martedì 14 dicembre 2010

Hiking with ghosts and snakes

Hike. L’Hike è un rito di passaggio. Di quelli vecchio stile, un po’ sioux, un po’ Kipling. Gli hikes hanno segnato molto la mia vita scout e credo di comprenderne l’intima natura solo a distanza di anni. Hiking è un verbo dell’inglese di frontiera, che tradotto vuol dire, più o meno, andare per terre selvagge. Ed in fondo l’hike, come lo concepisco io, è proprio questo, andare per sentieri sconosciuti alla ricerca di qualcosa che non conosci fino al momento in cui la troverai. Hike è andare lontano completamente soli.

L’hike non finisce con l’arrivo al posto indicato nella cartina, né con il ritorno nella tua comunità. All’hike consegue necessariamente un’epifania. Quando questa arriva, tu ritorni dall’hike. Quindi io stasera sono tornato dal mio ultimo hike. Che è iniziato 12 anni fa.

L’hike è un momento solenne per ogni scout. Si parte per l’hike con una cerimonia, che prevede che il reparto, il klan o la comunità si dispongano in divisa perfetta per veder partire una manciata di ragazzi/uomini che ridono troppo forte per mascherare la paura e l’eccitazione per l’avventura imminente. L’hike lo si fa da soli.

Il mio primo Hike lo feci a sedici anni, in alta montagna. Poi ce ne fu uno per ogni momento di passaggio. Ogni volta che lasciavo una fase del cammino scout, reparto, noviziato, clan, co.ca., ne affrontavo uno. Fino all’ultimo. Dodici anni fa appunto. Solo che al tempo non sapevo sarebbe stato l’ultimo.

E così eccomi stasera a tornare all’improvviso in Calabria, su una strada torrida, verso un paese che non c’era più, carico di attese. L’hike non pone una tabella di marcia. Il più delle volte ti viene data una cartina, ti indicano dove devi arrivare il giorno dopo più o meno al pomeriggio e ti salutano cantando. Gli scout sono peggio dei puffi a volte.

Quella volta partii prima di pranzo. Nella cartina era segnato un percorso che tagliava una parte della punta estrema della Calabria. Sotto Reggio Calabria, sui monti. Faceva un caldo incredibile. Ho camminato per buona parte del giorno perché volevo arrivare a Roghudi Vecchia prima del tramonto. Quel paese era segnato sulla mia carta topografica, aveva un fiume accanto ed era più o meno a metà del percorso. Intorno non c’era nulla. Era un avamposto di civiltà nel niente. Mi pareva perfetto per passarci la notte.

Quindi mentre camminavo, con lo zaino che mi spezzava la schiena, come diceva il canto con cui mi avevano salutato, pensavo alla sera, a dove avrei dormito. L’idea era di provare a chiedere al parroco se mi faceva dormire in sagrestia o, meglio ancora, fuori sul sagrato. Mi aspettavo da un momento all’altro di girare una curva della strada sterrata e polverosa e di vedere le luci del paese. Invece il paese che si stagliava contro il cielo all’imbrunire non era illuminato.

Lì per lì non ci feci molto caso. Continuai a camminare in salita. Prima della curva trovai un cartello di quelli bianchi, con il nome del paese sopra. Mi fermai, attonito. Era vecchio, scrostato. Ma soprattutto era scritto in greco. Ro-gamma-segno che non conosco-delta-iota. Roghudi. Ero arrivato, ma probabilmente ero nella dimensione sbagliata.

Con un brutto presentimento sulle spalle continuo a camminare. Ed entro in paese. Non c’era nessuno. Proprio nessuno. Le prime case erano abbandonate, le finestre e le porte erano dei buchi vuoti nel nulla. Continuo un altro po’. Noto le lastre di marmo con i nomi delle strade. Sono in greco anche questi. Le case si fanno diroccate. Pendono da una parte, le travi spezzate sotto i tetti collassati. Fantastico, pensai, ora mancano solo le scimmie parlanti che mi catturano.

Ricordo che guardavo di continuo la mappa. Come per assicurarmi di essere davvero lì. Come se questa, una volta accortasi dell’errore, mi avrebbe riportato gentilmente nella mia dimensione. Invece la mappa mi lasciò li incasinato e preoccupato.

Arrivo in una specie di piazzetta, in alto. Mi guardo intorno ed è bellissimo. Sono in cima ad una specie di picco, un promontorio su una valle ripida e stretta, in fondo alla quale, un centinaio di metri più in giù in verticale, scorre un fiume. O meglio scorreva. Il letto del fiume, una ventina di metri di larghezza, è fatto di pietre enormi e bianchissime. Niente acqua.

Cartina di merda, bussola di merda, capi scout di merda. Avevo pure sete e la borraccia era praticamente a secco. Convinto di trovare un paese non ero stato attento. Invece ero a Hiroshima, ‘fanculo.

Mi siedo sul parapetto in pietra. Sopra di me c’è un vecchio pergolato con una vite, orami inselvatichita. C’è dell’uva. Al sud matura prima. Ed eravamo a metà agosto. Ne prendo un po’ ed era asprigna. Ma buona.

Giro lo sguardo intorno e, sulla stradina stretta che porta al fiume, una pendenza assurda per una strada di paese, tra le case c’è un insegna gialla. L’insegna è familiare ma al tempo stesso diversa. Sopra c’è scritto “poste e telegrafo” non PT, proprio poste e telegrafo. L’insegna poi non era di plastica. Era di ferro. Era molto vecchia. Sul muro c’è una specie di manifesto sbiadito, color ocra bruciato. Le lettere dicono, in italiano, non in greco, “Roghudi”, poi qualcosa sbiadito troppo, poi “ordine immediato di evacuazione”. La data è qualcosa e poi 1954. Cazzo, ero in un paese fantasma (visto, ero proprio sveglio a cogliere le cose al volo eh… era quasi mezz’ora che ero li, me ne accorgevo solo ora. Brillante…).

Intanto la notte scendeva rapida. Non avevo mangiato, non avevo acqua, ero stanco morto e non sapevo ancora dove dormire. Più guardavo le case e meno voglia avevo di dormire sul sagrato, in mezzo ai fantasmi. Guardai il fiume in secca. Pensai a quelle pietre scaldate dal sole per tutto il giorno. Avrebbero trattenuto il calore ancora a lungo. Perfetto. Per i serpenti e gli scorpioni, intendo… e dio solo sa quanto odio gli scorpioni.

Ero indeciso se passare la notte tra i fantasmi o i serpenti (cazzo era sabato sera, se fossi stato uno intelligente avrei potuto essere in discoteca e magari avrei dovuto scegliere qualche troietta per la notte invece no, sono stupido, mi merito i serpenti ed i fantasmi, le troiette vanno a quelli che giocano a calcetto…).

Scelsi i serpenti, più che altro perché speravo che tra le rocce ci fosse ancora un po’ d’acqua che scorreva. Un fiume di venti metri non può sparire solo perché è estate (sulla terra, li su marte le cose erano diverse a quanto pare).

Così scesi a valle. La stradina era ripida, lastricata di rocce vecchie, con un parapetto di pietra a destra e case crollate e vuote a sinistra. Sul fondo una striscia di arbusti spinosi (che naturalmente non avevano varchi praticabili prima che io lasciassi brandelli di divisa scout e di pelle sulle loro lunghissime spine). Poi le rocce. Arrivai al centro del fiume che era già buio ma ci vedevo benissimo. Il bianco delle pietre era abbagliante sotto la luna e le fottutissime stelle che a milioni guardavano in basso e ridacchiavano. Acqua non ce n’era neanche un filo. Da nessuna parte.

Tirai fuori il poncho e lo stesi per terra non prima di aver praticato una danza antiserpente di mia, estemporanea, invenzione. Si trattava di saltare come un forsennato tra le rocce, battendo con uno stecco e urlando nel tentativo di spaventare un po’ tutti, serpenti, spettri, lupi, banditi, troiette discotecare ecc. ecc.

Poi mi sedetti sul mio sacco a pelo, misi su il maglione (è incredibile lo so, di giorno c’erano 45 gradi, ma la notte faceva freschino). Mi preparai a mangiare. Avevo pane, una mela e del sale. Ecco, io ora posso capire il pane, la mela, l’acqua. Ma il sale? Era un simbolo e lo si da ad ogni Hike. Non ho ancora capito di preciso cosa rappresenti, ma tant’è.

Li divorai in quell’ordine preciso, pure il sale, almeno avrei reintegrato un po’ di Sali minerali. Poi mi stesi a leggere i fogli zeppi di riflessioni filosofiche che accompagnano ogni Hike e mi addormentai guardando le stelle.

Mi risvegliai con il sole accecante negli occhi ed un suono stranissimo che si diffondeva. Tlac-tlac-tlac. E poi ancora tlac-tlac-tlac. Ritmico, lento, come se nel letto del fiume, al posto dell’acqua da tempo scomparsa, rotolassero le pietre bianche, scorrendo a valle per raggiungere il mare.

Mi tolgo il cappello dalla faccia, mi alzo e a pochi metri da me vedo qualcosa di eccezionale. Un asino. Un asino vero. Con una bardatura altissima, delle fascine enormi legate ai fianchi ed un vecchio seduto sopra. Un vecchio vestito con una giacca nera dall’aspetto pesante, una camicia bianca, un fazzoletto rosso sul collo secco ed una coppola a far ombra ad una faccia immobile, color del cuoio vecchio. Resto fermo, lui viene verso di me, mi passa accanto guardandomi, e fa per continuare, ignorandomi come se nulla fosse.

– buongiorno, ha mica dell’acqua?

- …

-per favore, intendo…

Mi guarda, si china e mi porge un fiasco. Vino. Lo afferro e, facendo finta di bere con parsimonia, ne ingollo quanto più sia possibile senza destare sospetti. Cazzo, era forte. Ed erano neanche le sette di mattina. E io avrei dovuto camminare fino alle sei del pomeriggio almeno.

Se il pianeta delle scimmie mi avesse lasciato andare, intendo.

Restituisco il fiasco al vecchio e, tanto per fare conversazione, gli dico – Roghudi? Indicando il paese che ci sovrastava.

Il vecchio mi risponde in quello che sembra greco antico, musicale e arcano. Poi aggiunge – ‘ogudi ‘nné cchiù.

Si gira, schiocca la lingua e prosegue per la sua strada.

Al mio ritorno avrei scoperto che in effetti c’è una zona remotissima della Calabria dove si parla ancora un dialetto greco, il grecano, arcaico residuo della dominazione greca di queste zone, un paio di millenni fa. Che Roghudi, anzi, Roghudi vecchia, fu abbandonata nel 1954 per una inondazione, che nessuno vi tornò più perché lo stato lo aveva dichiarato inagibile e aveva ricostruito, chilometri a valle, un brutto agglomerato di prefabbricati, ribattezzato Roghudi nuova. Anche se gli antichi abitanti ancora visitano Roghudi Vecchia, per sentire le voci sotto il pergolato, che parlano greco.

Stasera, anzi stanotte oramai, mi è tornato tutto in mente. Ho avuto la mia epifania, ho finalmente capito cosa cercavo a Roghudi e come alla fine l’abbia davvero trovato.

Volete sapere cosa? Andate laggiù. Eseguite la danza del serpente sotto le stelle, tenetevi la gola riarsa, mangiate pane e sale. Ascoltate le voci che vi parlano in greco sotto il pergolato, e lo saprete anche voi. È tutto lì. Dico davvero.

giovedì 9 dicembre 2010

Schroedinger’s Broken Things


Ho provato davvero a riaggiustare le cose che si sono rotte dentro di me, e sono molte, ma non ci sono riuscito.

Ma la verità è che in questi ultimi mesi gli unici momenti in cui sono stato veramente bene sono stati quando picchiavo un deficiente mezzasega e mentre cercavo di far capire ai miei due migliori amici che il mondo come lo conoscevamo noi, è finito e non tornerà più. le cose tra noi sono cambiate e non sarà Londra mai più. sono io ad essere cambiato, me ne sono accorto in quel momento. E mentre declinavo l’invito alla cena di natale, al capodanno all’estero e a tutto il resto che ancora mi avrebbe aspettato, l’ho capito.

In quei momenti stavo bene perché, mentre si compiono i gesti inevitabili, si sta sempre bene con se stessi. È la semplice consapevolezza che non c’è altro che puoi fare più. Tutto quello che poteva essere fatto è stato fatto e quello che non è stato fatto, è troppo tardi, non lo puoi più fare, dire, pensare, provare urlare ecc. ecc.

La migliore definizione di questo astruso concetto l’ho scoperto in un libro. Un libro di fisica per la precisione. Infatti un tizio, di nome Schroedinger, per illustrare una teoria di fisica quantistica, ideò questo simpatico esperimento: per dimostrare come, nella fisica quantistica appunto, le particelle sub atomiche di un atomo decadono o meno secondo lo stesso identico meccanismo e nello stesso identico istante, coesistendo di fatto sia come decadute che come integre, Schroedinger propose di prendere un gatto, chiuderlo in una scatola con una fiala di cianuro collegata ad un martello a sua volta collegato ad un contatore geiger in grado di rilevare il decadimento di un singolo atomo. Quindi, se l’atomo fosse decaduto, il contatore geiger avrebbe rilasciato il martello che, rompendo la fiala, avrebbe ucciso il gatto nella scatola. Poiché però, le probabilità che questo accadesse erano esattamente uguali a quelle che non accadesse e, di fatto, l’atomo, non sarebbe mutato che con l’osservazione del mutamento stesso il gatto, fino al momento in cui non si fosse aperta la scatola, sarebbe stato contemporaneamente vivo e morto.

Infatti solo l’osservatore ne avrebbe determinato il fato nel mondo fisico. Altrimenti il gatto avrebbe continuato beatamente a prosperare, vivo e morto insieme, nella sua bella scatola. Con questo Schroedinger ha vinto il Premio Nobel per la fisica.

A suo tempo, anche Socrate aveva ipotizzato un paradosso simile. Infatti si era domandato se un albero, cadendo nella foresta senza che nessuno lo vedesse, producesse rumore lo stesso.

È come il momento in cui non sai ancora il risultato di un esame difficile e guardi la porta della camera di consiglio dove la commissione si è ritirata a decidere, o mentre iniettano l’ipnovel nelle vene di tuo padre prima di un’operazione chirurgica, e tu gli dici che sarai fuori ad aspettarlo, come se questo potesse fare la differenza, o come quando le dici quello che provi e lei tace per qualche istante e la sua espressione è indecifrabile.

Io sono un po’ come il gatto di Schroedinger della fisica quantistica vivo e morto allo stesso tempo, finché non apri la scatola. Finché non apri la scatola il gatto di Schroedinger sta che è una meraviglia, nemmeno si fosse fatto di ero. Una volta che apri la scatola, bhé, quello è un altro discorso, magari alla fine ti trovi in mano solo dei cocci ed un gatto morto.