lunedì 15 giugno 2009

Out of focus pictures


Le foto mi scorrono tra le mani come se fossero le pagine di una rivista dove qualcuno si è divertito ad inserire la mia vita in ordine sparso.
Le faccio scorrere, passandole una ad una rapidamente. Giusto il tempo di riconoscere volti e ricordare nomi che oramai mi sono meno familiari di quanto lo siano Julien Sorel e Andrè Bolkonsky.
Odio le fotografie, stasera più che mai, ma non posso fare a meno di scorrerle tutte. Sono quasi 100 e congelano attimi passati, troppo lontani e troppo felici per non procurare un sordo malessere.
In alcune foto ho meno di 10 anni, in altre 16, 18. Nessuna oltre il mio 20 anno di età.
Alcune sembrano prendere vita, le più vecchie. Vedo la scena andare avanti, mia madre che prosegue il suo gesto interrotto, mio fratello che si volta, il ragazzo di cui non ricordo il nome che passa oltre, riuscendo finalmente, dopo 20 anni, ad uscire dall’inquadratura. Spero per lui che quello che avesse avuto da fare quel giorno non fosse poi così urgente…
Tutto è pervaso dagli stessi colori troppo saturi che hanno le foto degli anni 80. Colori che ti si appiccicano agli occhi, scalfendo i contorni dei piumini, dell’erba, delle luci. Sono foto impressioniste, mi aspetto quasi di vedere gruppi in frack e cilindro che fanno colazione fra l’erba o dame coll’ombrellino che passano dietro ad un me stesso dimenticato.
Poi arrivano le voci, i rumori, la palla che finalmente arriva a meta, inseguita da me, stefano e luca. Passo la foto e faccio un salto indietro di 4 anni. Sono alla stazione, sto partendo, ho lo zaino in spalla. Anche qui sento le voci degli altri ragazzi intorno al me stesso di allora, il rumore dei treni, la puzza della stazione. Ho sete e vorrei prendere l’acqua gusto plastica che la borraccia gio style che ho al collo sicuramente contiene.
Avanti piano, la mia promessa in reparto, la foto di classe, due spettacoli teatrali, io a londra, io a Budapest, io a ‘ffanculo.
Alcuni volti si sovrappongono a volti che ancora mi sono cari. Andrea e David alla chiusura del 1990, ma mi pare quasi che non siano le stesse persone. Altri volti non si sovrappongono a nulla, sono semplicemente rimasti per sempre a quell’attimo. Non più rivisti, non sono mai cresciuti o invecchiati. Essi sono i più fortunati.
Altri volti semplicemente spariscono. Leonardo, Riccardo, Alessio, il prof. Giorgi. Li guardo, sembrano lasciare uno spazio vuoto nelle foto, quasi che morendo si siano portati via anche le loro immagini. Uno scriveva poesie ed è morto soffocato, l’altro faceva forca con me alle superiori e si è sparato in bocca tre o quattro anni fa.
Alcune foto fanno male più di altre. La ragazza che ho amato. Il mio migliore amico. Il cutty sark. l’atmosfera di un viaggio che non si replicherà mai più. Tutto è andato. Tutto è perduto, sciupato, bruciato, perfino. Ed a me pare di non essermene accorto. Come se ad un certo punto di un viaggio in treno mi fossi assopito e poi, aprendo gli occhi all’improvviso, mi sia reso conto di essere quasi arrivato, di aver dormito per la maggior parte del tragitto, durante il quale molti compagni di viaggio siano scesi ed io non li abbia potuti salutare.
La cosa peggiore di tutte però è il mio volto sereno. In quelle foto, in tutte, sorrido.
Sorrido davvero, non il ghigno forzato delle foto di maniera cui devo saltuariamente sottostare, ma un sorriso vero. Penso: ero felice. Davvero felice. E mi domando quando io abbia smesso.
La stessa domanda me la pongono gli altri volti intorno a me, paiono guardare oltre la superficie bidimensionale della foto. Ne posso, oggi, intercettare lo sguardo di allora. Alcuni mi sorridono, altri mi guardano con aria interrogativa, taluni sembrano aspettarsi qualcosa. Ed io non ho risposte per loro. Sono felice che non possano aggredirmi.
Dannate fotografie resuscitate. Erano nascoste in uno scatolone, seppellito in una cantina non mia, in mezzo a vecchie cose dimenticate. Sono riuscite a farsi trovare da qualcuno che ha pensato le volessi indietro e me le ha riportate. Così mi hanno raggiunto di nuovo. Proprio oggi che dubito di volere che la notte ceda il passo al giorno, stanotte né la morfina né l’alcol riescono ad allontanare il dolore. Domani, domani sarò forte abbastanza da riuscire a fuggire di nuovo, ma non stanotte. Stanotte sono solo, fuori della mia finestra anche la notte tace. Tacciono le rane, tace il fiume. Macchine non ne passano più ed è troppo presto per il primo treno della mattina. Mi par di vegliare con il freddo cielo, di cui non scorgo le stelle. Mi scuoto.
Le foto cadono a terra. Le calpesto, passo oltre. Le voci si perdono in distanze misurate in decenni, i gesti tornano a cristallizzarsi, i colori riprendono il loro lento decadimento.
Mi rifugio in un nuovo libro e spero che il sonno mi venga in soccorso, portandomi l’oblio spossato e senza sogni che agogno.

1 commento:

  1. bel post.
    assolutamente il più bello che tu abbia scritto fino ad ora.
    Nic

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