Mi ero scordato come fosse
alienante muoversi di notte, al buio, ascoltando i rumori fuori. Assaggiare l’aria
che porta promesse di pioggia, di umidità. Di calura soffocante.
Le ho già vissute tutte, i miei
piedi scalzi ne portano memoria, quasi fossero anch’essi, in qualche modo,
sensi.
Cazzo. Le due e trenta. È la
seconda notte che non dormo. Ieri la febbre, oggi me stesso.
E allora tanto vale sedersi qui,
col vento tiepido e violento che entra a folate rabbiose dalla finestra e mi
arriva in faccia, a raccontare di un’altra interminabile notte. Di quasi un
anno fa.
Quando ti ritrovi lasciato solo per
la seconda volta in India nel giro di un paio di settimane inizi a riflettere.
Prima il mio compagno di viaggio,
che mi ha abbandonato per vigliaccheria dopo appena due giorni, poi lei, appena
trovata e un po’ più di una semplice compagna di viaggio. Per naturali scadenze
temporali. Questa volta.
Andare fino a Kathmandu. In Nepal.
Sulla cartina pareva un attimo, cosa facile. Quindi, perché no? Seguo l’avventura
e prendo per il nord, lasciandomi Varanasi alle spalle.
Solo che non c’è nessun mezzo che
da Varanasi ti porti fino a Kathmandu. Puoi solo avvicinarti alla frontiera,
passarla in qualche modo e poi arrangiarti. Quindi il mio obbiettivo immediato
era Sanauli. Una cittadina di confine cui la Lonely dedica appena due righe. Vado a cercare un autobus.
In India gli autobus partono
dalle stazioni, come da noi i treni. Solo che quelli sono grandi parcheggi
pieni di fango, rumore, colori, bambini e adulti sdraiati per terra ad
aspettare, a volte per giorni, di andare da qualche parte. Ognuno la sua. Anch’io
faccio così.
Mi appoggio allo zaino e mi
guardo intorno. Quale sarà l’autobus per Sanauli? Ce ne sono decine e ogni
minuto qualcuno parte e qualcun altro ne arriva. Tutti carichi all’inverosimile.
Dopo quasi un mese quaggiù so
riconoscere al volo le persone che possono darmi informazioni e quelle che, per
eccesso di cortesia, te le danno sbagliate. Non perché sono stronzi. Perché non
vogliono deluderti.
Il trucco è nel porre le domande
in forma attiva e mai passiva. Se tipo chiedessi a qualcuno cose tipo “ è
questo l’autobus per Kathmandu?” quello, invariabilmente, risponderebbe
scuotendo la testa (che vuol dire si) e sorridendoti. “Kathmandu? Kathmandu!” indicando
l’autobus. Se fossi tanto ingenuo da salirci mi troverei a Calcutta. All’alba.
No, la domanda va posta in modo
da non dargli la possibilità di essere accondiscendenti con te.
Quindi arrivo al centro dello
spiazzo fangoso. Aspetto di essere
notato. Qualcuno arriva. Arrivano sempre in India. Sono curiosi come i gatti
del mio piazzale, che quando torno a casa la sera e mi fermo nel mezzo,
arrivano da tutte le parti per salutarmi e parlare un po’.
Il tipo che arriva per primo è
vestito, naturalmente, da indiano. Pantaloni lunghi color polvere, camicia di
cotone stinto, di un colore indefinibile. E la pelle scura, oliata. I denti
bianchissimi lampeggiano quando mi si rivolge. In Hindi, naturalmente. Non parlano
alta lingua. Però sono bravi a capirti. Perché ti leggono dentro.
Gli pongo la domanda in forma
attiva. Semplice. “which’s goin’ to Sanauli?” senza indicare nulla, senza
staccargli gli occhi dalla faccia sorridente. Smette per un attimo di sorridere
(buon segno, vuol dire che sta pensando…)
“Sanauli?” ripete. Non ha bisogno
di conferme, ha già capito. È solo che gli piace parlarmi e lo fa.
Si gira, si guarda intorno e
parte deciso verso un gruppo di persone. Gesticola, mi indicano tutti due o tre
volte e partono in tre verso tre distinti bus. Parlano col tizio davanti alla
porta e, alla fine, tutti e tre mi scortano verso uno dei più scassati. Mi spingono
dentro, quasi avessero paura che, all’improvviso, possa ripensarci vanificando
così la loro gentilezza. Mi parlano a raffica tutti e tre, anzi tutti e
quattro, anche l’autista. Sorridono tutti. Non capisco una parola ma stringo
mani come se fossi una specie di celebrità.
Mi avvio verso il fondo di un
autobus pienissimo. Mi guardano tutti, senza nascondere la loro curiosità. Mi fissano
e quando passo accanto al loro sedile si voltano per continuare a guardarmi
mentre mi avvicino al mio posto. E a quel punto faccio il primo grande errore
di quella tratta di viaggio. Mi siedo in fondo. Incastro lo zaino tra i sedili (col
cazzo che lo metto sul tetto…) e mi ci siedo accanto.
L’autobus, già pieno, si riempie all’inverosimile. In India gli
autobus non partono ad un orario stabilito, partono quando sono pieni. E non nel senso di quando tutti i posti sono
occupati.
Partono quando, anche volendo, nessuno può più entrarci. E così, sul
sedile di fondo, originariamente concepito per cinque persone troviamo posto
io, il mio zaino, altri 8 adulti e 4 bambini (questi ultimi in braccio ad altri
adulti). L’autobus non è ancora partito ed io già non mi sento più le gambe.
Poi partiamo. Sono quasi le sei,
ma sta già scurendo. Guardo fuori dal finestrino la strada che inizia a
scorrere. Poco più avanti un bambino inizia a piangere (e lo farà per
complessive 4 ore, 42 minuti e qualche secondo, finché i suoi genitori non
decideranno di essere arrivati).
In quel momento, guardando fuori
dal finestrino, ho provato una delle più strane sensazioni di quel viaggio. Non
ero dentro di me, ero fuori, avanti nel tempo e indietro, nello stesso momento.
Ero a casa a scrivere questo blog
(allora ancora non sapevo che sarebbe trascorso un anno prima che ci rimettessi
mano), ero con lei, le raccontavo il viaggio senza di lei. Ero ancora a
Varanasi, ero a Kathmandu. Ero in un sacco di posti e di tempi, mentre guardavo
i campi, la gente accovacciata per i bisogni serali (il bagno in casa in India
è ancora un lusso), il mio riflesso sul vetro che, via via che l’esterno si
faceva scuro, si faceva più definito.
E intanto l’autobus andava.
Ogni mezz’ora controllavo la cartina, cercando di far collimare i nomi
in Hindi dei cartelli con i caratteri occidentali della mappa. Non avevo cibo. Avevo quasi finito i soldi e da quelle parti i
bancomat non funzionavano affatto. Avevo solo 43 rupie in tasca. Non valevano neppure
un euro.
In quei giorni non mangiavo
quasi nulla comunque.
Avevo solo la mia borraccia piena d’acqua. Così la tirai fuori e ne
diedi una sorsata. Poi, come ispirato da un improvviso senso di fratellanza
(io?) mi volto a destra e guardo il mio compagno di viaggio. Un tipo
allampanato, scuro di pelle, baffi e capelli. Avrà 30 anni. Lui naturalmente mi
guarda sorridendo (non illudetevi, dopo un po’ il fatto che sorridano sempre
perde quel calore umano iniziale ed acquista un ché di non troppo
intelligente). Gli porgo la borraccia. Lui l’afferra, la alza e si fa cadere
una grossa sorsata di acqua in bocca. Felice mi restituisce la borraccia.
Così, da li in poi, ogni volta
che bevevo gli allungavo la borraccia e lui, contento, ne beveva tutto felice,
neanche stessimo passandoci del vino.
Mentre le strade e le città
scorrevano fuori nel buio pesto indiano, lascio vagare i miei pensieri. Penso a lei, perlopiù.
Ad un certo punto, a Maunath
credo ma non potrei giurarci, l’autobus si ferma.
Loro fanno così, si fermano ogni
tanto, anche se non c’è alcuna fermata. la gente scende a fare un giretto,
compra qualcosa da mangiare, tabacco da masticare, beve un masala chai, piscia
sul bordo della strada e dopo un po’ l’autobus riparte.
Non avendo nulla da comprare non
scendo nemmeno. Rimango al mio posto sperando che risalgano meno persone di
quante ne sono scese. Speranza vana. In compenso il mio compagno di bevute sale
e mi passa uno dei due samosa che aveva comprato. Karma, penso. Non avevo soldi eppure la cena era arrivata. Dovrei
essere più aperto verso questo pensiero.
Quando il bambino ululante
scende, siamo a metà del tragitto fino al confine. Dormire è impossibile ed io
soffro un po’ l’immobilità, schiacciato tra le persone, lo zaino ed il
finestrino. Guardo ancora l’ora sullo
schermo del mio nuovo cellulare indiano. Una replica contraffatta di un vecchio
modello nokia che ho pagato troppo, a Jaipur, e che aveva i tasti in caratteri
hindi. la scheda telefonica del Rajasthan oramai non serviva più a nulla. Quindi
l’usavo come orologio.
Sono quasi le undici. Il mio
compagno di viaggio è assorto con il suo cellulare. È su internet. Su youporn
per la precisione. Lo guardo. Mi sorride. Nulla di nuovo insomma.
Alle 3 di notte l’autobus è
oramai vuoto. Il mio compagno di viaggio è sceso da tempo, tra grandi saluti e
un ultimo, beneaugurante, sorso d’acqua della mia borraccia. Sono quasi a
Sunauli (che bellissimo nome, Sunauli… ha un suono che mi ricorda uno dei re di
cui narra Erodoto, Candaule, che perse sua moglie per un eccesso di fiducia…). Quando
finalmente l’autobus si ferma, non prosegue oltre, per il semplice motivo che
non c’è più india davanti a noi, scendiamo in cinque. Io sono l’unico non
indiano.
Gli altri si dileguano al buio,
tra le vie di questo paese di casupole piccole, buie e strade non asfaltate.
Io non so dove andare. Non c’è
nulla qua. Nemmeno qualche luce o un’indicazione.
Dietro di me, improvvisamente, sento un campanello di bicicletta. Un rikshaw.
Il tipo ai pedali mi fa capire che mi poteva portare fino alla frontiera. 100
rupie.
Rido della sua ingenuità e con aria esperta gli dico che gliene avrei
date solo 5. Dopo qualche minuto di inutili trattative (io ero l’unica persona
che aveva bisogno di sapere dove andare e lui era l’unico rikshaw in
circolazione…) ci mettiamo d’accordo per 15 rupie. Un prezzo tutto sommato
onesto.
Salgo e lui mi porta per circa
trecento metri, fino ad un palo che bloccava la strada. Mi scarica li. Quello era
il confine e lui non aveva nessuna intenzione di andare oltre. (prezzo onesto
una sega…). Mi indica però una casupola dall’altra parte. Probabilmente l’ufficio
immigrazione dove dovrò procurarmi il visto d’ingresso. Sul confine ci sono tre
soldati. Bassi e tarchiati, dall’aria molto minacciosa. Se non stessero
dormendo, intendo.
Gli passo accanto cercando di non fare rumore
e mi avvicino alla casupola.
Busso. Nulla. Busso ancora. Nulla
ancora. Do un paio di calci alla porta e poi, sconsolato, mi sdraio davanti all’uscio.
Ho sonno.
Dopo una decina di minuti mi
rendo conto che non riuscirò a dormire. Quindi tanto vale continuare a provare.
Lascio lo zaino ad ostruire la
porta e torno dai soldati. Li guardo per un po’ e poi ne scuoto uno per una
spalla. Delicatamente.
Invece questi, tutti e tre,
saltano su. E iniziano ad urlare puntandomi i fucili in faccia. Alzo le mani
(lentamente, molto lentamente).
Si calmano quasi subito e mi
chiedono 100 rupie a testa per l’incomodo di essere stati beccati a dormire
mentre erano di guardia al confine. Gli allungo 5 dollari. Se li spartiscano
pure come vogliono. Gli spiego il problema e uno di questi mi porta di nuovo
alla casupola.
Bussa, urla in nepali al tipo che
dorme dentro (sdraiato sotto una zanzariera…) e così ottengo il visto per il
Nepal. Posso starci 15 giorni.
Per arrivare a Kathmandu
impiegherò altre 15 ore. Ma questa è un’altra storia…