giovedì 26 novembre 2009

Long Nights


Ultimamente i ricordi della mia infanzia affollano la mia mente.
Cercano di emergere, richiamati da sensazioni, odori e suoni dimenticati che all’improvviso, si riaffacciano.
Quest’oggi è toccato alla mia prima avventura in tenda.
Risale a quando avevo 11 anni ed ero un ragazzino curioso e rompipalle, pieno di idee strane, con la fissa di voler scrivere un libro di avventura, il cui protagonista era, invariabilmente, un cavaliere-bambino eroico ed intrepido che, guarda strano, nelle mie fantasie mi rassomigliava in modo sospetto.
Comunque a quei tempi condividevo le mie avventure con David L. che aveva idee assolutamente opposte alle mie riguardo a cosa significasse la parola avventura. Per lui erano astronavi e buchi neri. Ovviamente era impossibile conciliare le due esigenze e le liti erano frequenti. Ora che ci penso è stato lui ad insegnarmi i rudimenti del combattimento infantile, fatto di colpi scorrettissimi che farebbero arrossire Mike Tyson.
Anche lui, naturalmente, voleva scrivere un libro, ma siccome gli sembrava poca cosa, lo voleva fare in inglese. Era ambientato sotto i mari e non è mai andato oltre la seconda frase.
In ogni caso con lui ho diviso gran parte della mia infanzia, fino a quando i suoi non lo hanno portato con loro a vivere in spagna.
Anch’egli è rimasto fermo, nella mia mente, ai 13/14 anni.
Comunque sia un pomeriggio di settembre decidemmo che quel fine settimana avremmo preso la tenda ed avremmo esplorato i monti di Bacchereto.
Ci armammo al meglio che il nostro senso pratico ci suggeriva e partimmo (ancora oggi mi domando a cosa pensassero i nostri genitori quando ci lasciarono andare… forse volevano sbarazzarsi di noi…).
Mentre percorrevamo i campi, un po’ a casaccio per la verità, discutevamo sulle speranze di uscire vivi da un buco nero, dell’opportunità di tracciare una mappa del nostro cammino, se fosse meglio il verso del lupo o quello del coyote (!) quale segnale di pericolo per allertare l’altro ecc. ecc.
Intanto risalivamo le vigne che circondano la strada che da Seano porta a Bacchereto ma siccome era piovuto, facevamo una fatica boia a fare ogni passo. Oltretutto gli zaini non erano precisamente fatti ad arte.
Quindi una volta arrivati in cima decidemmo che quello era il posto ideale per fermarci prima che facesse buio.
Scegliemmo quindi un luogo che era pianeggiante esattamente come uno scivolo ed iniziammo a montare la tenda.
Anche qui avevamo idee molto diverse, io e David, su come dovesse essere inteso il concetto.
Io suggerivo il modello militare, lui il tepee indiano. Alla fine qualcosa venne fuori, visto che ne eravamo orgogliosi.
Quindi ci accingemmo a preparare il fuoco. Sperimentammo il sistema della carta. Ma questa bruciò in men che non si dica.
Allora toccò a legni e legnetti. Che naturalmente non volevano saperne di accendersi.
Decidemmo che l’olio d’oliva era un combustibile e irrorammo gli stessi legnetti. Nessun risultato. Anzi.
Delusi e scontenti frugammo tra gli zaini e… trovammo della diavolina. Evidentemente i nostri genitori volevano sbarazzarsi di noi, ma non subito…
Risolto quel problema iniziammo a non cucinare la roba che ci eravamo portati.
Gli spiedini di salsiccia e formaggino divennero un intruglio impraticabile. Lo stesso dicasi per le patate crude col ketchup. I wurstel con la sottiletta avvolta risolsero il problema insieme ad un quintale di cioccolata.
Intanto l’oscurità scendeva lenta e dolce, come si addice alla fine di settembre. Da dove eravamo noi si vedeva tutta la piana, le luci di Prato, di Firenze e di Pistoia. Nel cielo le stelle. Luna non ce n’era e la notte divenne subito scurissima.
Pertanto discutemmo animatamente su chi dovesse andare a cercare legna (ne avevamo presa pochina…) e chi l’acqua (idem). Non riuscendo ad accordarci (nessuna delle due prospettive pareva particolarmente invitante…), decidemmo che non era saggio lasciare l’accampamento mentre si era in territorio indiano.
Quindi iniziammo a discutere su chi dovesse fare il primo turno di guardia e chi l’ultimo. Entrambi volevamo fare il primo. Finì che facemmo insieme una mezz’oretta di guardia insieme, per sicurezza.
Passammo quindi in rassegna l’armamentario di cui disponevamo. Io avevo il mio coltellino. Ben 5 cm di terrore puro, una lama così affilata da non poterci tagliare neppure il pane. Era nero e ne ero orgoglioso. David aveva la fionda (ehi, solo oggi mi rendo conto del paragone biblico. Fantastico…). Inoltre avevamo 3 petardi con cui avremmo debellato chiunque avesse osato attaccarci.
Al momento di andare a letto tuttavia dal sacco a pelo di David spuntò… un orsacchiotto.
Lui spergiurò che non era suo e che non sapeva come fosse finito lì. Anzi, mi disse che l’avevo messo li io per umiliarlo.
Ma non reggeva e se ne accorse anche lui. Io intanto pensavo che era una fortuna che avessi nascosto Boby nello zaino invece che nel sacco a pelo…
La notte si accingeva a scorrere tranquilla tranne che per i terrificanti rumori che provenivano dall’esterno, quando penso a come mi sono familiari oggi non posso fare a meno di sorridere, ma allora…
Fruscii, scricchiolii, animali paurosi e cattivissimi aspettavano la’ fuori, in agguato. E poi iniziò a lampeggiare in maniera terrificante. I tuoni lontani ci mettevano ansia, la presenza dell’altro ci obbligava ad essere saldi…
E all’improvviso, mentre eravamo intenti a stringerci intorno alla torcia elettrica accesa ecco che da fuori proviene un rumore di unghie che grattavano sulla terra… un raspare ansimante. Qualcosa stava girando intorno alla tenda.
Poi tutto si calmò.
Fino al momento in cui una figura enorme non entrò nella tenda d’un balzo.
Lo stesso balzo che portò noi a correre fuori urlando ed inciampando nei sacchi a pelo.
Corremmo giù dalla collina con quanto fiato avevamo in corpo inseguiti da quel mostruoso essere peloso che… scodinzolava.
Era un bellissimo cane lupo nero. Si chiamava Dark, ma questo lo scoprimmo solo dopo.
Quando riprendemmo fiato eravamo giù dalla collina e Dark ci saltellava intorno.
Poi si mise ad andare avanti ed indietro, come a volerci indicare una strada sterrata che partiva più avanti.
La seguimmo, per un po’ e giungemmo ad un casolare, una luce brillava alla porta e noi, visto che Dark saltellava tutto contento proprio li, bussammo.
Dopo tre o quattro colpi la porta si aprì ed uno strano individuo con la barba si affacciò.
Non sembrava particolarmente stupito di vederci li. Ci chiese chi eravamo. “Esploratori” dissi io, “in missione” aggiunse David. “esploratori in missione” confermammo d’un fiato.
Il tipo ci fece accomodare, come se fosse del tutto normale per lui ricevere la visita di due esploratori di undici anni, in pigiama, nel cuore della notte.
Ci offrì del latte caldo ed iniziammo a raccontargli chi eravamo.
Ci disse che non aveva il telefono, quindi non avrebbe potuto chiamare i nostri genitori, ma che potevamo stare lì quanto volevamo.
Poi ci portò in soffitta, era un casolare molto vecchio e molto grande, e ci fece vedere cosa stava facendo.
Stava guardando le stelle con un telescopio.
Il resto della notte scivolò via ed io imparai a riconoscere Orione, Cassiopea, Venere, le orse, la stella polare e tante altre stelle, i cui nomi mi affascinavano e mi attiravano.
Eravamo li, nel cuore della notte, in una casa sconosciuta nel bosco, io, David, Bartolo, così si chiamava il tizio delle stelle, ed un cane.
Intorno a noi la notte si fece amica.

mercoledì 18 novembre 2009

every night

Ogni notte
prima di dormire
Prego di non sognarti
ma raramente il Signore
mi ascolta
E allora
mi sveglio
nel buio
e il ricordo di
Te
mi brucia l'Anima

lunedì 9 novembre 2009

China food


Sono stanco di questo venerdì. Le persone normali stanno preparandosi ad uscire.
Io invece sto solo ritardando il momento in cui tornerò a casa.
Ho fame. Sono più di ventiquattro ore che non mangio, ma non fa’ differenza.
Non è di cibo che ho fame.
È stato un venerdì piuttosto scevro di emozioni.
Decido di smettere di girare a vuoto in macchina e punto verso chinatown.
È molto che non mangio cinese. Mi sembra la sera adatta.
Parcheggio in un punto qualsiasi, di traverso su un marciapiede. La mancanza di sonno mi rende alquanto indifferente, del resto è un po’ che non mi curo delle cose.
Mi incammino tra quei radi passanti, tutti cinesi, che si attardano fuori da vetrine semichiuse che espongono cianfrusaglie rosso dorate, trionfo di un barocco a me incomprensibile, ma che pare renderli felici.
Negli orecchi mi risuonano incessantemente i Rammstein, ma sono solo dentro di me.
Gironzolo un po’. Cerco un posto speciale.
Finalmente trovo un buco in una via discosta, le lanterne rosse fuori indicano che si tratta di una rosticceria o qualcosa del genere.
I vetri sono oscurati da pennellate di grigio dato a tempera spessa, la porta è velata da una tenda di perline. Alcuni ideogrammi dorati salutano, laceri, gli avventori.
Ci penso mezzo secondo, mi vedo sorridere nel riflesso del vetro. Entro.
L’odore non è male, anche se colpisce il mio stomaco vuoto con la forza della sua estraneità.
Poi le orecchie si riempiono con un suono ritmato, violento, trattenuto per una frazione di secondo e poi scandito pesantemente. Tonfi sordi, da qualche parte più avanti, poi voci. Parlano in modo concitato nella loro bizzarra lingua di cui non capisco nulla.
Il pavimento è stranamente pulito. Pochi sgabelli da un lato, oltre il bancone su cui troneggia solo la cassa, accanto ad un doraemon giallo, che mi spia dagli occhi a fessura. La zampa alzata porta incisi degli ideogrammi. Mi affascina e la vecchia padrona grassa che spunta fuori da dietro il bancone mi trova così, intento a fissare la sua statuina portafortuna, o quello che cazzo è.
Sembra stupita di vedermi li. In effetti lo sono anch’io.
Poi esce un uomo in canottiera. Anche lui mi guarda. Devo essere proprio buffo stasera.
Io li guardo di rimando. Sinceramente non mi interessa cosa pensino o dicano. A stento mi frega di ciò che penso io.
Avanzo, lento come in un film. In realtà sto strascicando i piedi per dare tempo al mio cervello di assimilare i particolari. Sono bravo in questo.
Prendo un menù ed inizio a leggerlo con cura. In fondo questo sarà l’apice sociale della mia serata, perché non godermelo.
La porta dietro di me si apre, un refolo freddo mi raggiunge e qualcuno entra dentro, arriva di fretta al bancone e si mette a parlare con la padrona. Parla mezzo in italiano, mezzo in inglese. È un pakistano del cazzo. Dietro di lui entra un magrebino magrissimo.
Benvenuti nel melting pot.
Tutto questo lo annoto senza neanche alzare lo sguardo dal piccolo menù bianco stampato a caratteri rossi.
Ordino in fretta, poche cose. Mi sta già passando la fame.
Mi scosto dal bancone e mi appoggio al muro.
Dietro la porta oltre il bancone intanto i colpi continuano, anche le voci sembrano animarsi sempre di più. Probabilmente discutono del grande fratello…
Il paki intanto continua a tentare di farsi intendere dalla padrona, sfodera il suo inglese da punjab, ma non basta. Si volta verso di me mi chiede “understand?”
Certo che capisco cretino, ma decido di non interrompere il loro piacevole momento di integrazione socio culturale.
Quindi non gli rispondo neppure.
Il magrebino esce silenzioso. Evidentemente ha deciso che tutto quello non fa per lui.
Finalmente il paki sembra riuscire a far capire alla vecchia cinese grassa cosa vuole. Questa prende l’ordine e sparisce oltre la porta, lasciandola socchiusa.
Il paki si volta verso di me, ridacchia e mi ammicca complice.
Ti sbagli cazzone. Non siamo complici manco per il cazzo. Mi volto verso la porta da cui è sparita la vecchia.
Le porte socchiuse hanno sempre esercitato un fascino particolare su di me. Nuovi mondi dipartono appena oltre la soglia ed io devo solo guardare per coglierne l’essenza.
Scopro l’origine dei tonfi. Stanno tagliando la carne. Chili di carne, per la precisione.
Quattro persone in grembiule bianco sono intorno ad un tavolo. Calano delle mannaie enormi su dei pezzi di carne dalla forma indefinibile. Trinciandoli in grandi bocconi sanguinolenti.
Le mannaie calano sui taglieri, sincopate.
L’uomo più a destra è molto agitato. Quello a sinistra è oltre lo stipite e non lo vedo.
Quello di destra comunque colpisce il tagliere con molta foga, spargendo pezzi di carne ovunque, molti finiscono sul pavimento.
Ogni tanto si ferma e rovescia il contenuto del tagliere in un grande secchio di plastica arancione che ha ai piedi. Altri pezzi volano sul pavimento.
Lui si china, li raccoglie e li depone nel secchio, insieme agli altri.
Tanto io ho ordinato tofu con verdure.
Intanto che aspetto mi prendo una birra. È fresca e piacevole. Mi rimetto al posto di prima, contro il muro.
Oltre la porta intanto la situazione sembra farsi sempre più animata. Il tizio incazzato si china e fa una cosa stupefacente: rovescia l’intero contenuto del secchio, una decina di chili ad occhio e croce, in un sacco dell’immondizia nero, che poi chiude con cura. Decido di non pensare.
Tanto più che il padrone, il tizio con la canottiera di prima, viene fuori, mi guarda con astio e chiude la porta dietro di se.
Anch’io lo guardo, in fondo è un cinese interessante. E poi ha la canottiera pulita.
Mangio il mio Tofu con esasperata lentezza. Il paki invece la sua roba la porta via. O almeno è cio che vorrebbe fare.
Apre la porta, quella che da sulla strada. La soglia è occupata da un uomo in carrozzina. Sembra ubriaco. Ha un coltello in mano.
Il paki si ritira spaventato verso di me (devo proprio ispirare questa sera!).
Io mi scanso. Mi urta di più la puzza del pakistano che l’ubriaco in carrozzina che, anzi, mi ispira simpatia.
Non altrettanto al cinese in canottiera, che sbuca dalla porta misteriosa con una delle mannaie in mano (è pulita. Non so perché lo noto).
E urlando scaccia l’ubriaco con grandi gesti della mannaia.
Il pakistano lo ringrazia e se ne va.
Gli do due minuti di vantaggio, poi decido che è ora di andarmene. Pago con cinquanta euro. Prendo il resto senza contarlo. Esco di lì.
Fuori mi aspetta l’ubriaco che fa qualche metro dietro di me parlandomi in una lingua che mi pare slavo.
Mi volto, lui mi chiede dei soldi, minacciandomi di col coltello.
Mi avvicino a lui, mi fermo e mi accovaccio, raggiungendo la sua altezza.
Lo guardo in faccia e gli chiedo se davvero pensa di corrermi dietro in carrozina. Credo sia evidente che non mi frega un cazzo di tutto ciò che succede. Lui lo capisce e mi dice che scherzava. Ha paura di me. In fondo non sono proprio piccolo e quello in carrozzina è lui. Metto una mano in tasca e gli do tutti gli spiccioli che trovo con una manciata. Non so quanti sono, non li conto. Spero per lui fossero abbastanza per una birra.

martedì 3 novembre 2009

A friend of mine and a thunder, far away...


Oggi mi è tornato in mente Fabbrì.
Erano decenni che non pensavo a lui, oggi, non so perché, complice forse la malinconia della giornata, mi sono trovato a ricordare la sua voce. Mi è parso di sentirla dietro di me, ma quando mi sono voltato ero, naturalmente, solo.
Non credo nel soprannaturale, ma credo che il passato, a volte, rifiuti di scomparire, come invece proprio dovrebbe, nella maggior parte dei casi, almeno.
Dunque, Fabbrì.
Fabbrì è il fratello di Marco. Fabbrì era il migliore amico delle mie estati dai nonni.
Le estati più belle da che ho memoria e che hanno smesso di essere tali solo quando ho iniziato a crescere lontano da li.
Con Fabbrì giocavo a soldatini, con Fabbrì giocavo a batman (io) e robin (lui), ben prima che l’accoppiata fumettistica assumesse definitivamente i connotati gay che ha oggi.
Ricordo la sua bicicletta meglio della mia. D’altronde era assurda, aveva il manubrio alto come un chopper ed un rapporto di marce ridicolmente basso, quando pedalava Fabbrì sembrava un anitra che tenti di spiccare il volo e non ci riesca.
Giocavamo ai soldati, sempre in guerra col mondo dentro divise fatte di sacchi di plastica annodati.
Giocavamo alle olimpiadi, che lui non vinceva mai.
Eravamo un gruppo, io, Massi, Marco, Emanuele, Manu, Luca e due ragazze di cui non ricordo i nomi. Al solito, nemmeno mi curavo delle donne, che esistessero o meno a me era indifferente. E poi come soldati non erano un gran ché. Non riuscivano nemmeno a distinguere un inglese (soldatino giallo/verde in pantaloncini corti ed elmetto a padella), da un americano (soldatino verde scuro con elmetto tondo)… deficienti.
Erano “gli amici”, come li chiamavo io: “Nonna vado dagli amici…”, “ero dagli amici…”, “sono gli amici torno alle dieci”…
Fabbrì era l’unico che credeva che le mie croste da scarlattina fossero davvero cicatrici di guerra (la nonna di Fabbrì no, infatti per un mese non vidi più né lui né gli altri. Quando arrivavo io loro venivano misteriosamente richiamati in casa per fare i compiti…).
Ad un certo punto, verso i 13 anni, gli altri iniziarono ad interessarsi di altre cose.
Marco aveva la pallavolo ed una delle due di cui non ricordo il nome, ricordo solo che a me non piaceva.
Massi aveva strane cose in testa, che ad oggi ancora non capisco.
Luca ed Ema il calcio.
Fabbrì era l’unico che lottava insieme a me per impedire che quell’ultima estate d’infanzia arrivasse a conclusione.
Continuavamo ad andare in bici nelle ore di canicola, a rubare i fichi dall’albero della casa stregata, a cacciare le rane “giù al fosso”, a prendere a colpi di cerbottana la gente alla fermata dell’autobus.
Le mie armate di soldatini improvvisamente divennero inferiori alle sue, che aveva ereditato quelle del fratello, cui non interessavano più. Ma tanto Fabbrì faceva schifo a lanciare la palla da tennis contro il mio schieramento, quindi vincevo sempre io lo stesso.
La sera, mentre gli altri sembravano trovare interessanti i discorsi delle 3 o 4 ragazze di cui intanto il nostro gruppo si era circondato, Fabbrì era l’unico che volesse venire ancora con me ad esplorare le cantine buie in costruzione dei palazzi nuovi (in realtà ci voleva venire anche Pamela, ma io naturalmente allora non capivo e quando mi disse che avremmo potuto andarci soli, senza Fabbrì, io per tutta risposta lasciai lei lì ed andai con Fabbrì…pagherei per avere ancora quello spirito!).
Fabbrì…
Poi iniziai a passare sempre meno tempo dai nonni, erano arrivati gli scout, i miei avevano deciso che ero abbastanza grande per andare in Inghilterra ad imparare l’inglese ed improvvisamente le mie estati, che erano sempre state lunghe e roventi, quasi eterne, si accorciarono, fino a scomparire.
Quando il comune levò il fosso, nostra eterna trincea, giungla da esplorare, terreno di caccia e di paura, per farci passare una strada io non c’ero a guardare le ruspe che ci toglievano i ricordi. Infatti quasi non me ne accorsi.
Era rimasto solo Fabbrì. Lui se ne accorse senz’altro. Casa sua dava proprio sul fosso.
Non ho più rivisto Fabbrì. Però anni dopo, mia madre e mia nonna mi dissero la verità.
Fabbrì era autistico. Aveva dei grossi problemi relazionali. Lo sapevano tutti da sempre.
L’unico che non se ne era mai accorto ero io. Per me il fatto che balbettasse e sputacchiasse quando parlava non sembrava così rilevante. Invece lo era. Insieme ai disturbi nervosi e tanto altro, che per me era solo Fabbrì.
Quando seppi questo già non lo vedevo da anni. Ero grande e gli anni novanta mi avevano già portato via.
Da allora non ho più saputo nulla di lui. Quando mia nonna è morta ho smesso di avere notizie “degli amici”.
Fabbrì non è altro che un ricordo rimasto fermo all’età di 12 anni. Che non crescerà mai, non morirà mai.
Ora è insieme ai luoghi della mente. Quei posti che non esistono più se non dentro di me, cui resto fedele negli anni, popolati da persone che non sono più o comunque non più come le ricordo. Solo che ogni tanto la loro voce mi raggiunge, chiedendomi di aspettare, di non correre in bicicletta che lui non ce ce ce la fa a sta-a-a-rmi dietro. Ed io invece corro avanti, faccia al vento, sempre più avanti. In lontananza il tuono. L’estate stava davvero finendo.