martedì 3 novembre 2009

A friend of mine and a thunder, far away...


Oggi mi è tornato in mente Fabbrì.
Erano decenni che non pensavo a lui, oggi, non so perché, complice forse la malinconia della giornata, mi sono trovato a ricordare la sua voce. Mi è parso di sentirla dietro di me, ma quando mi sono voltato ero, naturalmente, solo.
Non credo nel soprannaturale, ma credo che il passato, a volte, rifiuti di scomparire, come invece proprio dovrebbe, nella maggior parte dei casi, almeno.
Dunque, Fabbrì.
Fabbrì è il fratello di Marco. Fabbrì era il migliore amico delle mie estati dai nonni.
Le estati più belle da che ho memoria e che hanno smesso di essere tali solo quando ho iniziato a crescere lontano da li.
Con Fabbrì giocavo a soldatini, con Fabbrì giocavo a batman (io) e robin (lui), ben prima che l’accoppiata fumettistica assumesse definitivamente i connotati gay che ha oggi.
Ricordo la sua bicicletta meglio della mia. D’altronde era assurda, aveva il manubrio alto come un chopper ed un rapporto di marce ridicolmente basso, quando pedalava Fabbrì sembrava un anitra che tenti di spiccare il volo e non ci riesca.
Giocavamo ai soldati, sempre in guerra col mondo dentro divise fatte di sacchi di plastica annodati.
Giocavamo alle olimpiadi, che lui non vinceva mai.
Eravamo un gruppo, io, Massi, Marco, Emanuele, Manu, Luca e due ragazze di cui non ricordo i nomi. Al solito, nemmeno mi curavo delle donne, che esistessero o meno a me era indifferente. E poi come soldati non erano un gran ché. Non riuscivano nemmeno a distinguere un inglese (soldatino giallo/verde in pantaloncini corti ed elmetto a padella), da un americano (soldatino verde scuro con elmetto tondo)… deficienti.
Erano “gli amici”, come li chiamavo io: “Nonna vado dagli amici…”, “ero dagli amici…”, “sono gli amici torno alle dieci”…
Fabbrì era l’unico che credeva che le mie croste da scarlattina fossero davvero cicatrici di guerra (la nonna di Fabbrì no, infatti per un mese non vidi più né lui né gli altri. Quando arrivavo io loro venivano misteriosamente richiamati in casa per fare i compiti…).
Ad un certo punto, verso i 13 anni, gli altri iniziarono ad interessarsi di altre cose.
Marco aveva la pallavolo ed una delle due di cui non ricordo il nome, ricordo solo che a me non piaceva.
Massi aveva strane cose in testa, che ad oggi ancora non capisco.
Luca ed Ema il calcio.
Fabbrì era l’unico che lottava insieme a me per impedire che quell’ultima estate d’infanzia arrivasse a conclusione.
Continuavamo ad andare in bici nelle ore di canicola, a rubare i fichi dall’albero della casa stregata, a cacciare le rane “giù al fosso”, a prendere a colpi di cerbottana la gente alla fermata dell’autobus.
Le mie armate di soldatini improvvisamente divennero inferiori alle sue, che aveva ereditato quelle del fratello, cui non interessavano più. Ma tanto Fabbrì faceva schifo a lanciare la palla da tennis contro il mio schieramento, quindi vincevo sempre io lo stesso.
La sera, mentre gli altri sembravano trovare interessanti i discorsi delle 3 o 4 ragazze di cui intanto il nostro gruppo si era circondato, Fabbrì era l’unico che volesse venire ancora con me ad esplorare le cantine buie in costruzione dei palazzi nuovi (in realtà ci voleva venire anche Pamela, ma io naturalmente allora non capivo e quando mi disse che avremmo potuto andarci soli, senza Fabbrì, io per tutta risposta lasciai lei lì ed andai con Fabbrì…pagherei per avere ancora quello spirito!).
Fabbrì…
Poi iniziai a passare sempre meno tempo dai nonni, erano arrivati gli scout, i miei avevano deciso che ero abbastanza grande per andare in Inghilterra ad imparare l’inglese ed improvvisamente le mie estati, che erano sempre state lunghe e roventi, quasi eterne, si accorciarono, fino a scomparire.
Quando il comune levò il fosso, nostra eterna trincea, giungla da esplorare, terreno di caccia e di paura, per farci passare una strada io non c’ero a guardare le ruspe che ci toglievano i ricordi. Infatti quasi non me ne accorsi.
Era rimasto solo Fabbrì. Lui se ne accorse senz’altro. Casa sua dava proprio sul fosso.
Non ho più rivisto Fabbrì. Però anni dopo, mia madre e mia nonna mi dissero la verità.
Fabbrì era autistico. Aveva dei grossi problemi relazionali. Lo sapevano tutti da sempre.
L’unico che non se ne era mai accorto ero io. Per me il fatto che balbettasse e sputacchiasse quando parlava non sembrava così rilevante. Invece lo era. Insieme ai disturbi nervosi e tanto altro, che per me era solo Fabbrì.
Quando seppi questo già non lo vedevo da anni. Ero grande e gli anni novanta mi avevano già portato via.
Da allora non ho più saputo nulla di lui. Quando mia nonna è morta ho smesso di avere notizie “degli amici”.
Fabbrì non è altro che un ricordo rimasto fermo all’età di 12 anni. Che non crescerà mai, non morirà mai.
Ora è insieme ai luoghi della mente. Quei posti che non esistono più se non dentro di me, cui resto fedele negli anni, popolati da persone che non sono più o comunque non più come le ricordo. Solo che ogni tanto la loro voce mi raggiunge, chiedendomi di aspettare, di non correre in bicicletta che lui non ce ce ce la fa a sta-a-a-rmi dietro. Ed io invece corro avanti, faccia al vento, sempre più avanti. In lontananza il tuono. L’estate stava davvero finendo.

2 commenti:

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  2. bello. e buono, in quel modo nostro degli umani, che finisce per essere sempre un po' crudele.

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