venerdì 29 luglio 2011

Warm Rain

Pioggia Calda. e' quella che cade quaggiu'. ogni sera verso le sei.
in un attimo ti fradicia fino alle ossa, ti soffoca di umidita' e smorza i suoni ed i rumori.
se non fosse che qui anche solo camminare e' rischioso sarebbe piacevole lasciarsi bagnare in mezzo alla strada. invece dovremmo fare piu' attenzione.
naturalmente alla fine facciamo proprio cosi', lasciamo perdere e camminiamo.
poi, all'improvviso come e' iniziato, finisce. e ti lascia un po' stordito e boccheggiante, tentando di prendere fiato nel calore umido che sale ovunque.
pero', in mezzo al monsone ho trovato anche un fiore. ed e' stata una splendida serata di parole e scambio.
Il viaggio continua sempre, l'indomani.

venerdì 8 luglio 2011

Il Vento Caldo

Mi sembra di essermi addormentato da appena cinque minuti quando un vento caldo entra dalla finestra spalancata, muove le tende, bianche come esotiche vele, e mi sveglia.

Mi ritrovo perfettamente lucido a guardare il buio che disegna volute d’ombra profonda sul soffitto, negli angoli. Da qualche parte, irraggiungibili come satelliti, i miei cuscini. Sto fermo e ascolto il silenzio.

Poi mi scuoto, guardo l’ora. È notte alta. Vorrei essere fuori, seguire per un po’ il richiamo che il vento caldo mi ha portato e che mi ha destato. Ho dormito per neanche due ore. Stavo sognando. Di solito ricordo sempre i miei sogni. Questa volta no. Spero tanto che non fosse ancora lei.

Odio quando sogno lei. Può raggiungermi solo lì, quando allento il controllo. Probabilmente dovrei semplicemente smettere di dormire per qualche mese e, dopo un po’, lei sparirebbe. Per sempre, spero.

In un attimo mi rendo conto che invece lo sto proprio facendo. Sto pensando a lei. Da sveglio. Mi scuoto e allontano la mente da luoghi troppo pericolosi. Allora penso all’India.

Quest’estate, anzi, tra poco più di un paio di settimane, partirò per il viaggio più fantastico, lungo , pericoloso e meraviglioso che abbia mai fatto.

È talmente vasto, lungo, alieno che neppure so bene cosa pensare, immaginare, fantasticare.

Un mese in india. Passando dal Rajasthan, il Punjab, il Kashmir, scendendo lungo il Gange, fino a Calcutta. Poi il deserto, i monti, i fiumi immensi, la gente, i templi e il Nepal, Kathmandu. Che nome fantastico, Kathmandu. Forse sarà un problema arrivare in Nepal. Attraverserò la frontiera in qualche modo, ancora non so come, ancora non so neppure se il visto sul passaporto mi permetterà di rientrare in India o mi condannerà a vagare per i monti più alti del mondo. Non conosco nessuno che sia mai stato in Nepal, a parte due ragazzi belga conosciuti ad Istanbul due anni fa. Ma loro stavano andandoci. Non so se ci sono mai arrivati.

Inizio a pensare a cosa mettere nello zaino. Ogni volta che parto di nuovo metto meno cose. Ogni volta che parto è come se ci fosse meno R. da vestire, nutrire e trascinare avanti. L’ultima volta avevo solo 4 magliette e due paia di pantaloncini. Stavolta porterò solo i miei sandali. Forse anche un paio di scarpe. Voglio anche una camicia. Ma poco altro. Certo avrò con me il mio poncho di lana ed il mio cappello. Ma non porterò il giubbotto. Né il sacco a pelo. Tanto dovrò dormire comunque dove capita. Posso farlo senza nulla.

Porterò qualche libro. Sicuramente J. Conrad, che è il libro che mi porto dietro in ogni viaggio, perché lo leggo solo in viaggio. Sono dieci anni che me lo porto dietro. È il libro cui sono più affezionato. Poi porterò un libro di Kipling, che ho comprato usato su una bancarella. Dentro ci sono tutte le opere meno conosciute. Tra queste c’è Kim. Mi sembra appropriato. Sono indeciso sull’ultimo libro. Forse potrei rileggere la città della gioia. Ma è scontato e l’ho già letto 3 volte. Rimangono in lizza le poesie di Rimbaud, il libro sull’Asia di Terzani e un libro di antropologia di Diamond. Ma anche una storia dell’Islam nell’asia centrale. Oppure un saggio di Chomsky sulla decadenza. Rimando la scelta.

Sicuramente porterò il mio vecchio quaderno di viaggio. È rilegato in cuoio, fatto da me. Un’antica medaglietta d’argento con i cento nomi di Allah è cucita ai lacci che lo chiudono. Infilati tra questi ci sono dei pennelli, un paio di matite, una penna. Dentro ci sono tutti i pensieri, le storie, i disegni dei miei viaggi precedenti. Io sono lì dentro. E ora penso a quali storie, quali volti, si saranno aggiunte al mio ritorno. Quante nuove pagine avrò riempito a settembre? Avrò altri disegni ad acquerello a ricordarmi le sensazioni ed i luoghi, qualche nuovo biglietto di treno a segnare una pagina, qualche indirizzo, nomi di ragazze che non vedrò più ma di cui sarò stato perdutamente innamorato per una notte appena.

Penso a come viaggerò. Come al solito sarà su treni e autobus fetentissimi, quelli con la gente sopra il tetto che sembrano avanzare lenti come ghiacciai, oppure a piedi, chiedendo passaggi qua e là. dormirò nei posti più squallidi, contrattando fino all’ultimo centesimo per ogni notte. Assaggerò cibi dai sapori indescrivibili, che però mi resteranno anni dietro il palato, ricordi fatti di semi di cumino, farina di manioca e spezie.

So anche che una volta partito mi lascerò indietro tutto. Niente responsabilità, niente preoccupazioni. Niente ricordi. Solo io, il mio zaino e il mio compagno di viaggio. non vedo l'ora di lasciare tutto questo schifo.

Nella mia mente le immagini, i filmati che ho visto, le cose che ho letto su quei posti si mescolano incoerenti con i ricordi che ancora devo avere. Mi vedo a cavallo di un cammello mentre attraverso il deserto del Tahir verso Birkaner e Jaisalmer, e anche se ancora non ho mai montato un cammello, ne sento già la puzza. Mi vedo arrampicarmi sui monti del Kashmir a bordo di un autobus sobbalzante, cercando di non pensare che ogni curva a strapiombo sul nulla potrebbe essere rettificata dall’autista ubriaco. Mi vedo seduto nel tempio dei ratti, dove chiederemo ospitalità per la notte. E poi ancora dentro vecchie rovine abbandonate, in moschee piene di brusii. E ancora, mentre mi immergo nel gange, accanto alle pire funebri che bruciano incessantemente ammorbando l’aria del puzzo dei cadaveri che ascendono al cielo.

Ma poi, quasi stanco di tutti questi posti che ancora devo vedere, la mia mente si aggrappa ad un’ultima immagine. Sono solo, di sera, seduto sul tetto di un treno che corre attraverso un paesaggio fatto di pianure sconosciute, con alberi fitti in lontananza e le stelle che si affacciano in alto. Sono finalmente tranquillo. Precariamente aggrappato con fatalistica noncuranza a qualcosa che mi porta lontano e mi solleva l’anima. Mentre sono lì, mi raggiunge ancora una folata di quel vento caldo che soffia da Jaipur, la città delle case azzurre, e che smuove le mie tende, mentre seduto sul tetto del treno, viaggio verso l’orizzonte. Un passo avanti a tutto.

domenica 19 giugno 2011

Mille grù di carta.


Un giorno di tarda primavera, un anno indefinito di quando andavo alle elementari, Andreas venne a trovare la mia famiglia.

Andreas era, anzi probabilmente, da qualche parte, è ancora, un ragazzo tedesco che girava l’italia in vespa. Proprio così, un vespino bianco, scarburato, che quando arrivò a casa nostra lo si iniziò a sentire dal fondo della strada.

Un po’ come quando arrivano i temporali. D’estate.

Senti i tuoni che brontolano e rotolano sulle montagne. Il vento, prima caldo, che ti soffia fresco addosso e poi l’odore della pioggia. Lo senti da lontano. Senti che qualcosa è cambiato. Di solito quando è troppo tardi.

Quei giorni che si fermò a casa nostra io lo seguii dappertutto. Mentre scriveva lettere che non sapevo leggere, mentre trafficava con la vespa. Mentre andava a fare la spesa ed io tentavo di spiegargli la differenza tra la passata di pomodoro e i pelati. Aveva persino problemi a distinguere tra olio extravergine e l’olio per friggere. Però ad entrambi ci piaceva una bevanda assurda degli anni ottanta, che si chiamava la uanouan. Ora neppure mi ricordo che sapore avesse. Ma al tempo ne andavo matto. Anche Andreas. Ma immagino che nessuno dei due fosse troppo normale.

Andreas parlava solo tedesco ed io al tempo, avevo già dimenticato quella lingua. Lui mi parlava, io annuivo. Ci guardavamo e nessuno capiva un cazzo. Una relazione tutto sommato soddisfacente.

Una volta, dopo che avevamo giocato ad un gioco la cui unica regola era tirare pallonate fortissime contro la porta dei garage, Andreas iniziò a fare delle piccole gru di carta. Sapete, quei piccoli origami a forma di cigno che però non sono cigni. sono grù.

Le piegava partendo dai miei fogli di quadernone (con le righe di quarta). Poi le lanciavamo dal balcone. Alcune volavano. Altre precipitavano. Mentre cadevano Andreas mi disse “kennst du, klein arschlock? Sie sind unsere Traumen. Wenn sie fliegen aus, sie eintreffen werden. Wenn sie fallen, sie treffen nicht ein.” Poi prese l’ultima e me la dette. “das ist fur dir, gute leben”.

Io naturalmente portai a scuola la grù di carta. A ricreazione iniziai a farla volare. Cavolo, quella volava proprio bene. Almeno finché non atterrò sul banco di Gianluca. Un pallone gonfiato di classe mia, cui non stavo simpatico e che, francamente, consideravo una specie di semianalfabeta montato.

Naturalmente iniziò a dire che ne avrebbe fatta una migliore. Che avrebbe volato meglio e più a lungo (lui però si esprimeva usando il presente e l’imperfetto, di più non era capace… quindi le se voleva esprimere un concetto complesso suonava un po’ tipo “io ne faccio una che volerebbe dove solo gli uccelli volavano che la tua gli farebbe una sega e a te ti sputazzo”).

Comunque provò e, naturalmente non ci riuscì. Io da parte mia non ero assolutamente capace di piegare la carta e ottenere animali in grado di volare. Per me era una specie di magia e Andreas un mago.

Gianluca provò un paio di volte, senza permettermi di riprende la mia grù. Poi disse che doveva guardare come era piegata dentro. Inizio a tirare la grù per la coda e per il collo.

Ora, le grù di carta, se vengono tirate protestano pigolando in modo straziante e spiegano le ali più che possono per cercare di scappare. Così fece anche la mia, mentre io imploravo Gianluca di smettere e di restituirmi la grù. Lui mi guardò, sorrise come un imbecille. E strappo a metà la grù. La guardò e ridacchiando mi lanciò i pezzi. “io l’aveva detto che non funzionasse”.

Mi incazzai, ma contro gli stupidi non c’è mai lotta, vincono sempre loro. Se vogliono qualcosa o l’ottengono o la distruggono, altro non son buoni a fare.

Peccato per la mia grù. A me piaceva, ci tenevo tantissimo. Era una cosa bellissima. Volava e avrebbe portato i miei sogni lontano. Era qualcosa che io non sapevo fare, ma che qualcuno aveva fatto per me.

E magari, pensai, avrebbe potuto rifarla.

Per tornare a casa corsi, io avevo un sacco di fogli di quadernone (con le righe di quarta). Andreas mi avrebbe fatto mille grù di carta. E avrebbero volato tutte!

Invece, quando arrivai a casa, non c’era più Andreas. né la vespa bianca. Erano partiti. E io non sapevo fare le grù di carta e i miei sogni non si sarebbero più avverati. Mi misi a piangere, a quel tempo ancora mi riusciva.

Quella fu la prima volta che pensai che è proprio da stupidi distruggere qualcosa che poi non si è in grado di costruire.

Anche oggi non ho più una grù di carta in grado di volare. Non ho neppure più un quadernone (con le righe di quarta).

Che cavallo! (qualsiasi cosa voglia dire, con la risata stupida che segue sempre).

venerdì 22 aprile 2011

Avrei voluto dirti che


sei come una canzone dei RadioHead.
strana, complicata, difficile
bellissima.
che quando finisce hai solo voglia
di ascoltarla ancora.

eppure non potrò dirtelo, oramai.

giovedì 31 marzo 2011

People I Met


La verità è che parlo con un sacco di persone assurde. Da sempre.

o meglio, le ascolto. Mi interessa la loro vita. Se intorno a me c’è qualcuno un po’ strano, svitato o non del tutto centrato, state sicuri che nel giro di cinque minuti avrà attaccato bottone con me. La cosa singolare è che io, che di solito odio parlare o socializzare con la gente, con loro parlo (o meglio, ascolto) per ore e ore. O a volte minuti. Ma non è questo il punto. il punto sono le loro storie.

Prendiamo Hector, ad esempio. Hector vive, anzi, probabilmente viveva, a Miami. L’ho conosciuto su un autobus. Ho anche una foto con lui. Da qualche parte. Hector si è seduto accanto a me, c’erano altri posti liberi, anzi, il mio era ingombro dai bagagli visto che stavo andando all’aeroporto per tornare a casa. Ha iniziato a raccontarmi della sua vita. Aveva 80 anni. Viveva a Miami dal 1954, quando era scappato da cuba per sfuggire ai castristi. E aveva una targhetta legata al polso. Mi ha spiegato che lì sopra c’era scritto chi era, perché lui, mi disse tutto serio, aveva vissuto troppo e a volte lo dimenticava. Immaginava di essere qualcun altro e credeva di vivere la vita di quest’altro. Cosa che evidentemente non era giusto fare. E quindi sua figlia gli ha dato la targhetta.

In questo modo, diceva, quando non sapeva di essere Hector, la leggeva e si ricordava di essere Hector. Però, mi disse, sulla targhetta era scritto solo chi era Hector. Non cosa era Hector. Allora doveva ricordare quello che Hector aveva fatto, le persone che aveva conosciuto, i luoghi dove era stato, le cose che aveva vissuto. Solo che siccome aveva vissuto troppo, alla fine finiva che si scordava nuovamente di alcune cose, tipo dove stava andando o perché ci stesse andando.

Hector aveva la voce di Hugo Pratt che racconta Corto Maltese.

Mi chiese se anch’io avessi una targhetta. - Si, risposi, ce l’ho. E gli feci vedere il mio zaino. Sopra c’era la targhetta della compagnia aerea con il mio nome e il mio indirizzo.

Ne fu estasiato. Volle sapere chi fossi e dove stessi andando, cosa avevo visto e quante persone avessi conosciuto nella mia vita. Ogni tanto per la verità mi interrompeva per chiedermi se conoscevo sua figlia o se anch’io abitavo nel suo quartiere. Parlammo per tre quarti d’ora, perché era un viaggio piuttosto lungo. Mi dette il suo giornale. Era estremamente gualcito, mi disse che era un ricordo che potevo portarmi a casa per far vedere che avevo conosciuto Hector, che aveva una targhetta come la mia. Almeno, mi disse, quando ti perdi puoi leggere che giorno è e ricordarti dove stai andando. Guardai la data sul giornale, era di tre giorni prima. Hector sorrideva sempre e puzzava. Decisamente. Mi iniziai a chiedere se avrei dovuto fare qualcosa per lui, tipo parlare all’autista o a qualcuno intorno a me. Ma in realtà non sapevo neppure dove fosse il quartiere di Hector, magari era sull’autobus giusto. Gli chiesi se stava tornando a casa. “sometimes” mi rispose. Continuava a guardare la mia targhetta con aria felice. Non siamo in molti ad avere una targhetta. Quando ci incontriamo siamo felici.

John Smith l’ho conosciuto ad Hombori, che è l’ultimo posto prima del deserto. Da Hombori in due giorni di piste e strade dissestate arrivi a Timbuctu. Ad Hombori non c’è un cazzo se non una roccia gigantesca a forma di mano ed un Auberge fatto in un vecchio fortino della legione straniera. John Smith stava li, l’unico bianco in un paese di neri. Stava li perché lo avevano dimenticato.

Quando arrivai era sera, e lui ascoltava musica rock anni ‘70 da un vecchio mangianastri a pile, in mezzo al cortile del fortino. Beveva birra. Quando mi vide, sporco e lacero, mi invitò a sedermi accanto a lui. Mi accomodai sulla sedia di plastica bianca e mi allungò una birra da 66. Era calda e non era un granché, ma a lui non importava. Intorno aveva diverse bottiglie vuote e altrettante ancora chiuse. La serata sarebbe stata lunga, pensai.

Nell’africa equatoriale la notte arriva all’improvviso. Da un momento all’altro. Niente tramonti lunghi e struggenti. No, un momento prima ci vedi, il momento dopo è buio e le stelle ti assalgono a moltitudini. Come le zanzare. Io a John Smith non avevo chiesto nulla. Ma lui voleva raccontarmi lo stesso. Parlava Afrikaans, che è il dialetto dei Boeri. Mi disse che veniva dalla Rhodesia (che è un posto che non esiste più dagli anni ‘60). Che lui è, anzi, era, ispettore minerario per un compagnia sud africana. Era stato mandato in Mali per cercare oro e diamanti. Doveva ispezionare quei posti, cercare vecchie miniere, tracce d’oro o di gemme. Ma l’avevano dimenticato laggiù. Come dimenticato, chiesi io. - Semplice mi disse. Io sto qua e da anni nessuno mi cerca più. Si limitano a mandarmi lo stipendio. Accredito automatico, credo. Sul mio conto.

- La multinazionale è grande, mi spiegò. E mi hanno dimenticato. Io ora sto qua, nel deserto, con loro aggiunse, indicando col mento il gruppo di giovani ragazze, poco più che bambine, che stavano intorno a lui. Prese un bon-bon (così da quelle parti chiamano qualsiasi tipo di dolcetto, dalla caramella al marsh-mellow) e lo porse ad una ragazzina che non aveva neppure 13 anni. Seminuda. Lei lo prese con la bocca direttamente dalle sue dita, come un animale da compagnia. O forse era solo un gesto d’affetto.

Gli dissi che andavo a letto, avevo la febbre, dissi. Forse era malaria. Lui mi guardò e disse di non preoccuparmi, avevo bevuto la sua birra. Lui la beveva da quando era qua. Era la sua profilassi. Funzionava. Funzionò anche per me. Ma quella notte successero altre cose. Ne ho già scritto in un altro racconto che pochi hanno letto. non mi ripeterò.

La mattina dopo, quando ripartii, all’alba, John Smith non si vedeva da nessuna parte. Non mi importò granché, John Smith, che in inglese è come dire nessuno, non mi piaceva. L’importante è che non ero più lì.

Yussuf l’ho incontrato due estati fa, in Turchia a Pergamo.

Eravamo appena arrivati, eravamo stanchi, accaldati. Girare la Turchia in bicicletta iniziava ad apparirci come un’idea non troppo brillante. È sempre così in viaggio, quando la fatica ti rende incline alla disperazione e ti domandi chi te lo ha fatto fare. il fatto è che oramai sei lì, e tanto vale andare avanti. Non me ne sono mai pentito.

Eravamo fermi seduti su alcuni gradini rialzati, sul bordo della strada. Le bici accanto a noi. Bevevamo. Eravamo arrivati, avevamo percorso circa 70 km quel giorno e dovevamo solo trovare dove dormire. Io mi guardavo in giro e leggevo la lonely planet. Mi ero tolto le scarpe, lo zaino, gli occhiali. Ad un certo punto ci sentiamo chiamare. Vediamo un tipo strano, magro, dalla faccia stralunata che, in inglese, ci chiede chi siamo. Lui è Yussuf, ci spiega, e ci chiede cosa facessimo da quelle parti. Glielo dico.

Mi ci ero abituato, oramai, alla curiosità delle persone. Tre dementi con delle biciclette stracariche. In asia minore non è precisamente uno spettacolo quotidiano. Questo però era diverso. Di solito dopo averci chiesto da dove venivamo e dove andavamo la gente continuava per la propria strada. Lui invece iniziò a raccontare.

Anche lui aveva girato un sacco. Tirò fuori una macchina fotografica digitale. Un vecchio modello, di diversi anni fa. L’aveva comprata a singapore, spiegò. L’aveva presa perché ci portava dietro la sua vita. Ed iniziò a farcela vedere, la sua vita. Centinaia di foto, in centinaia di posti diversi, indonesia, cina, africa. Si era imbarcato per viaggiare, spiegò. Ed i suoi viaggi erano tutti lì. Persone sorridenti, posti, facce. Era incredibile. Per ognuna di esse lui aveva una storia, un ricordo, un pezzo di vita. E se la portava dietro. Sempre. Anche ora che era a casa, aveva tutti i suoi luoghi con se, ci spiegò.

Non era contento di essere a casa. Non lo capivano, disse. Avevano una mentalità ristretta e pensavano che lui fosse strano. Anche suo padre, ci spiegò, lo pensava. Perché lui, Yussuf, non voleva prendere moglie e trovare un lavoro. Lui, continuò, doveva cercare altra vita da mettere nella sua macchina fotografica. Anche se, aggiunse con un certo rammarico, ogni pezzo di vita che aggiungeva ne doveva cancellare altra. Sapete com’è, i limiti della tecnologia.

Ma non gli importava. Non parlammo molto con Yussuf. Ma lo capimmo. Lo capimmo molto bene. E alla fine, siamo finiti anche noi tre nella sua macchina fotografica, al posto di una vecchia fotografia che cancellò lì per lì. A volte mi domando se ci siamo ancora. Lui è nella mia.

sabato 22 gennaio 2011

Hogwards

È strano come i ricordi tornano a galla all’improvviso.
stasera correvo sulla ciclabile, il vento gelido che mi sferzava le gambe lasciate scoperte dai pantaloncini mentre soffiavo aria calda nei guanti per scaldare le mani. Quei cazzo di sei chilometri non mi sono mai sembrati così lunghi. Correvo per sciacquare via la rabbia, come sempre, ma era troppo freddo per concentrare i pensieri su qualcosa. La luna, enorme e freddissima, insieme agli arctic monkeys sparati nelle orecchie sotto al cappello di lana e alla kefia di cotone che mi avvolgeva il viso, erano estranianti. Intorno nessuno per chilometri. Nemmeno i cani mi abbaiavano contro. Di solito lo fanno sempre, da dietro i loro cancelli, le siepi e i muretti delle ville. Troppo freddo anche per loro. Le undici di venerdì sera. Chi cazzo vuoi ce ci sia per strada, coglione.
Comunque sia, prima di Canneto, la mia attenzione si aggrappa distratta su un’immagine. Davanti a me, non troppo lontana, una ragazza con un vestitino leggero svolazzante è ferma e guarda la città dal parapetto in legno, proprio nel punto che, anni fa, un cretino che voleva dimostrare qualcosa ha sfondato sfasciandosi le ossa.
Mi avvicino un po’ stupito. Cazzo, è freddo, è vestita troppo leggera. Ed è sola. È pericoloso se non sei una specie di psicopatico attaccabrighe di quasi 100 kg con la mania del jogging notturno.
Invece mi accorgo che era solo un immagine mentale, un ricordo che la mia memoria ha sovrapposto ad un telo bianco aggrovigliato ad un palo. Che il vento impetuoso fa svolazzare. Inseguo quell’immagine indietro nel tempo e torno in Galles.
Si lo so, a leggere quello che scrivo sembra che sia stato dappertutto e abbia fatto cose ganzissime. Invece, se leggete bene, si tratta per lo più di episodi sfigati. Anche questo qua.
Avevo 16 anni e, tanto per cambiare, ero stato spedito in Inghilterra ad imparare l’inglese. Vacanza studio. Le ho sempre adorate, ma quell’estate in particolare non mi andava molto. Per la prima volta infatti era estate e avevo la ragazza. Mi piaceva pure un sacco, al tempo avrei giurato che ne ero innamorato perso. Due mesi dopo mi avrebbe mollato per un coglione che valeva un decimo di me e che giocava a calcetto. Puttana.
Comunque sia, nel giugno del 1991 faccio il mio ingresso ad Hogwards. Naturalmente non si chiamava così, il posto era Cloisters, ma vi giuro che era identico a quello che, 10 anni dopo, è diventata la scuola per maghi sfigati.
Funzionava così: i maschi dormivano in camere doppie o triple all’esterno del complesso di edifici neo gotici formato dall’edificio principale, dal chiostro (da cui il nome) e dalla chiesa. le ragazze dormivano proprio nel corpo principale, in camere da 5 o 6. Loro stavano meglio.
Io finii, in virtù dell’ingegno di qualche mente brillante che aveva letto la mia città natale sul passaporto e aveva sbagliato deduzione, in camera con un ragazzo tedesco, più grande di me di 3 anni. Lui parlava appena appena inglese, io lo balbettavo. Non sono mai riuscito a scambiare con lui due parole prima della Notte del Fantasma.
Il giorno dopo iniziammo le lezioni ed io finii in classe con S., che era molto carina, se la tirava e, naturalmente, mi piaceva un sacco. (lo so, 3 paragrafi fa ho detto che ero innamorato della mia ragazza, che ci volete fare, sono un tipo sensibile…). iniziai così il mio rituale di corteggiamento usuale che consisteva (e, purtroppo, consiste tutt’ora), nel prenderla in giro con mille battute e poi fare finta che non esistesse neppure e un sacco di altre cosette altrettanto efficaci …
Tutto questo naturalmente non sortiva molti effetti. Almeno fino alla Notte del Fantasma.
Quella sera particolare il mio compagno di stanza mi disse (o meglio, mi fece capire), che, se avevo coraggio, mi avrebbe portato nelle stanze delle ragazze. Ma occorreva fare molta, molta attenzione. Infatti di notte c’era il custode che girava per i corridoi e per il parco intorno al college. Se venivi beccato fuori dopo le 23 c’era l’espulsione e venivi rimandato a casa. Una specie di nascondino con una posta alta. Accettai immediatamente, e decisi che quella notte avrei finalmente dichiarato il mio amore a B., costasse quel che costasse, senza prese in giro, mezze frasi o altro. Se ero abbastanza coraggioso da seguire uno squilibrato di notte in una specie di missione suicida che rischiava di farmi tornare in italia con tre settimane di anticipo, lo sarei stato anche per dire ad una ragazza quello che provavo. Per maggior sicurezza mi preparai anche un discorso, che scopiazzai spudoratamente da Shakespeare. Cazzo servivano 2 ore di letteratura inglese al giorno altrimenti?
Le campane del torrione suonarono i dodici rintocchi e noi ci avviammo fuori. C’era la nebbia bassa, quella che ti copre solo fino ai polpacci e che ti impedisce di vedere dove corri. Ma se ce ne fosse stato bisogno ti ci potevi anche nascondere semplicemente tuffandotici. Ce ne fu bisogno quasi immediatamente. La porta del nostro dormitorio era chiusa a chiave. Lo squilibrato allora pensò bene di uscire dall’uscita di sicurezza. Suonò l’allarme e la porta si richiuse dietro di noi. Eravamo fuori e iniziammo a correre come disperati. L’allarme si spense quasi subito, ma i custodi uscirono tutti a vedere cosa succedesse. Iniziarono a girare con le torce in mano come i nazisti dei film, ma senza i rottweiler. Per fortuna.
Aspettammo un sacco di tempo acquattati in attesa di poter sgattaiolare nella cantina della chiesa. Lo squilibrato aveva lasciato la porta aperta quel pomeriggio. Da li salimmo nella navata, poi al torrone e, una volta in cima, sgattaiolammo nel ballatoio che univa la torre all’edifico principale. L’atmosfera era tesa. Non era andata per niente bene, e, oltre al rischio di essere beccati, dovevo anche stare attento a non precipitare dal tetto.
Quando arrivammo sotto al corpo principale capii perché lo squilibrato aveva bisogno di me. Dovevamo arrampicarci verso una finestra della soffitta. Dovevo prenderlo sulle spalle. Lui poi tirò su me. Eravamo dentro. Anzi, eravamo nel sottotetto. Ad un certo punto passammo davanti ad uno specchio coperto da un lenzuolo e il tizio mi spiegò che quello era stato in camera di una ragazza che, 30 anni prima, si era suicidata per amore. La sua anima era rimasta intrappolata lì dentro e, con la luna piena, usciva vestita solo del lenzuolo in cerca dell’amore perduto. Chi la incontrava rischiava di farsi baciare e, quindi, succhiare via la vita per divenire anche lui un fantasma. Mi giurò che era vero e proseguimmo, mentre io, per farmi coraggio, ripassavo la mia dichiarazione a B..
Scendemmo una ripida scala a chiocciola di pietra e ci ritrovammo nel corridoio del dormitorio femminile. Era fatta. C’eravamo riusciti, eravamo dei grandi ed io avrei coronato il mio sogno d’amore. Quando avrei raccontato a B. del fantasma si sarebbe sciolta nelle mie braccia. Solo che non avevo idea di quale fosse la sua stanza. Non ci avevo pensato. Lo squilibrato non sembrava avere problemi di orientamento. Si diresse lungo il corridoio contando le porte, arrivato davanti ad una precisa, bussò piano. Io mi affiancai a lui.
Aprì B.. Dio evidentemente esisteva ed era dalla mia parte, mi aveva guidato da lei, direttamente nelle sue braccia. Chiusi gli occhi, presi fiato, richiamai ala mente la battuta d’avvio del mio discorso e …
quando aprii gli occhi B. stava baciando lo squilibrato. Lui la palpava. Entrarono in camera e mi chiusero la porta in faccia. Il rumore della porta che si chiudeva fu sommerso dal rumore di vetri infranti che produsse il mio cuore spezzandosi, neppure per l’ultima volta, lì, nel corridoio del dormitorio femminile di un cazzo di college gotico.
p-u-t-t-a-n-a. ogni lettera una falcata per tornare verso il basso. Non dal tetto, dallo scalone principale. Che mi spedissero pure in italia, non mi importava più un cazzo. Anzi meglio. Uscii dalla porta principale, sperando di sentire suonare l’allarme. Almeno, magari, perquisivano le camere e avrebbero spedito via pure lo squilibrato traditore. Invece nulla. Non era allarmata. Evidentemente l’allarme di prima non serviva a tenere fuori i ladri ma a tenere dentro gli studenti. Fottuti inglesi. Fottuti tedeschi psicopatici.
E fu così, mentre giravo dietro alla chiesa che la vidi. Era in mezzo al prato, era vestita di bianco con un abito leggero e svolazzante. Sembrava, anzi no, lo stava proprio facendo, ballava sotto la luna piena a braccia distese. Era il fantasma.
Ne ero sicuro, era lei, gli assomigliava. Solo non capivo perché stesse ridendo e saltando mezza nuda in mezzo al prato. Chissà, forse se mi avesse visto avrebbe baciato anche me. Non sarebbe poi stato tanto peggio che farsi rispedire in italia no?. Invece mi acquattai nella nebbiolina, finché il fantasma non si stufò. E sparì dietro la chiesa con quella che sembrava proprio una bottiglia di Baileys in mano.
Il giorno dopo chiesi di cambiare stanza e, la solita mente geniale, fraintendendo l’origine del mio nome mi spedì in camera con 3 colombiani, il cui concetto di imparare l’inglese girava intorno al rum e alle canne. Sempre meglio che con lo squilibrato ladro di innamorate fantasma.

mercoledì 5 gennaio 2011

Kadifecale




Arrivammo a Izmir poco dopo le due. Faceva caldissimo e noi spingevamo a mano le bici nel baazar, il mercato. In realtà l’impressione era quella di scivolare in un fiume di gente, seguendo la corrente. Sarebbe stato pressoché impossibile andarvi contro. Ogni tanto qualcuno ci guardava. La polvere e il sudore ci incrostavano dalla testa ai piedi e le bici facevano comunque il loro effetto. Sembravamo cowboy fuori tempo massimo. Io avevo una maglietta rosa, gli occhiali da superman e una bandana in testa. Ah, anche i guantini da ciclista. Non una delle mise di cui vado più orgoglioso per la verità.
Comunque avanzavamo. Troppo stanchi per soffermarci ad apprezzare la varietà di colori, odori e suoni che ci arrivavano da tutte le direzioni. Ogni pochi metri alzavamo gli occhi verso qualche stranezza locale. I banchi delle spezie con i sacchi pieni di colori, le macellerie con i capretti squartati appesi sulla strada e i banchini che vendevano immagini e feticci dell’ataturk ci attiravano magicamente.
Izmir è fatta così. In mezzo c’è il mercato e ovunque tu voglia andare, devi passarci.
Cercavamo un posto dove dormire. Eravamo entrati in diversi posti lungo le strade del mercato, ma nessuno ci attirava particolarmente. Fu A. a risolvere la situazione.
- Laggiu c’è un buon posto. Disse, indicando un vicolo fatiscente che si inerpicava stretto verso l’alto.
- E come cazzo fai a saperlo?
- C’è scritto lassù fece lui.
In effetti all’imboccatura del vicolo c’era un cartello, sotto un balcone che cadeva a pezzi: hotel very good diceva.
Caspita, non ci saremmo certo fatti abbindolare dalla pubblicità più ingenua che avessi mai visto pensai. Sarebbe ridicolo.
Invece facemmo proprio così. L’albergo si trovava nel quartiere povero, proprio prima che questo iniziasse a salire verso l’antica fortezza di Kadifecale. Le sue stanze erano piene di fascino, esotiche come un campo nomadi, si affacciavano su un orto giardino fatiscente ma profumatissimo ed estremamente silenzioso.
Il padrone, un tipo anziano e paffuto, con i baffi curvi ed un cappello buffo fece un po’ di storie per le bici, ma quando gli spiegai che senza di loro non avrebbe avuto neppure noi, acconsentì a farcele portare dentro. Immagino che nonostante il grande investimento in pubblicità, l’Otel Hikmet non fosse proprio in alta stagione in qual periodo. Per la verità non era in alta stagione da almeno vent’anni, a giudicare dalle sue condizioni. Ma per 4 euro a testa a notte ci andava benissimo. Nel suo turco internazionalizzato da qualche parola in inglese e tedesco il proprietario mi chiese se volessimo la doccia in camera o no. Costava 2 euro in più a testa. Era un furto, ma dissi di si. Quindi lui entrò in bagno e tolse il lucchetto che chiudeva il rubinetto. Ora avevamo la doccia in camera. Ci lavammo e lavammo i pochi vestiti che ci portavamo dietro. In mezz’ora la camera diventò effettivamente un accampamento di nomadi, con tanto di panni stesi. Poco male, in effetti era proprio quello che eravamo. Nomadi in bicicletta.
Quando viaggio lo faccio per il gusto del viaggio e non per turismo. Preferisco passare il tempo a parlare con le persone, a mangiare per strada quello che offre il posto. E così anche a Izmir non ci ponemmo neppure in mente di fare il giro dei monumenti, che pure sapevamo splendidi, risalenti alla dominazione greca e romana. Invece decidemmo di vedere il tramonto di Flaubert, tanto caro a N.
Infatti da qualche parte aveva letto che Flaubert in visita ad Izmir un centinaio di anni prima di noi, aveva dichiarato che, se c’era un tramonto che bisognava vedere almeno una volta nella vita era quello che dalla sommità del Kadifecale si tuffava nell’egeo.
Sulla Lonely Planet di quell’affermazione non v’era traccia. In compenso però sconsigliava di avventurarsi per le strade intorno al Kadifecale dopo il tramonto. Infatti quello era il quartiere povero e malfamato di Izmir. Aveva ragione la guida naturalmente. Ma preferimmo seguire il consiglio di uno scrittore dell’ottocento e ci avviammo a piedi verso l’altura che ospitava la vecchia fortezza del Kadifecale. A guidarci una bandiera turca immensa che sventolava sulla sommità.
Per un paio di kilometri ci inerpicammo per vicoli desolati, su cui si affacciavano catapecchie aperte il cui unico mobilio era un tappeto. Decine di bambini e di gatti spuntavano ovunque. Magri, scalzi e cenciosi. Sembrava un special del National Geographic Channel. Stranamente non ci fecero una grande impressione. Eravamo affamati e cenciosi anche noi.
Ad un certo punto ci trovammo spersi. Le vie non avevano nome solo, ogni tanto un numero. Noi del resto non avevamo una cartina ma solo una vaga indicazione. Così, mentre l’ora fatidica del tramonto si avvicinava, iniziammo a procedere un po’ a casaccio, ma sempre in salita. In fondo la fortezza era in cima. Quindi bastava salire. Almeno speravamo.
Su una strada un po’ più larga ci raggiunse una macchina della polizia. Si affiancò a noi e un poliziotto con un mitra sulle ginocchia ci chiese, in un inglese appena comprensibile, cosa ci facessimo in quel posto. Glielo dicemmo e lui ci disse che non era il caso. Era un Quartiere Molto Pericoloso. Lo disse proprio così. Con le maiuscole. ci disse di tornare indietro. Lo ringraziammo, lo assicurammo che avremmo senz’altro seguito il suo consiglio (in fondo non volevamo finire accoltellati vero?) e, appena la macchina della polizia svoltò l’angolo, continuammo a salire. Non credevamo davvero che avremmo potuto rappresentare una tentazione per nessuno. Io avevo le scarpe bucate e i pantaloni strappati. In tasca avevamo dieci lire turche. Probabilmente se avessero voluto rapinarci non sarebbero nemmeno riusciti a farsi capire e sarebbe finita con noi che gli chiedevamo indicazioni. E in ogni caso noi tre correvamo veloci e le lunghe ore di pedalata ci avrebbero dato un certo vantaggio sugli emaciati abitanti del Quartiere Molto Pericoloso. Almeno speravamo.
Alla fine ci arrivammo davvero al Kadifecale. Intuimmo subito che qualcosa doveva essere cambiato dai tempi di Flaubert. La fortezza costruita da Alessandro Magno non aveva precisamente l’aspetto di un monumento patrimonio dell’umanità, come l’ha definita l’Unesco.
Tanto per iniziare un patrimonio dell’umanità dovrebbe avere un biglietto d’ingresso. Lì invece non c’era nessuno. A parte una decina di ragazzi di tutte le età che giocavano a pallone proprio in mezzo alla fortezza, usando come porta dei pezzi di muro, un palo e delle magliette.
Inoltre in mezzo alle torri invece dei cartelli che spiegano in due righe un paio di millenni di storia del posto c’erano delle tessitrici di tappeti, con degli strani telai orizzontali che tessevano degli stranissimi tappeti coloratissimi.
Una delle torri poi era usata come camino. Qualcuno ci stava facendo un fuoco dentro. La cosa un po’ mi irritò. Cazzo pensavo, questa torre ha duemila anni e tutto quello che questi trogloditi riescono a farci è usarla come barbecue. Però. Però, girando lo sguardo, mi rendevo conto della differenza. Da noi ogni pietra antica è racchiusa in sofisticate gabbie, il cui accesso costa un sacco di soldi e dentro le quali, alla fine, ti trovi insieme a un mucchio di deficienti armati di macchina fotografica che non vedono l’ora di uscire da li per andare a mangiare. Qui invece ero libero di andare ovunque, senza cordoni, divieti d’accesso, guardiani e, soprattutto, stronzi in gita domenicale.
Infatti al Kadifecale non c’erano aree delimitate. puoi andare dappertutto. Proprio dappertutto intendo. Anzi, per arrivare in alcuni punti dovevi camminare in bilico sui muri alti. A metà di uno di quei muri A. confessò che soffriva di vertigini e aveva terrore delle altezze. Da li in poi procedette a carponi. Proprio un bel momento per fare outing.
Comunque sia riuscimmo a convincerlo ad arrampicarci fino all’angolo sud occidentale. Il più propizio per ammirare il tramonto che, prima o poi, sarebbe arrivato.
Ci sedemmo ansiosi di ammirare lo spettacolo della natura. Aspettammo un po’. Poi un altro po’.
Non succedeva niente. Nel senso che il tramonto non è una cosa di pochi istanti. No, ci mette un sacco. E a noi faceva pure freddo. Dentro di me pensai che Flaubert era un cazzone. A me Madame Bovary non era neppure piaciuto.
Mentre attendevamo si avvicina un ragazzino. Che mi porge dell’uva e, in tedesco, mi chiese perché fossi li.
Rimasi un po’ stupito. Gli chiesi come facesse a sapere che parlavo tedesco (tirato a caso, immagino). Lui mi guardò e mi disse che si vedeva, che ero tedesco. Bhé, immagino che non sia precisamente un complimento. Poi arrivò suo padre, suo nonno, un paio di zii, qualche fratello e le donne della famiglia. Si piazzano tutti e 160 accanto a noi. Il nostro angolo romantico era stato trasformato in un picnic.
Invece di irritarmi ero curioso.
Subito il padre ed il nonno si misero a parlare con noi. O meglio, con me, visto che parlavano solo tedesco.
Non erano turchi, erano curdi. Vivevano in germania, ma d’estate tornavano a casa.
Ora, i curdi sono il popolo più sfigato del medio oriente. Sono divisi tra turchia, azerbaijan, Iraq e Iran e nessuno li vuole. Eppure sono inoffensivi, gran lavoratori e abbastanza simpatici. Solo che stanno sul cazzo un po’ a tutti da quelle parti e tutti li hanno perseguitati, scacciati, fatti oggetto di simpatici e folkloristici genocidi. Il Kurdistan è un posto che non esiste. Nessuno di quei paesi lo riporta sulle carte. Eppure c’è, e ci sono i curdi.
Questi mi spiegarono un po’ la faccenda, mentre dividevano con noi frutta di ogni tipo. Senza che ce ne accorgessimo eravamo divenuti parte del picnic curdo. Parlammo per diverso tempo, mi raccontarono la loro vita in germania, io raccontai loro del viaggio che stavamo facendo e che pareva entusiasmarli un sacco.
Ad un certo punto però, come ad un segnale di un regista nascosto tacquero. Tutti. Mi voltai piano e su tutta la lunghezza delle mura del Kadifecale erano apparse persone in piedi che guardavano verso ovest. I ragazzi avevano smesso di giocare a calcio ed erano saliti, anche le tessitrici di tappeti avevano fatto faticosamente i gradini. Tutti guardammo verso ovest in silenzio. Il sole impiegò una decina di minuti a scomparire dietro l’orizzonte. Il cielo era oro, rosso, porpora e indaco. Dietro di noi l’oscurità iniziava ad avvolgere la fortezza come una coperta calda, ma davanti era uno spettacolo assoluto.
Flaubert aveva ragione. Naturalmente.
Aspettammo che anche le nuvole fucsia acceso scolorissero nel viola prima di iniziare a scendere.
-speriamo che i poliziotti si siano sbagliati, pensammo. E iniziammo a correre ridendo in discesa.