sabato 14 marzo 2020

Directions



(mentre scrivo sto ascoltando https://www.youtube.com/watch?v=TmxSxKxBbQE)

Viaggiare è per lo più questione di indicazioni stradali. Davvero. In qualsiasi continente andiate, qualsiasi sia la vostra rotta, il modo di spostarsi, il tipo di meta che scegliete, se viaggiate per conto vostro, prima o poi, dovrete chiedere la strada a qualcuno. E se viaggiate come faccio io, questo qualcuno non parla una lingua voi comprensibile. Mai. Ma proprio lui vi aprirà le porte di un mondo che altrimenti non avreste conosciuto.

L’unico modo di vivere il viaggio è perdersi in esso. E a me succede sempre.

Ora, chi mi conosce almeno un pochino sa che sono bravissimo ad orientarmi, di giorno, di notte, nelle foreste come in cima ai monti. Il mio background mi ha insegnato tutto e la mia vita girovaga ha affinato le mie abilità. Riseco a calcolare una rotta alternativa a mente, sotto il sole di un deserto con la facilità con cui voi riuscite a scegliere il ristorante o il locale migliore per la serata (abilità che, invece, per me è irraggiungibile…).

Quindi, perché quando viaggio mi perdo? Karma, credo. E un po’ perché mi piace perdermi. Ma soprattutto perché viaggiando in posti davvero sperduti, ti accorgi che la strada segnata sulla carta non esiste più. O non è mai esistita. O magari è frutto di racconti. Molte strade dell’Asia centrale esistono solo nei racconti che passano di villaggio in villaggio e, magari, qualcuno di quei racconti ha trovato l’orecchio di un cartografo distratto. E io, mi ritrovo quaggiù, sotto il sole a picco, a fissare una piana desertica che avrebbe dovuto essere attraversata da una strada. E invece non lo è. Il GPS mi incita ad andare avanti, con una fede assoluta. “ti dico che la strada c’è. Tu non la vedi. Ma c’è. Devi solo fare il primo chilometro. Superato quello ti giuro che apparirà. Devi solo ruotare a occhi chiusi tre volte su te stesso invocando Shiva”.

E così, nel mezzo di una tappa, la mia strada prende una direzione sconosciuta, verso posti che non ho mappato prima e di cui non conosco nulla, perché se la strada per dove devi andare non c’è, di sicuro ce n’è un’altra per qualche altro posto dove non dovresti andare. Perdersi, come dicevo, è un arte.

Ecco, quindi, che viene utile la mia abilità nel ritrovarmi.

Al primo villaggio, pozzo d’acqua, serraglio o più prosaicamente un distributore di carburante in mezzo al nulla, mi fermo ed inizio ad armeggiare con la bici o lo zaino. O semplicemente mi siedo lì per un po’ ed osservo. Con calma mi guardo intorno, scruto i volti che mi scrutano e poi, quando è passata circa mezz’ora, prendo una delle mie cartine.
Porto sempre molte cartine con me quando viaggio. Le compro su internet perché devono essere nella lingua del posto. Sarebbe inutile mostrare a qualcuno una cartina con i riferimenti scritti in una lingua o con dei caratteri a lui incomprensibili. Quindi io possiedo cartine scritte in caratteri cirillici, in arabo, tangri, cinese, nepali, farsi. Ne ho una collezione intera e sono tutte bucherellate, macchiate, strappate. Vissute.

Quindi, con la mia cartina mi avvicino a colui che, tra tutti quelli che erano intenti ai loro affari quando sono arrivato, durante quel tempo non si è mosso. Vuol dire che lui è di lì e qualcosa ti saprà dire. Saluto educatamente. In Asia centrale ci si tocca il petto, in Africa la fronte, in India si sorride mentre si pronuncia l’ubiquo Namasté. In Uzbekistan si stringono le mani, in Cina guai a farlo, in Turchia ci si abbraccia. Potrei continuare a lungo, ma credo abbiate capito cosa intendo.
Il più delle volte, chiedere indicazioni è un rituale che richiede tempo e, quasi ovunque, del the. Che ti viene servito in piccoli bicchieri di stagno (Mali), di vetro (in Turchia a forma di tulipano, in India molto semplici), in tazze piccole (Uzbekistan) o grandi (Mongolia). Comunque sia, bevi il tuo the con gratitudine.

Io mentre bevo il the che mi viene offerto provo sempre la sensazione di vedermi dall’alto. Mi vedo lì, piccolo, seduto a gambe incrociate in posti lontani, con gente che non conosco circondato dall’immensità del mondo. Eppure, se mi offrono il the, sono tranquillo. Vuol dire che va tutto bene, che non mi succederà nulla e che, anche quaggiù, a qualcuno importa che io beva qualcosa di caldo e sia, per un pochino almeno, al sicuro.
Poi inizia la vera prova.

Comunicare con le persone non mi spaventa più. Ho affrontato conversazioni lunghissime con persone che non parlavano alcuna lingua che riuscissi a comprendere, eppure mi ricordo tutto quello che mi hanno detto. Non sono le parole, sono i suoni che contano, i gesti, le espressioni. Riuscirei a capire chiunque, ovunque, quando viaggio.
La prima cosa che ti chiedono non è il nome. Il nome non serve mai. Sappiamo tutti che questo sarà l’unico momento delle nostre vite che condivideremo mai. Quindi presentarsi non è importantissimo. A volte lo fai, per lo più no. La cosa che veramente interessa è da dove vieni (Otkuda in uzbeko, haanaas irsen in mongolo). Ed è la cosa che li incuriosisce di più.
Italia, dico io, con una certa spavalderia (è più forte di me…).

Loro strabuzzano gli occhi e guardano la bici, immancabilmente. Fanno il gesto di pedalare con le mani e io scuoto la testa. La seconda cosa che vogliono sapere è da dove sei partito. Tashkent, Ulaan Baator, Cesme, Sanauli. Poi ti chiedono dove stai andando. Khiva, Bejing, Istanbul, Kathmandu.
Ecco, a questo punto il mondo è tornato comprensibile per loro, i nomi hanno un senso, le distanze possono essere visualizzate. Ora siamo nella stessa dimensione. Quindi io apro la cartina, la distendo davanti a loro. Loro la guardano sempre molto interessati. Alcuni non capiscono neppure da che parte si guarda. Ma annuiscono comunque. Li stai rendendo partecipi del tuo viaggio ed è una cosa unica per loro (infatti, ti chiedono sempre di farti mille foto con loro e, in tutte, loro sorridono più di me. Per quanto mi sforzi, non mi riesce proprio…).
All’inizio l’approccio è scientifico, chiedo lumi sulla direzione, certo, ma soprattutto sulle condizioni della strada, la pendenza, sul vento (10 km su strada sterrata sono diversi da 10 km su asfalto, con il vento contro poi, valgono 100). “Yeni Foca?” dico io, lui si volta nella direzione e mi fa cenno con la mano. “Quanto? Kilometre?” e lui spara un numero. A caso. Poi faccio un gesto per sapere la se c’è salita. Dicono sempre di no, ma poi c’è sempre. Forse vogliono incoraggiarmi, o forse, andando in macchina, non si accorgono di cosa sia una salita…

A quel punto, immancabilmente, si è radunata una piccola folla, e le versioni sono sempre discordanti:
Insh’allah’, troverai acqua dopo 50 km, ma solo se (nome incomprensibile) avrà piantato la sua Yurta sulla strada. Lui ha l’acqua per le sue capre (o le pecore, i cavalli, i cammelli, la fauna varia di paese in paese)
Che diventa: “ho fatto quella strada la settimana scorsa con il mio camion, niente acqua fino a Gazli (o Sanjshand o Ershinhaodicun, in giro per il mondo i nomi li scelgono con le lettere avanzate dallo scarabeo)

E così tu devi scegliere di chi fidarti, a chi credere, al tipo col turbante o al camionista senza denti? A chi ti ha dato da mangiare o a chi ti ha chiesto di poter fare un giro sulla tua bici?
In generale non importa molto. Di solito hanno ragione tutti e nessuno. Quest’anno nel Gobi mi sono portato dietro 16 litri d’acqua per 100km perché ho creduto al camionista. Il mio compagno di viaggio ne ha presi solo 4, perché non gli ha creduto. Come è andata a finire? Non ve lo dico. Ma siamo tornati tutti sani e salvi lo stesso.

Immancabilmente poi, arrivano le raccomandazioni e gli inviti: “dormi qui con noi, non arrivare al prossimo villaggio, a Yangiyer sono terribili e lì odiano gli stranieri (ricordate, vero, che viaggio per strade non battute, dove la parola “turismo” non ha alcun senso compiuto…?).” oppure, scuotendo la testa in modo significativo: “mio figlio ha sposato una di lì…”. Ma spesso è troppo presto per potermi fermare, i chilometri ancora troppi e, per quanto sia sconsigliabile, dovrò vedere se riuscirò a sopravvivere ai banditi Turkmeni che affollano il villaggio successivo.

Vi arrivo a sera. Mi fermo lì e vado alla moschea (quando non sai che fare o hai bisogno di dormire cerca sempre la moschea, qualcuno ti aiuterà. Immancabilmente). Vedo alcuni uomini che escono dalla preghiera serale e chiedo loro dove posso montare la mia tenda per dormine (paraculo, so già che mi inviteranno a casa loro…). Infatti, uno di essi, un contadino, ci porta presso casa sua, poche stanze caldissime che si affacciano su un cortile coltivato rigogliosamente di fiori, frutta e verdura, con le stalle accanto al cubicolo del bagno. Si chiama Safar e ha una figlia bellissima!.

Lei, Margouba, parla inglese molto bene e nelle ore successive non faremo altro che parlare. Sarà lei ad insegnarmi cose utilissime sull’Uzbekistan, da come chiedere del cibo a come usare i diversi catini e secchi che suppliscono alla mancanza di acqua corrente nelle case… è venuto fuori che mi lavavo la faccia con il secchio che loro usano solo per le mani dopo aver fatto i bisogni…
Insiste per lavarmi i vestiti e, quando rifiuto, temo che abbia pensato che non mi fidassi di lei. Invece è solo che, davvero, non riuscirò mai ad abituarmi che, essere uomini, in certe parti del mondo ti dà dei diritti che da noi, semplicemente, sono inconcepibili…

A cena, (un banchetto!) lei non siede con noi. Le donne mangiano in casa, separate dagli uomini. Io quindi mi siedo in un mare di cuscini accanto al padrone di casa ed i suoi figli. Che, di nuovo, non parlano alcuna lingua che io conosca, e viceversa. Quindi la conversazione ne risente un po’. Fino a quando Safar non cala l’asso: Toto Cotugno. E così, dopo abbondanti dosi di vodka uzbeka (l’Uzbekistan è l’unico paese musulmano dove, a quanto pare, bere alcol non è considerato particolarmente peccaminoso…) e l’ennesima versione di “sono un italiano vero” (che lui conosce meglio di me…), Safar mi dice, attraverso la figlia: “sei stato molto fortunato, sai? Perché ti sei fermato in questo villaggio. Se avessi continuato saresti arrivato a Zafarobod, e là, davvero, ci sono persone terribili. Probabilmente vi avrebbero tagliato la testa (accompagnando il tutto con il gesto)…”. Tutto il mondo è paese. In fondo, noi diciamo lo stesso dei pistoiesi (e loro sì, che sono dei senzadio screanzati, pronti a tagliarti la gola per niente!)…
Safar è un brav’uomo. Durante la notte si sveglierà ogni poche ore per recitare le sue preghiere. Peccato che abbia insistito per dormire accanto a me (probabilmente voleva controllarmi, vista la confidenza con la figlia…).

Altre volte, invece, chiedere informazioni è una faccenda seria. Ripropongo qui quanto scrissi il 7 agosto 2017, perché è uno dei pezzi per me più significativi del mio modo di viaggiare e, in ultima analisi, di prendere la vita…

Ma anche mentre scrivo queste cose, il mio pensiero va fisso alla strada che ancora manca: altri 500 km, di cui 367 attraverso il deserto del Kyzil-Kum. Non posso più nascondermi la paura che provo in questo momento. Non so quanto manchi al mio limite, al punto dopo il quale non ho più nulla da dare e io, semplicemente, mi fermerò lì dove sono. Non sono davvero sicuro di cosa mi aspetti, del caldo, della strada e, soprattutto, dell'acqua. Consumo più di sei litri d'acqua al giorno e a volte non sono sufficientemente idratato nemmeno per pisciare. Ho studiato per mesi le carte, il satellite, i resoconti di viaggio. So che è già stato fatto, da almeno altri 4 pazzi prima di me di cui ho letto i diari, ma penso siano molti di più. Da giorni chiedo notizie a chiunque vi sia passato, viaggiatori in macchina, backpakers con i mezzi locali, e agli uzbeki in generale. Ogni versione è diversa ma tutte parlano di un gran caldo (48-54 gradi di giorno) e di un forte vento molto variabile. Per alcuni l'asfalto è ok (qualsiasi cosa significhi ok...) altri riportano un lungo tratto molto brutto, senza però riuscire ad indicarlo sulla cartina. Asruf, un vecchio rinsecchito dal sole come un arbusto ma con una chiostra di denti d'oro baluginante al sole del tramonto, mi ha raccontato di aver fatto il carovaniere per 30 anni (o trent'anni fa, o negli anni trenta, il bello della proto lingua è che sta più nell'interpretazione che nell'ascolto). Vedi, mi ha detto, attraversare il deserto non è questione di acqua o muscoli delle gambe ma di testa (credo intendesse di determinazione) e di fede. Se manca la fede o la determinazione, non ce la farai. Poi, versandosi il te tre volte come d'uso prima di berlo mi ha sorriso e mi ha detto: in 30 anni (o trent'anni fa o negli anni trenta) ho perso solo 6 muli ed un cavallo. Mancanza di fede?, chiedo io con aria ingenua. No, risponde lui perplesso, morti di sete. E torna a bere il suo the.”