martedì 14 dicembre 2010

Hiking with ghosts and snakes

Hike. L’Hike è un rito di passaggio. Di quelli vecchio stile, un po’ sioux, un po’ Kipling. Gli hikes hanno segnato molto la mia vita scout e credo di comprenderne l’intima natura solo a distanza di anni. Hiking è un verbo dell’inglese di frontiera, che tradotto vuol dire, più o meno, andare per terre selvagge. Ed in fondo l’hike, come lo concepisco io, è proprio questo, andare per sentieri sconosciuti alla ricerca di qualcosa che non conosci fino al momento in cui la troverai. Hike è andare lontano completamente soli.

L’hike non finisce con l’arrivo al posto indicato nella cartina, né con il ritorno nella tua comunità. All’hike consegue necessariamente un’epifania. Quando questa arriva, tu ritorni dall’hike. Quindi io stasera sono tornato dal mio ultimo hike. Che è iniziato 12 anni fa.

L’hike è un momento solenne per ogni scout. Si parte per l’hike con una cerimonia, che prevede che il reparto, il klan o la comunità si dispongano in divisa perfetta per veder partire una manciata di ragazzi/uomini che ridono troppo forte per mascherare la paura e l’eccitazione per l’avventura imminente. L’hike lo si fa da soli.

Il mio primo Hike lo feci a sedici anni, in alta montagna. Poi ce ne fu uno per ogni momento di passaggio. Ogni volta che lasciavo una fase del cammino scout, reparto, noviziato, clan, co.ca., ne affrontavo uno. Fino all’ultimo. Dodici anni fa appunto. Solo che al tempo non sapevo sarebbe stato l’ultimo.

E così eccomi stasera a tornare all’improvviso in Calabria, su una strada torrida, verso un paese che non c’era più, carico di attese. L’hike non pone una tabella di marcia. Il più delle volte ti viene data una cartina, ti indicano dove devi arrivare il giorno dopo più o meno al pomeriggio e ti salutano cantando. Gli scout sono peggio dei puffi a volte.

Quella volta partii prima di pranzo. Nella cartina era segnato un percorso che tagliava una parte della punta estrema della Calabria. Sotto Reggio Calabria, sui monti. Faceva un caldo incredibile. Ho camminato per buona parte del giorno perché volevo arrivare a Roghudi Vecchia prima del tramonto. Quel paese era segnato sulla mia carta topografica, aveva un fiume accanto ed era più o meno a metà del percorso. Intorno non c’era nulla. Era un avamposto di civiltà nel niente. Mi pareva perfetto per passarci la notte.

Quindi mentre camminavo, con lo zaino che mi spezzava la schiena, come diceva il canto con cui mi avevano salutato, pensavo alla sera, a dove avrei dormito. L’idea era di provare a chiedere al parroco se mi faceva dormire in sagrestia o, meglio ancora, fuori sul sagrato. Mi aspettavo da un momento all’altro di girare una curva della strada sterrata e polverosa e di vedere le luci del paese. Invece il paese che si stagliava contro il cielo all’imbrunire non era illuminato.

Lì per lì non ci feci molto caso. Continuai a camminare in salita. Prima della curva trovai un cartello di quelli bianchi, con il nome del paese sopra. Mi fermai, attonito. Era vecchio, scrostato. Ma soprattutto era scritto in greco. Ro-gamma-segno che non conosco-delta-iota. Roghudi. Ero arrivato, ma probabilmente ero nella dimensione sbagliata.

Con un brutto presentimento sulle spalle continuo a camminare. Ed entro in paese. Non c’era nessuno. Proprio nessuno. Le prime case erano abbandonate, le finestre e le porte erano dei buchi vuoti nel nulla. Continuo un altro po’. Noto le lastre di marmo con i nomi delle strade. Sono in greco anche questi. Le case si fanno diroccate. Pendono da una parte, le travi spezzate sotto i tetti collassati. Fantastico, pensai, ora mancano solo le scimmie parlanti che mi catturano.

Ricordo che guardavo di continuo la mappa. Come per assicurarmi di essere davvero lì. Come se questa, una volta accortasi dell’errore, mi avrebbe riportato gentilmente nella mia dimensione. Invece la mappa mi lasciò li incasinato e preoccupato.

Arrivo in una specie di piazzetta, in alto. Mi guardo intorno ed è bellissimo. Sono in cima ad una specie di picco, un promontorio su una valle ripida e stretta, in fondo alla quale, un centinaio di metri più in giù in verticale, scorre un fiume. O meglio scorreva. Il letto del fiume, una ventina di metri di larghezza, è fatto di pietre enormi e bianchissime. Niente acqua.

Cartina di merda, bussola di merda, capi scout di merda. Avevo pure sete e la borraccia era praticamente a secco. Convinto di trovare un paese non ero stato attento. Invece ero a Hiroshima, ‘fanculo.

Mi siedo sul parapetto in pietra. Sopra di me c’è un vecchio pergolato con una vite, orami inselvatichita. C’è dell’uva. Al sud matura prima. Ed eravamo a metà agosto. Ne prendo un po’ ed era asprigna. Ma buona.

Giro lo sguardo intorno e, sulla stradina stretta che porta al fiume, una pendenza assurda per una strada di paese, tra le case c’è un insegna gialla. L’insegna è familiare ma al tempo stesso diversa. Sopra c’è scritto “poste e telegrafo” non PT, proprio poste e telegrafo. L’insegna poi non era di plastica. Era di ferro. Era molto vecchia. Sul muro c’è una specie di manifesto sbiadito, color ocra bruciato. Le lettere dicono, in italiano, non in greco, “Roghudi”, poi qualcosa sbiadito troppo, poi “ordine immediato di evacuazione”. La data è qualcosa e poi 1954. Cazzo, ero in un paese fantasma (visto, ero proprio sveglio a cogliere le cose al volo eh… era quasi mezz’ora che ero li, me ne accorgevo solo ora. Brillante…).

Intanto la notte scendeva rapida. Non avevo mangiato, non avevo acqua, ero stanco morto e non sapevo ancora dove dormire. Più guardavo le case e meno voglia avevo di dormire sul sagrato, in mezzo ai fantasmi. Guardai il fiume in secca. Pensai a quelle pietre scaldate dal sole per tutto il giorno. Avrebbero trattenuto il calore ancora a lungo. Perfetto. Per i serpenti e gli scorpioni, intendo… e dio solo sa quanto odio gli scorpioni.

Ero indeciso se passare la notte tra i fantasmi o i serpenti (cazzo era sabato sera, se fossi stato uno intelligente avrei potuto essere in discoteca e magari avrei dovuto scegliere qualche troietta per la notte invece no, sono stupido, mi merito i serpenti ed i fantasmi, le troiette vanno a quelli che giocano a calcetto…).

Scelsi i serpenti, più che altro perché speravo che tra le rocce ci fosse ancora un po’ d’acqua che scorreva. Un fiume di venti metri non può sparire solo perché è estate (sulla terra, li su marte le cose erano diverse a quanto pare).

Così scesi a valle. La stradina era ripida, lastricata di rocce vecchie, con un parapetto di pietra a destra e case crollate e vuote a sinistra. Sul fondo una striscia di arbusti spinosi (che naturalmente non avevano varchi praticabili prima che io lasciassi brandelli di divisa scout e di pelle sulle loro lunghissime spine). Poi le rocce. Arrivai al centro del fiume che era già buio ma ci vedevo benissimo. Il bianco delle pietre era abbagliante sotto la luna e le fottutissime stelle che a milioni guardavano in basso e ridacchiavano. Acqua non ce n’era neanche un filo. Da nessuna parte.

Tirai fuori il poncho e lo stesi per terra non prima di aver praticato una danza antiserpente di mia, estemporanea, invenzione. Si trattava di saltare come un forsennato tra le rocce, battendo con uno stecco e urlando nel tentativo di spaventare un po’ tutti, serpenti, spettri, lupi, banditi, troiette discotecare ecc. ecc.

Poi mi sedetti sul mio sacco a pelo, misi su il maglione (è incredibile lo so, di giorno c’erano 45 gradi, ma la notte faceva freschino). Mi preparai a mangiare. Avevo pane, una mela e del sale. Ecco, io ora posso capire il pane, la mela, l’acqua. Ma il sale? Era un simbolo e lo si da ad ogni Hike. Non ho ancora capito di preciso cosa rappresenti, ma tant’è.

Li divorai in quell’ordine preciso, pure il sale, almeno avrei reintegrato un po’ di Sali minerali. Poi mi stesi a leggere i fogli zeppi di riflessioni filosofiche che accompagnano ogni Hike e mi addormentai guardando le stelle.

Mi risvegliai con il sole accecante negli occhi ed un suono stranissimo che si diffondeva. Tlac-tlac-tlac. E poi ancora tlac-tlac-tlac. Ritmico, lento, come se nel letto del fiume, al posto dell’acqua da tempo scomparsa, rotolassero le pietre bianche, scorrendo a valle per raggiungere il mare.

Mi tolgo il cappello dalla faccia, mi alzo e a pochi metri da me vedo qualcosa di eccezionale. Un asino. Un asino vero. Con una bardatura altissima, delle fascine enormi legate ai fianchi ed un vecchio seduto sopra. Un vecchio vestito con una giacca nera dall’aspetto pesante, una camicia bianca, un fazzoletto rosso sul collo secco ed una coppola a far ombra ad una faccia immobile, color del cuoio vecchio. Resto fermo, lui viene verso di me, mi passa accanto guardandomi, e fa per continuare, ignorandomi come se nulla fosse.

– buongiorno, ha mica dell’acqua?

- …

-per favore, intendo…

Mi guarda, si china e mi porge un fiasco. Vino. Lo afferro e, facendo finta di bere con parsimonia, ne ingollo quanto più sia possibile senza destare sospetti. Cazzo, era forte. Ed erano neanche le sette di mattina. E io avrei dovuto camminare fino alle sei del pomeriggio almeno.

Se il pianeta delle scimmie mi avesse lasciato andare, intendo.

Restituisco il fiasco al vecchio e, tanto per fare conversazione, gli dico – Roghudi? Indicando il paese che ci sovrastava.

Il vecchio mi risponde in quello che sembra greco antico, musicale e arcano. Poi aggiunge – ‘ogudi ‘nné cchiù.

Si gira, schiocca la lingua e prosegue per la sua strada.

Al mio ritorno avrei scoperto che in effetti c’è una zona remotissima della Calabria dove si parla ancora un dialetto greco, il grecano, arcaico residuo della dominazione greca di queste zone, un paio di millenni fa. Che Roghudi, anzi, Roghudi vecchia, fu abbandonata nel 1954 per una inondazione, che nessuno vi tornò più perché lo stato lo aveva dichiarato inagibile e aveva ricostruito, chilometri a valle, un brutto agglomerato di prefabbricati, ribattezzato Roghudi nuova. Anche se gli antichi abitanti ancora visitano Roghudi Vecchia, per sentire le voci sotto il pergolato, che parlano greco.

Stasera, anzi stanotte oramai, mi è tornato tutto in mente. Ho avuto la mia epifania, ho finalmente capito cosa cercavo a Roghudi e come alla fine l’abbia davvero trovato.

Volete sapere cosa? Andate laggiù. Eseguite la danza del serpente sotto le stelle, tenetevi la gola riarsa, mangiate pane e sale. Ascoltate le voci che vi parlano in greco sotto il pergolato, e lo saprete anche voi. È tutto lì. Dico davvero.

giovedì 9 dicembre 2010

Schroedinger’s Broken Things


Ho provato davvero a riaggiustare le cose che si sono rotte dentro di me, e sono molte, ma non ci sono riuscito.

Ma la verità è che in questi ultimi mesi gli unici momenti in cui sono stato veramente bene sono stati quando picchiavo un deficiente mezzasega e mentre cercavo di far capire ai miei due migliori amici che il mondo come lo conoscevamo noi, è finito e non tornerà più. le cose tra noi sono cambiate e non sarà Londra mai più. sono io ad essere cambiato, me ne sono accorto in quel momento. E mentre declinavo l’invito alla cena di natale, al capodanno all’estero e a tutto il resto che ancora mi avrebbe aspettato, l’ho capito.

In quei momenti stavo bene perché, mentre si compiono i gesti inevitabili, si sta sempre bene con se stessi. È la semplice consapevolezza che non c’è altro che puoi fare più. Tutto quello che poteva essere fatto è stato fatto e quello che non è stato fatto, è troppo tardi, non lo puoi più fare, dire, pensare, provare urlare ecc. ecc.

La migliore definizione di questo astruso concetto l’ho scoperto in un libro. Un libro di fisica per la precisione. Infatti un tizio, di nome Schroedinger, per illustrare una teoria di fisica quantistica, ideò questo simpatico esperimento: per dimostrare come, nella fisica quantistica appunto, le particelle sub atomiche di un atomo decadono o meno secondo lo stesso identico meccanismo e nello stesso identico istante, coesistendo di fatto sia come decadute che come integre, Schroedinger propose di prendere un gatto, chiuderlo in una scatola con una fiala di cianuro collegata ad un martello a sua volta collegato ad un contatore geiger in grado di rilevare il decadimento di un singolo atomo. Quindi, se l’atomo fosse decaduto, il contatore geiger avrebbe rilasciato il martello che, rompendo la fiala, avrebbe ucciso il gatto nella scatola. Poiché però, le probabilità che questo accadesse erano esattamente uguali a quelle che non accadesse e, di fatto, l’atomo, non sarebbe mutato che con l’osservazione del mutamento stesso il gatto, fino al momento in cui non si fosse aperta la scatola, sarebbe stato contemporaneamente vivo e morto.

Infatti solo l’osservatore ne avrebbe determinato il fato nel mondo fisico. Altrimenti il gatto avrebbe continuato beatamente a prosperare, vivo e morto insieme, nella sua bella scatola. Con questo Schroedinger ha vinto il Premio Nobel per la fisica.

A suo tempo, anche Socrate aveva ipotizzato un paradosso simile. Infatti si era domandato se un albero, cadendo nella foresta senza che nessuno lo vedesse, producesse rumore lo stesso.

È come il momento in cui non sai ancora il risultato di un esame difficile e guardi la porta della camera di consiglio dove la commissione si è ritirata a decidere, o mentre iniettano l’ipnovel nelle vene di tuo padre prima di un’operazione chirurgica, e tu gli dici che sarai fuori ad aspettarlo, come se questo potesse fare la differenza, o come quando le dici quello che provi e lei tace per qualche istante e la sua espressione è indecifrabile.

Io sono un po’ come il gatto di Schroedinger della fisica quantistica vivo e morto allo stesso tempo, finché non apri la scatola. Finché non apri la scatola il gatto di Schroedinger sta che è una meraviglia, nemmeno si fosse fatto di ero. Una volta che apri la scatola, bhé, quello è un altro discorso, magari alla fine ti trovi in mano solo dei cocci ed un gatto morto.

lunedì 27 settembre 2010

Le Petite Prince

Di tutti i viaggi che ho fatto, di uno in particolare ho ricordi molto contrastanti.

Il fatto è che non volevo partire. Ecco, per la verità non ho mai capito cosa ci sono finito a fare in Perù, io.

L’idea di andare in Perù non è stata neppure mia. Per la precisione è stata dell’ E.

E. che, chiariamolo subito, non era la mia ragazza. No, nulla del genere. Era quella a cui facevo i dispetti.

E così, quando mi confessò che andare in Perù era un suo sogno e che avrebbe invidiato tanto chi ci andava, pensai che, siccome per me una meta estiva a quel tempo valeva un'altra…(sapete com’è a 24 anni, quando la vita sembra eterna e non hai ancora mangiato sufficiente merda sa sapere che, per fortuna, così non è…), tanto valeva andarci e lasciarla rosicare…

Ma non è per questo che non volevo partire.

Il fatto è che al tempo avevo una ragazza. Anzi, per la precisione per qualche tempo in quei giorni furono due. Una molto carina di cui ero istruttore al Club dei Power Ranger, l’altra di cui ero follemente, perdutamente, incoscientemente innamorato da 5 anni, 11 mesi, 13 giorni, qualche ora e un paio di manciate di minuti. Il fatto che tenessi il conto parla da se.

Non rappresenta un’incongruenza per me essere innamorato di una e frequentarne un’altra, anzi, a pensarci bene sarà una specie di leit-motiv di tutta una vita. Era un periodo di transizione.

Il fatto è che la nostra era una storia complicata, lei era fidanzata in casa, con un tipo noioso, da tanti, tanti anni, io invece ero ancora convinto che soffrire per amore avesse qualche senso recondito e profondo e che, alla fine, ne valesse la pena… quindi per cinque anni, undici mesi, 13 giorni, poche ore e qualche manciata di minuti in più, avevo solo sofferto. Immaginandomi come una specie di cavaliere medioevale che ama un’ideale e non una donna vera. Eccetera eccetera eccetera (dio quanto ero palloso a quel tempo!)

bene, per farla corta, la scintilla definitiva finalmente arrivò. Esattamente la sera prima della mia partenza.

Io partivo alle 6,40 dell’indomani. Noi capimmo di amarci alle 22.00 circa. Cazzo che sfiga. L’avevo appena trovata e l’indomani me ne andavo per un mese e qualche settimana a 20.000 km, 9 fusi orari, una quarantina di meridiani lontano. Laggiù era addirittura pieno inverno, mentre da noi era agosto. (sconvolgente vero? Misteri della geografia…)

Fu una notte fantastica (non per il senso che intendete voi, non solo almeno). Piena di romantico malessere. Amore, separazione imminente. Sembrava un film. Uno di quelli per cui, di solito, io cambio canale.

Pensate che alla fine vissi un epifania shakespeariana. Quando noi, abbracciati, stavamo in silenzio sul letto, dalla piccola finestra spalancata lo scuro della notte iniziò a scolorire. impercettibilmente. Quando ci rendemmo conto che distinguevamo i contorni della stanza iniziammo a dare voce ai nostri pensieri… - è l’alba… mi diceva con tristezza infinita. – no, rispondevo io sussurrando, è solo la luna, è ancora presto… abbiamo tempo. –no, è l’alba amore (prima volta in vita mia che qualcuno di cui mi importasse mi chiamava amore), devi andare. Senti, cantano gli uccelli. – no, non è vero, è solo il richiamo dell’allodola. È notte ancora.

Ma non era notte ed io andai davvero.

Fatto sta che, in quel viaggio, ho fatto cose straordinarie. Ho fatto surf tra le dune del deserto su delle tavole di compensato, ritrovandomi pieno di sabbia fino nelle mutande, senza possibilità di cambiarmi. Ho visitato un antico cimitero precolombiano abbandonato nel deserto, pieno di mummie sepolte sedute in buche quadrate, aperte (tanto lì non piove mai, e con il loro vasellame tutto intorno. Non era un museo. Era un posto. Nel senso che potevi saltare dentro le buche, sederti accanto alle mummie e, magari, usare le loro scodelle di terracotta. Intorno, tra le buche, c’erano un sacco di ossa sparse, come seminate, che affioravano qui e la’. Per un po’ mi sono portato dietro per il Perù un paio di vertebre, una mandibola completa ed una mezza calotta cranica. Ho scoperto che il cervello lascia un impronta sulla parte interna della calotta. Io seguivo con le dita le volute e le anse e m’immaginavo di percorrere i pensieri del defunto millenario.

Poi ho camminato per giorni sulla cordigliera e ho raggiunto Macchu Picchu morto di fatica. Ho visto le linee di Nazca dall’alto, su un minuscolo e scassatissimo piper il cui pilota non era affatto sobrio ma queste sono storie che racconterò un’altra volta.

Ho anche avuto la diarrea per tre settimane di fila. Non per vantarmi, ma penso di aver cacato ovunque, in Perù. Vi sfido a trovare qualcun altro che possa dire altrettanto. E questo mi porta alla storia della Pacha Mama, che volevo raccontare sin dall’inizio.

La Pacha Mama è per gli inca quello che di più sacro ci possa essere. Ed è li per tutti, accessibile a tutti e si manifesta in una miriade di modi differenti. È come avere la madre terra, madre natura e Ghandi in un'unica entità, terrena, non sovrannaturale. In effetti, pensandoci oggi, gli Inca sono dei fricchettoni strafatti. In fondo passano le giornate masticando foglie di coca per andare avanti.

E di tutte le rappresentazioni della Pacha Mama, le isole in mezzo al Titicaca sono considerate particolarmente sacre. Vi vivono degli Indios Chechua che parlano solo Aimara (e, in tutto il mondo, lo parlano solo loro… e saranno un paio di centinaia. Immaginate che grandi conversazioni devono mai avere).

La metà di loro per la precisione non abita sulle isole, abita nel lago. Su delle isole galleggianti fatte di papiro legato a fascine e si spostano su delle gondole di paglia lunghe una decina di metri. Starci sopra per qualche ora equivale ad abbandonare ogni certezza di stabilità per abbandonarvi ad una sensazione di infinita precarietà lacustre. Idilliaco vero? Peccato che non ho accennato al fatto che il Titicaca è il lago più alto del mondo, 4.000 metri sopra il livello del mare. La notte lì si congela.

Per cui scelsi di continuare fino ad una delle due isole in mezzo al lago per vedere di dormire con i Chechua. Non una grandissima idea, per la verità. Ma io sono fatto così, mi piace provare come vive la gente. È che non mi faccio mai i cazzi miei.

Bene, ho scoperto come si vive nel medioevo tecnologico. Queste persone, carinissime e disponibilissime, anzi, ansiose di scambiare storie e avventure ci hanno accolti in case fatte di mattoni di fango e paglia. Con i letti rialzati da terra per evitare che topi e scarafaggi divorassero i loro ospiti mentre erano lì (premurosi, non so se a me, al posto loro, importerebbe se un ragazzo troppo curioso venisse divorato nella notte. Vuoi la realtà, eccoti dei topi dannatamente reali, cazzone.). Niente elettricità, niente acqua potabile ( bhé, c’era un lago intero, non ci pensavano nemmeno ai rubinetti loro…). Ma la cosa che mi piaceva di più erano i loro bagni. Erano molto rigorosi in fatto di toilettes: Ogni casupola infatti aveva, a una decina di metri, un’altra casetta, una struttura in mattoni di fango, con una porta, aperta in alto, dentro un buco. Fine del bagno ma almeno non dovevo più sporgermi all’indietro da un peschereccio in navigazione, come avevo fatto per tutto il pomeriggio.

La cena fu deliziosa. Pescado fritto e riso bianco. Pane di miglio e mate di coca (che, per chi si facesse delle illusioni, era un the fatto con foglie di coca, che maceravano sul fondo di una zucca cava, da cui bevevi con una cannuccia. Lo adoravo.

Dopo cena ci intrattennero con una festa popolare dove si ballava in cerchio, si beveva l’Arequipegna, la birra locale che piaceva di più e un po’ di pisco (si, senza la i. è un liquore fatto con il Mais fermentato. A me non piaceva, mi ci ero sbronzato una settimana prima ad Arequipa e ancora ne avevo la nausea). Era tutto molto buio e molto intimo. Persi di vista Marco, ma immagino stesse approfittando dell’intimità con una delle nostre compagne di viaggio.

Io andai nella casupola di fango a dormire. L’altitudine si sente. E poi ero molto stanco.

Era buio pesto quando mi svegliai. Maledetta diarrea. Ancora. Avevo imparato che se ti svegli la notte è inutile cercare di resistere. Sta arrivando. Puoi solo correre. Mi precipito fuori dalla porta, tanto dormivo vestito e con gli stivali. Mi getto addosso il poncho di lana e trovo anche il cappello con cui viaggio sempre. Devo assomigliare a Clint Eastwood in quella tenuta, ma, credetemi, ancora oggi sono i vestiti con cui mi sento più a mio agio. Prima o poi andrò in udienza vestito così, invece che vestito da zorro.

Fuori la notte era nera, le torce con cui gli indios avevano illuminato la festa erano spente da lungo tempo. Non si vedeva nulla. Provai una porta, sperando che fosse quella del bagno. Ero arrivato al tramonto e non mi ricordavo bene come fossero dislocate le casette. Di notte mi sembravano tutte uguali. Entrai sbottonandomi i pantaloni. A tentoni. Toccai un corpo. Poi una faccia. Una voce assonnata mi apostrofò in Aymara. Scappai. Altra porta. Non si apre. Ancora una. Niente. Cazzo. Non ce la faccio più.

Mi accovaccio lì, e la faccio. In mezzo alle case. Cristo che liberazione. Pericolo scampato, all’ultimo secondo. Cazzo, mi dissi, bevi l’acqua del lago. Che ti aspettavi, di cacare regolare come quelle stitiche della pubblicità? Bene, ora non mi resta che tornare al mio sacco a pelo. Nella mia casupola. Ma, cazzo, qual’era?

Merda, mentre giravo come un disperato alla ricerca del cesso mi sono perso tra le case. E non voglio neanche farmi trovare accanto al mio prodotto di giornata che, mi rendo conto, ho lasciato praticamente sull’uscio di una casa. Merda, fa un freddo cane.

Giro un po’, sempre più preoccupato (per la notte di sonno che avrei perso, se non altro). Arrivo ad uno spiazzo, con un recinto di pietre a secco. Mi appoggio. Ma di là dal muro c’è l’erba, quindi scavalco. Mi siedo contro un sacco e mi metto a guardare in alto.

Cazzo, le stelle. Non le avevo mai viste così grandi e vicine. Lo so che è l’effetto dell’altitudine, dell’aria rarefatta, ma soprattutto dei 4 km in meno di atmosfera terrestre a fare da filtro. Le stelle sul Titicaca sono bellissime. Quelle di quest’emisfero poi mi sono sconosciute. A parte la croce del sud. Le guardo assorto per un po’. Almeno fino a quando il sacco non inizia a muoversi. All’inizio non me ne ero reso conto. Ma il sacco, era caldo. Poi volta il collo, mi appoggia il muso alla spalla e inizia a mangiucchiarmi i capelli. Una pecora. Ero in un recinto di pecore. Che si avvicinano incuriosite.

Rimango un attimo interdetto. Cazzo faccio ora? sono pecore normali o quaggiù hanno abitudini particolari. Magari sono vendicative. In fondo ho addosso un poncho di lana. Magari lo conoscevano, prima che diventasse il mio poncho intendo. Invece no. Si limitano a stringersi intorno. E ci addormentiamo tutti. Io guardo le stelle e le pecore guardavano me. Mancavano solo una rosa e dei Baobab. In compenso c’erano le zecche. Ma lo avrei scoperto solo il giorno dopo. Quella notte era bellissima. Io ero laggiù e a casa mi aspettava una ragazza che amavo. Sorridevo, avrei passato lunghe notti a raccontarle tutto. Un giorno, ma non ancora.

martedì 7 settembre 2010

Crashes


Pensieri. Penso che ho ricevuto il mio regalo di compleanno sabato notte, verso le tre. Assolutamente inaspettata. ti sei presentata a casa mia con naturalezza ed un candore di cui non ti credevo capace. E pensare che non ci parlavamo da secoli. All’improvviso eccoti li, con un sacco di parole affastellate e, bhé, un sacco di altre cose, tutte bellissime.
Era una notte che da triste stava volgendo in meglio. Sembrava una canzone o un pezzo di una serie tv, di quelli in cui la camera parte dalla porta chiusa, con il suono del campanello. Il protagonista, che come me è sempre sveglio e vestito, si avvicina di spalle alla porta e la apre. Stacco sul volto di lei, sorriso, la camera in esterno, lei che entra, la porta si chiude, dissolvenza. Mattina.
Ecco, esattamente così. Solo che io la parte nel mezzo l’ho vissuta.
Codice giallo, sto ripartendo lentamente, distaccato. È tardi e l’ambulanza mi sembra così pesante, così lontana dai miei pensieri. Mi avvio piano e attraverso il semaforo rosso e deserto. A quest’ora non c’è nessuno per strada e sono in una zona che conosco benissimo. La faccio tutti i giorni. Tutto è così silenzioso. Non accendo neppure le sirene. Non c’è n’è bisogno e poi io odio le sirene. Mi gridano addosso ed io odio le grida.
Abbiamo parlato per ore e, per una notte, tutto mi sembrava a posto. E i miei mille pensieri accantonati, rimossi e lasciati fuori. Con te quella sera mi pareva di volare alto, molto al di sopra di me stesso, dell’esame imminente, della fatica e della mancanza di sonno.
Io penso che la vita sia fatta a cerchi, per cui le cose iniziano e finiscono. Ma poi tornano sempre e tutto quello che ha avuto inizio avrà una fine che sarà un nuovo inizio. Un concetto molto zen e molto happy days, quasi mi viene voglia di cancellarlo tanto poco mi si addice. Ma è proprio così che va.
Aggeggio con la radio, invio i codici nell’ordine corretto: 2nd-3-0-02-S, che in italiano vuol dire più o meno stiamo arrivando e portiamo qualcuno che sta male ma non tanto male da aver bisogno della sala rossa. È tutto così automatico è tutto così facile…
La mattina sei andata via e io mi sono accorto che ero stato… colonizzato. Proprio così, mentre non guardavo, ti sei presa il mio cassetto. E ci hai lasciato il tuo pigiama (e il fatto che tu ti sia presentata al tuo primo appuntamento portandoti dietro il pigiama già è indicativo di per se…:-), in bagno il tuo spazzolino. Mi è venuto da sorridere. In questa storia non ero io ad avere l’iniziativa. Per niente. Ma va bene così in fondo i miei giorni trascorrono sui libri, come se fosse una tortura. Sono 3 mesi che non è passato giorno che non mi abbia visto per almeno 6 ore sui libri. E i giorni di 6 ore erano vacanza per me. Quindi, se qualcuno decide per me, a me va bene.
Chi cazzo me l’ha fatto fare. Io volevo fare l’archeologo, non l’avvocato. Ingranaggi. Girano e ti catturano, passa il tempo, c’è un sacco di movimento e tu sei comunque sempre ancora lì, preso nel mezzo.
La strada è dritta. Rassicurante, la velocità adeguata alle circostanze, abbastanza lenta e costante da garantire un viaggio senza scosse. La radio bippa. Leggo il codice. 02. Cazzo, ho sbagliato a digitare qualcosa. Devo inviare di nuovo tutto. Inizio a scrivere di nuovo, l’ambulanza procede spedita.
La sera dopo infatti sei tornata. All’improvviso, di nuovo. E i discorsi tra noi si sono fatti più seri. E io ho capito che quelle parole, quelle carezze, quelle emozioni, erano nuove ma già vecchie. Le avevo già vissute, le avevo tutte già sentite. Anche questa è una storia che si ripete. E io non posso farmi prendere di nuovo dall’ingranaggio. È più forte di me. Vorrei lasciarmi andare, vorrei aprirmi, seguire il corso delle cose, fottermene delle conseguenze o fare finta che, come dici tu, il passato non ci sia.
Vorrei davvero non aver tirato su mura impenetrabili, vorrei credere ancora che l’amore è una cosa bella e che tutto va sempre a posto. Vorrei davvero corrisponderti. Mi piacerebbe, davvero, ma sono qui con te, steso nella notte, mentre tu dormi accanto a me ( a proposito, russi, sarà perché hai pianto…) e penso a quello che ti ho detto.
È una frazione di secondo. Mi rendo conto all’improvviso che si, è notte, la strada è quella di tutti i giorni, ma cazzo, quello è il ponte basso ed io non ci passo, non con l’ambulanza. Cazzo, perché ho imboccato questa strada cazzo!. È un lungo secondo al rallentatore, la frenata è immediata, ma è troppo tardi. L’attimo si cristallizza. Lo stridore delle gomme ed il rumore dei vetri infranti. Le grida dietro, il dolore allo sterno, le luci della barra che esplodono e la consapevolezza del disastro. La camera stacca, esterno sulla polvere ed i calcinacci che si depositano, sui nostri corpi sparsi qua e là mentre attendiamo l’adrenalina che ci farà scattare in piedi, a controllare se stiamo tutti bene. No, non stiamo tutti bene. Io non sto per niente bene, dentro di me fa male tutto ma non è un dolore fisico. Fuori sono illeso.
Perdonami bimba, ma ho paura che di me non riuscirò a darti che un cassetto.

giovedì 22 luglio 2010

Summer Snakes

Che palle.

Arrivare alle tre e trentacinque rigirandosi nel letto sforzandosi di dormire.

E invece riesco solo a pensare a storie prive di senso e pensieri girovaghi e tortuosi, che si rincorrono seguendo intricati percorsi fatti di memoria, rancori e tanti se.

Decido di arrendermi all’evidenza. Niente sonno. Tanto vale scrivere.

Scrivere di tanto tempo fa. Di quando da grande volevo fare il naturalista.

Ecco, a pensarci bene fare il naturalista mi sembra un po’ generica come professione. Un po’ sfumata.

Ma era comunque un passo avanti. Alle elementari infatti avevo in testa un’altra professione. Volevo fare il principe. La vedevo come un ottima scelta. Mi piaceva tutto dell’idea di fare il principe da grande. Soprattutto la spada, il cavallo e la principessa. Anche la guerra immagino.

In classe mia, alle elementari, non è che godessi di un’immensa popolarità. Tutt’altro.

L’idea che volessi fare il principe poi infastidiva molti. Si perché gli altri, i normali, si dividevano in futuri calciatori e futuri poliziotti (alle ragazze non ho mai chiesto cosa volessero fare da grandi. In realtà alle ragazze non credo di aver chiesto proprio nulla alle elementari. Per me erano parte della classe, come i banchi e le sedie, solo che loro, stranamente, facevano educazione fisica con noi, i banchi no).

E incredibilmente a dirsi, i calciatori erano più simpatici. I poliziotti invece non li sopportavo proprio.

Avevo con loro tutta una serie di discussioni incentrate sul ruolo politico-sociale che le rispettive figure lavorative rivestivano per la società contemporanea. Soprattutto alla luce delle teorie di Foucault.

- Da grande farò il poliziotto perché è il più meglio assai (che ci volete fare, abitavo a San Paolo…)

- Ah si? Io invece faccio il principe.

- Il poliziotto neppure lo sa cosa che minchia è un principe (questo probabilmente è vero…), perché è più importante lui assà.

- Il principe se vuole licenzia il poliziotto.

- I poliziotti sono fichi. Hanno le pistole e se vogliono ti sparano e poi t’ammuortano ( evidentemente Nicola studiava logica aristotelica…) .

- Io ho la spada e comunque ho l’armatura. Puoi sparare quanto vuoi.

- E iì t’arrest’!

- E io ti faccio decapitare te e tutta la tua famiglia.

A questo punto era troppo tardi per salvarsi dalle botte che inevitabilmente prendevo a raffica da tutti i futuri poliziotti presenti. Erano decisamente troppi.

Il problema è che a me i libri avrebbero dovuto levarmeli subito, finché avevo ancora speranza di diventare un ragazzo normale. Magari dovevano obbligarmi a giocare a calcio… ora sarei fidanzato, probabilmente.

Come la storia del naturalista di cui vi dicevo…

Il problema è che avevo scovato l’anello di re salomone, libro capace di traviare anche le menti più solide con storie di anatre e pappagalli. Scritto da Konrad Lorenz.

La mia idea quindi era di vivere in una casa di campagna circondato da tutti gli animali che mi piacevano di più, tra cui rientravano, abbastanza incompatibilmente, orsi e leoni, ma anche papere, scimmie ecc. ecc.

Nel libro si diceva come lui avesse iniziato studiando la natura e raccogliendo ogni tipo di animale.

Ecco, se quello bisogna fare per essere accettati quali naturalisti, bhé, quello avrei fatto.

Così le mie estati dagli zii, dove l’immensa campagna maremmana ampliava moltissimo le mie possibilità, divennero infiniti giri solitari, nelle ore più impensabili, alla ricerca di tutti gli animali. Noè mi faceva un sega a me.

Quel pomeriggio in particolare era di canicola pesante. Tutti dormivano o riposavano in pace da qualche parte all’ombra. i miei erano al mare, che è a due passi. Io non avevo voglia di dormire. Ho sempre odiato dormire per la verità.

Così mi incamminai per la strada che divideva i casolari dei miei zii, poco oltre le stalle. L’unica sveglia a quell’ora era Rondinella, che era il cavallo di mia cugina e che occasionalmente potevo cavalcare anch’io.

Mi ricordo perfettamente la strada, circondata dai campi. Tutto intorno a me era giallo o ocra intenso. I campi di grano, le sterpaglie, i campi di girasoli. Persino le colline verso Allumiere erano ocra bruciata. E così per chilometri. Camminavo lungo la strada, uno stretto nastro di asfalto che da una parte raggiungeva l’aurelia.

L’aria vibrava di colore, le immagini tremolavano e in mezzo andavo io, vestito nei modi assurdi in cui si vestono i bambini se li lasciate fare. In testa avevo il cappello dei mangimi purina. Ne andavo fiero, perché nella mia mente assomigliava molto ai cappelli con la falda ripiegata dei soldati australiani. Almeno nei soldatini che avevo io. Ai piedi dei sandali di gomma rossa mezzi rotti, del modello che, se eri un bambino negli anni ottanta, non potevi non avere. Ti facevano puzzare i piedi in modo fantastico. Un giorno con quelli e la sera potevi stare ore ad annusarti i piedi e a togliere le pellicine. Probabilmente era per questo che i bambini di allora li adoravano.

In mano uno stecco lungo, un po’ fucile e un po’ spada. A seconda delle situazioni.

Camminavo e ogni tanto entravo nei campi. Quelli che mi ispiravano di più, alla ricerca di animali. Speravo di trovare i conigli o le volpi che si incrociavano la notte, su quella stessa strada, quando venivano stanate dai fari dell’auto e restavano a fissarti con gli occhi luminosi finché non passavi.

Invece trovai una vipera sotto un sasso. Grossa anche.

A me i serpenti hanno sempre fatto paura. Ma ero un naturalista. E i serpenti... Beh, non ero troppo sicuro ma… magari Lorenz l’avrebbe presa con se. Aveva preso le allodole e le anatre.

Mi avvicinai e lei si mosse. Troppa fifa per fare altro: trasformai il mio stecco in una spada e vibrai un paio di fendenti alla testa. Lei morì travolta dalla mia superiore abilità con la spada. Avevo ragione io. Gli fa una sega il poliziotto al principe.

Avevo un trofeo e… si, potevo comunque studiare la vipera morta. Corsi indietro e sgattaiolai in cantina, dove erano riposti i barattoli per quando si sarebbe fatta la conserva, appena avessimo finito di raccogliere i pomodori dai campi.

Tornai sul posto e, dopo un po’ di esitazione presi la vipera per la coda. Cazzo se era grossa. Tenendola davanti a me quasi toccava terra. Quasi. La infilai nel barattolo e tornai verso casa. Sapevo che dovevo immergerla nell’alcool se volevo che si conservasse (non ho mai capito perché i bambini, tutti i bambini, sanno queste cose assurde… è l’istinto di chi si mette nei guai?).

Quindi giunto a casa prendo un boccia di alcool rosa, apro il barattolo e inizio a spruzzare la vipera, nell’intento di sommergerla.

Solo che dopo pochi secondi questa inizia a muoversi, agitandosi un sacco e sbattendo da tutte le parti per tentare di uscire dal barattolo (questo a Lorenz non era capitato di sicuro, merda). Non so con quale istinto ma tappai subito il barattolo.

La vipera era chiusa dentro, incazzata per lo scherzetto dell’alcool e mi guardava con uno sguardo molto poco rassicurante. Almeno pareva a me.

Che cazzo ci facevo ora con una vipera incazzata in barattolo? Di liberarla neanche per idea. Ora sapeva anche dove abitavo.

Perché quando servono gli adulti non ci sono mai? Dovevo cercarne qualcuno. Qualcuno in gamba. l’unico posto che mi veniva in mente era il bar del paese. È sempre aperto e c’è sempre qualcuno. Ma era tanta strada da fare a piedi. Quindi il principe naturalista si ricordò del suo cavallo. Era bianco, si chiamava Graziella e aveva un pedale fatto di legno e scotch. Perfetto.

L’unico problema era dove mettere il barattolo. Nel portapacchi neppure per idea. Se si liberava non volevo averla alle spalle mentre pedalavo ignaro. Nei film finivano sempre male quelli che pedalavano ignari con il pericolo alle spalle. Eppure c’era anche la musica che cambiava, avrebbero dovuto accorgersene. Invece mai. Non si rendevano mai conto di un cazzo e continuavano ad andare e aprivano quella cazzo di porta.

Allora, pensai di metterla davanti a me in un cestino. Che la bici non aveva. Ma la zia si. Se ero veloce, magari non se ne sarebbe mai accorta. Tanto ci teneva solo gli aghi e i fili.

Legato alla meglio il cestino alla bici ci ficco dentro il barattolo con la vipera che pareva ancora maledettamente incazzata. Porca merda.

Mezz’ora di terrore dopo ero dentro il bar. Era uno di quei bar che vendevano di tutto, dai gelati alla pasta, dal sugo ai sottaceti. Era buio come erano tutti i posti pubblici d’estate, prima che arrivasse l’aria condizionata. Ed era semivuoto. Un paio di ragazzi ai videogame, il barista addormentato sulla sedia vicino alla cassa, un paio di signore sedute che si sventolavano con i ventagli e che, annoiate, aspettavano di morire.

È incredibile come i bambini sopra i 5 anni divengano improvvisamente invisibili. Fina 4 anni, 11 mesi e 30 giorni, ovunque vadano vengono circondati da folle affettuose intenzionate a chiedergli le cose più assurde, così, per vedere se sanno parlare, o a tocchicchiarli ovunque, nella speranza che questi siano così educati da ridacchiare. O peggio, tentano di baciarti. Io odiavo essere baciato e toccato. Soprattutto dalle vecchie.

Comunque in quel periodo ero,come ho detto, invisibile.

Infatti entrai e nessuno mi cacò nemmeno di striscio. Faceva troppo caldo per cacare un bambino con un cappello ed un barattolo, immagino.

Mi resi conto che non c’era nessun adulto rassicurante a cui affidare la vipera, la quale, tra l’altro, nel frattempo pareva essersi un po’ calmata.

Ci pensai su e decisi che questa storia mi aveva un stufato.

Pensai quindi che, se avessi lasciato la vipera da qualche parte, qualcuno l’avrebbe trovata e avrebbe risolto il problema. Tuttavia ora io non volevo più entrarci nella questione. Infatti, passata la paura, mi rendevo conto che, se qualcuno raccontava ai miei che me ne andavo in giro con un serpente velenoso in un barattolo, ne avrei buscate fino a natale. E natale era lontano.

Quindi di lasciarla sul bancone neppure per idea.

Mi guardai intorno e la soluzione venne da se. I sottaceti. Splendido, i barattoli erano anche simili.

Appoggiai con discrezione il barattolo sullo scaffale, lo spinsi dietro la prima fila e mi defilai.

Chi abbia trovato la vipera non l’ho mai saputo e Konrad Lorenz aveva smesso di essere questo mito assoluto.

lunedì 12 luglio 2010

Party Girl

Ho conosciuto la mia party girl venerdì, alle 6.45 di mattina, in centro.

Esatto gente, è proprio un’altra di quelle storie fantastiche piene di supereroi e sarcasmo, con una vena di malinconia di fondo che solo alcuni tra voi sono in grado di percepire (alcuni “i”, sia ben chiaro…).

In sottofondo suonano i Radiohead, fuori la notte è calda e appiccicosa, nemmeno le rane hanno più voglia di fare casino. È tardi anche per loro. Uno strano insetto cammina sulle mie parole, cercando di intercettare il cursore. È simpatico, ma non troppo sveglio. Lo manca sempre.

Sto bevendo the bollente. Lo so, sembra una cazzata. Almeno a me sembrava una cazzata in Mali, dove l’ho imparato. Invece, se bevi the bollente quando fa caldo, tutto va a posto. Credetemi, funziona.

Comunque, la mia party girl ha 8 anni. Ed è incazzata. Molto incazzata. Probabilmente ha ragione lei.

Appena arriviamo a casa sua, io e quei tre sfigati che mi sono rimasti per squadra, conosciamo sua madre.

Neanche quarant’anni, un tempo molto carina (a giudicare dalle foto sparse un po’ ovunque), le tette in evidenza sotto una camiciola il cui mestiere non era certo quello di coprire alcunché.

La casa invece mi piace. Piccolissima, con un soppalco su cui è stato posto un letto matrimoniale e un armadio. Un tavolo, un paio di librerie, quasi null’altro. Semplice e carina.

La conversazione si fa subito surreale:

- ‘giorno.

- …. …. …. (lo so, ma alle 6.45 non sono molto comunicativo)

- Ècheiononnepossopropriopiùnoncelafaccioadandareaventicosìèildiavolo.

- Signora, mi hanno detto che c’è una bambina che non va di corpo.

- Cosa?

- Non caca.

- Chi?

- Non lo so, signora, me lo dica lei.

-

- Signora?

- Mi butta le cose in terra.

-

- Io glielo ho anche date.

- Ha fatto bene.

- Ma lei me le ha ridate più forte!

- Scusi, ma quanti anni ha?

- Chi?

- La bambina, gesù!

- 8 anni

- E perché non gliele ha ridate più forte ancora? (empatia,la mia si chiama empatia)

- Mi hanno detto di chiamare lo psicologo.

- Ottima idea, allora noi possiamo andare…

- No, mi ha dato l’appuntamento a tra un mese e io che faccio intanto? (non so, un corso di autodifesa?)

- N., vai a vedere la bambina, intanto.

- È di sopra.

- Quassù non c’è…

- Sinascondesempreioglielodicomaleisbattelecoseperterraeivicinisilamentano,anchelorochevogliono,èlabambinamicaiodevonocapirechepoi…

- Hanno ragione.

- Chi?

- I vicini.

- Quassù non c’è nessuno. (perfetto, davvero perfetto. Occhiata eloquente alla signora: Magari invece dello psicologo potrebbe provare con lo psichiatra… ci sta che le risolva il problema).

- C’è una porta del bagno, magari è in bagno…

- Bagno? C’è un solo bagno ed è quaggiù, ma che dice.

- C’è una porta, che faccio apro? È uno sgabuzzino (si, dai, varca la soglia che andiamo tutti a Narnia…).

- Qui non c’è nessuno. (le bambine sono come le fate, non lo sapevi? Prova a seguire il filo d’argento…).

Decido che N. non è la persona adatta per effettuare le ricerche. Salgo anch’io ed entro nello sgabuzzino. nota per N. se c’è un letto con una trapunta(a luglio, con 30 gradi!), si chiama camerina, non sgabuzzino, anche se è un metro per due…

Mi guardo intorno. In effetti non c’è nessuno. Immobilità assoluta. Ci metto un attimo a capire.

I bambini di solito fanno esattamente quello che farei io in situazioni simili.

Mi chino e alzo le coperte.

- Vieni fuori piccola.

-

- Dai, che non è carino se tu stai li ed io ti parlo da qua.

-

- Vuoi dirmi che succede?

-

- Ok, ciao

-… tu…. tu…tu… pronto 118! (e come dubitarne…)

- si, è la treuno la bimba sta bene, è sotto il letto e non vuole venire fuori. Nessun problema, io andrei anche via.

- aspetta in linea! (loro non parlano, danno ordini...).

-…

- aspetta!

- … (musica in sotto fondo. Sembra highway blues. Mi domando come mai piacciano tanto i successi USA degli anni 50…).

- si pronto? (voce femminile, calda e sexy)

- ciao… (voce mia, calda e sexy).

- ma chi è?

- io sono l’ambulanza e tu chi sei? (tono insinuante, come se stessimo ad una festa e lei fosse la ragazza più carina dei dintorni… sono proprio un deficiente alle volte, ma mi viene spontaneo…)

- Ma, io sono la dottoressa della centrale 118, chi è che parla!

non era una domanda e non voleva alcuna risposta, così mi limito a spiegare anche a lei la situazione, sottolineando come a) non ci fosse alcun problema e b) in ogni caso non potevamo fargli nulla (non esiste un farmaco che faccia passare l’incazzatura ad una bambina di 8 anni…).

- Bene, mando l’ambulanza col medico (e invece, evidentemente, esiste).

E riaggancia. (cazzi tuoi bimba, tanto non eri affatto la più carina della festa…)

Dopo un paio di decine di minuti arriva la ssn enterprise, con a bordo, oltre al solito equipaggio di sfigati vestiti come il capitano Kirk, anche una delle mie due dottoresse preferite.

Questa per la precisione è molto carina, molto competente e assolutamente indifferente a qualsiasi cosa i pazienti abbiano da dirle. Lei si occupa di emergenza, non di consolare o dare consigli generici da medico di famiglia. E io l’adoro. E lei adora me… Peccato che lei sia molto troppe cose…

Rapido riassunto del problema. Fatto questo le dico che noi andiamo via.

- non ci pensare neanche.

Ok, tanto oramai è tardi per tornare a letto ed in fondo non mi dispiace vedere come si chiama la medicina che fa passare l’incazzatura. Magari ne avanza un po’ anche per me. Io adoro i farmaci.

Saliamo insieme sul soppalco, che è molto stretto e c’entriamo a mala pena tra il letto e la porta.

Immediatamente però tra noi si insinua prepotentemente una figura maschile. Che dal suo metroesettanta di imponenza mi squadra trasmettendomi il suo messaggio: tra di noi uno è di troppo. Lei è mia (si, nei tuoi sogni umidi, sfigato…).

Lo guardo anch’io e con un sorriso accattivante e sincero, come riesce solo a me, gli trasmetto il mio: wow quanto sei figo… perché non ti chini a succhiarmelo, già che ci sei?

Ma, al solito, devo averlo pensato a voce troppo alta, perché lei mi sorride ridacchiando e lui mi spinge via ed entra nella cameretta.

- Esci fuori dai, che ti visito (ho detto che è competente, non che è anche gentile…)

- Via esci fuori…

- Dottoressa, se vuole ci penso io, levo il materasso e la rete…

Lo guardo meglio. Mi ero sbagliato su di lui.

Non è un coglione. No, è proprio un’imbecille.

Di quelli che speri sempre che si estinguano in fretta, come i fighetti, quelli con la mini e quelli che giocano a calcetto.

Stavolta sono io che lo spingo via. Mi chino verso la bimba e facendo la mia migliore imitazione di Jerry Lewis, me esco con:

- Guarda che questi fa-fa-fa-nno sul seeerio piccola, sono caaattivi davvero, mica come noooi.

A questo punto purtroppo mi ricordo che faccio cacare a fare le imitazioni di Jerry Lewis. E poi nessuno neanche sa più chi cazzo era Jerry Lewis…

La mia party girl però mi guarda da sotto il letto. ha gli occhioni grandi ed è spaventata. Però sorride. Un po’.

Allora mi sdraio anch’io e mi infilo con lei sotto il letto. in effetti non si stava affatto male. Il pavimento era fresco e le coperte ti impedivano di vedere i piedi degli adulti intorno a noi. Sarei voluto restare anch’io li sotto per un bel po’.

Le ho chiesto cosa c’era che non andasse. Se c’erano problemi con la mamma. Mi ha detto che il babbo non abitava più con loro. Le ho detto che avevo capito. Il problema era che il letto di là era disfatto da tutte e due le parti. Le ho detto che alle volte il mondo fa un po’schifo. In generale.

Ha fatto sisi con la testa, ma non a me. In generale.

Le ho anche mentito. Le ho detto che le cose migliorano sempre. Ma non sono bravo a dire le bugie e lei se ne è accorta subito.

Dopo poco siamo dovuti uscire fuori (io, lei ha solo messo la testa fuori e ha sorriso alla dottoressa).

In fondo è stato un servizio deludente per tutti. Nessuna vita da salvare per gli eroi di star trek, nessun mondo fantastico dentro lo sgabuzzino per N., nessun caso clinico interessante per la mia dottoressa preferita e soprattutto, nessun farmaco della felicità per me.

Appena prima di risalire sull’ambulanza (la mia era parcheggiata per sbieco, un po’ come capitava, con i lampeggianti spenti. Quella del supereroe era perfettamente posizionata, come da protocollo con tutto acceso, in modo che i piccioni, gli unici in giro a quell’ora, capissero che lui era in codice giallo…), mi rendo conto di essere un gran maleducato, stavo dimenticando di salutare. mi volto e sorridendo come un imbecille punto la mano a forma di pistola verso il cretino. Lo guardo e faccio: bum! (adoro quando mi faccio nuovi amichetti con cui giocare…)

Sulla via del ritorno mi sorpassa sgommando.