argomento: COLORS. Leggetela anzi, visto che è fatta al 95% da immagini, guardatela, merita). La tradizione familiare è barilla, lo style e l’eleganza si esprimono usando un computer sostanzialmente non compatibile che con se stesso, disponibile sono in toni di bianco o di nero, ma con una mela morsicata sul davanti. Nietzsche ha ceduto il suo concetto cardine alla Lacoste, che ci invita a diventare ciò che siamo, con un coccodrillo sulla polo. Se ci piace è Coca Cola (Enjoy!), se invece lo ami semplicemente è McDonald (I’m loving it, perdio!).
La cosa interessante culturalmente è come i brand di punta della nostra società (globale, of curse) stiano assumendo significati spirituali. Non ci invitano a comprare la loro merce. Ci chiamano a vivere secondo lo stile, il principio nazionalpopolarfilosofico cui si sono (auto)associati e di conseguenza, a comprare la loro merce che rispecchia il concetto/stato d’animo cui hanno deciso che dobbiamo aspirare.
Nella sostanza la cosa non è male. In se per se tutti i concetti propugnati sono essenzialmente positivi, migliorativi e superficialmente profondi (ossimoro, ossimoro, ossimoro, avevi promesso di non farlo più, cazzone!). il problema semmai è che, appunto, nella loro apparente profondità, sono piatti e superficiali.
Se il principio cardine della poetica di Orazio diviene uno slogan la massa lo utilizza come tale. Una specie di ritornello filosoficamente orecchiabile. Nessuno riflette realmente sull’invito a vivere la vita prima che questa sfugga irrimediabilmente (e non è certo colpa della Nike, magari è solo perché riflettere in generale è noioso e deprimente…). Comunque sia la cultura di massa se ne appropria come principio socialmente corretto, traghettando al contempo anche il brand, che magari qualche peccatuccio di sfruttamento terzomondista lo avrebbe, tra i politically correct o meglio tra i socially approved.
È pericoloso tutto questo? No, la consapevolezza ci protegge dall’omologazione. Almeno alcuni.

Questa transizione è recente, molto recente. Riflettete su quand’è che avete sentito per la prima volta l’invito Enjoy (2000), just do it (1998?)I’m loving it (2002/3?). la cultura della massa, che alla fine dell’ottocento aleggiava intorno ad astratti principi filosofici (lo stesso proletariato che diviene consapevole di essere tale grazie ad un borghesuccio mantenuto), fino a metà del novecento si costruiva intorno a principi socio-politici ambiziosi (socialismo, nazionalsocialismo, fascismo, liberismo, imperialismo) negli anni cinquanta-ottanta si sta forgiava intorno alla televisione (il mass-media per eccellenza).
Oggi, che da cultura dei mass media siamo passati ad una cultura multimediale (che non vuol dire cultura dei computer, come sperano di farci intendere da mediaworld), ovvero ad una cultura che si basa su molteplici ed eterogenee fonti: la radio, l’arte di strada, la comunicazione visiva, pubblicitaria in primis, la stereo tipizzazione della cultura classica.
Ascoltate radio deejay ad esempio. Sono fantastici, li conosciamo per nome, sappiamo cosa fanno, lo sport che prediligono, la musica che piace ad ognuno di loro… e non ci accorgiamo che NESSUNO di loro usa i congiuntivi quando parla. Normale direte. Si, sarebbe normale se fossero due ragazzini che parlano su un treno. Ma per radio diffondono cultura (scusate, la “c” la tengo minuscola, non vogliatemene), se loro usassero i congiuntivi, forse inizierebbero ad usarli anche i ragazzini sul treno. Lo stesso dicasi per la stereo tipizzazione della cultura classica. Siamo erroneamente convinti che chi legge molto è, per la nota proprietà transitiva del sapere cartaceo: colto.
e invece... credo vada chiarito come ci sia una sostanziale differenza di valore in quello che si legge: Ken Follet, Stephen King, Baricco, Benni, intrattengono, non fanno cultura. Sartre, Camus, Camilleri, Pratolini, Forster Wallace invece trasmettono pensiero, idee e contenuti, quindi sono cultura. Allo stesso modo di come le ricette di suor germana non sono cultura (oppure si? Forse forse…) mentre un saggio di filosofia classica di Canfora o di linguistica di Chomsky lo sono. (personalmente quindi non mi considero granché acculturato...).
in conclusione a questo post eterno (e probabilmente noioso, ma che volete farci, è il mio blog, decido io...) fottetevene della cultura associata ai jeans di marca e sceglieteli per quello che sono: un simbolo di appartenenza sociale. Sono il nostro burka e ne siamo orgogliosi. Almeno fino alla prossima stagione.

2 commenti:

  1. Questo tuo blog ha un unico difetto Rafael:
    ogni volta che finisco di legger e cambio pagina vedo tutto a righe bianche e nere.
    No?

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  2. immagino la tua sia una sottile metafora del fatto che leggere ciò che scrivo cambia il tuo modo di vedere le cose... o è solo l'indicazione di un astruso problema tecnico che hai solo te? forse dipenderà dal commodore 64 che usi per navigare.

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