giovedì 22 aprile 2010

Orchidee

Per chi non lo sapesse, io adoro fuggire.

È la mia reazione naturale. Dalla gente, dalle paure, dalle responsabilità, dai rapporti e… dal lavoro.

Così ogni tanto, quando sto arrivando al limite della mia sopportazione, invento una scusa e saluto tutti.

Di solito neppure mi impegno troppo nel cercare la scusa adatta e così me ne esco con cose tipo

- uhm… no, non vengo a cena, grazie.

- Perché?

- Ecco, perché… perché devo far un po’ di cose, tipo… no sai… uhm, devo guardare la TV, c’è una cosa che devo assolutamente vedere, sai, l’ho programmato da una settimana e…

- E cosa è?

- Uhm… un film.

- Ah si? E come si intitola?

- Ecco… in realtà sto un po’ male e non mi sento…

Tutututututututututututu

Quando fuggo di solito sto da solo. Per lo più in posti strani.

Oggi pomeriggio, ad esempio, troppo distrutto per anche solo pensare alla montagna di atti giudiziari da redigere, alle probabili telefonate insulse cui dovevo rispondere e ai rari clienti da accudire, non sono tornato in studio dopo le cinque. Ho preferito accompagnare mia madre alla serra più esclusiva di Prato per comprare l’oro, l’incenso e la mirra con cui salutare anche quest’anno l’avvento della primavera…

Se non ci siete mai stati, continuate così. In ogni caso che non vi venga in mente di frequentarla nei pomeriggi infrasettimanali.

Il gotha delle ricche nullafacenti si ritrova là per festeggiare la propria inutilità formando capannelli estasiati di fronte ad improbabili ghirigori vegetali e rarissime specie di piante esotiche dai nomi, perlopiù, di fantasia.

Il mio ingresso naturalmente non passa inosservato. In fondo ero l’unico maschio adulto presente.

Inoltre indossavo la giacca sui jeans strappati e le scarpe gialle.

Ecco, l’unica altra persona che conosco che indossi scarpe gialle è Topolino. Fateci caso. Nessun’altro. Non di quel giallo pieno, almeno.

Comunque sia, faccio la facciaferoce e passo oltre. La facciaferoce di solito la riservo al supermercato. Ma data l’occasione…

Fatti pochi metri noto che mi sbagliavo. Non ero l’unico maschio presente.

E neppure l’unico in giacca, se per questo. Eravamo in due.

- Guarda, quello è l’ex sindaco…

- No ma’. L’ex sindaco è grasso e con la barba…

- Non quello, quello prima. Quella è la moglie. Viene in palestra. È tutta rifatta.

Raccolgo diligentemente l’informazione, chissà che non torni utile prima o poi. Magari potrei ritrovarmi ad uscire con una cui interessino i pettegolezzi del jet set di provincia, non si sa mai…

Dopo una mezz’ora di indecisione, mia madre sceglie estasiata l’ennesimo vaso, io le prendo il terriccio e mentre lei fa la fila alla cassa (in una serra! Di mercoledì pomeriggio! Era sesta e dietro ne aveva altri 3, tra cui l’ex sindaco con la barbie…), faccio un giro.

Ho sempre adorato le piante. Mi piacciono un sacco. Soprattutto quelle strane o esotiche.

Ed infatti ad un certo punto passo davanti alle orchidee. È la stagione della fioritura e sono bellissime.

Mi fisso di fronte ad una in particolare. È enorme e ha un sacco di fiori bellissimi. Porpora intenso screziati di bianco. Le radici aeree disegnano geometrie fantastiche in aria, gli steli svettano.

Inizio a pensare a dove metterla in casa.

Sì, perché ho sempre avuto piante in casa da quando abito solo.

Ho avuto un ulivo. Che è morto nel giro di un paio di mesi. Peccato, mi piaceva un sacco l’idea di avere un ulivo in soggiorno.

Ho avuto 4 bonsai. Hanno avuto tutti una lunga agonia.

Una bellissima azalea? Un mese in casa, un paio d’anni in terrazzo nella veste di memento mori.

Per un periodo ho anche fatto finta che mi piacessero gli arbusti morti. Infatti ne avevo una collezione: l’azalea, l’ulivo, i bonsai, le piante officinali…

Con le piante carnivore andò un po’ meglio. Alcune durarono anche un paio d’anni. Ma quelle si sa, non hanno bisogno di molto. Se hanno fame si servono da sole.

L’hanno scorso comprai anche un bellissimo cesto che ho riempito di orchidee di varie misure e colori. Lo guardavo a lungo e cercavo di capacitarmi di come dei fiori così belli non avessero odore… l’ho ancora. Il cesto intendo. Le orchidee sono dentro, morte e sparpagliate, insieme al ficus. Una mensola più in alto.

Ma cavolo, quell’orchidea di oggi. Era lì, bellissima, piena di vita, di colore, di sole. La guardavo e mi ricordava una canzone cantata a squarciagola in un cortile, girando in tondo in bicicletta. Quando potevo ancora permettermi di farlo, naturalmente.

L’accarezzai. Piano, appena sfioravo i petali, le foglie. Il colore, bellissimo, mi chiamava.

La presi in mano, la soppesai. Naturalmente potevo permettermela senza pensarci. Fare l’avvocato ha i suoi vantaggi.

Mi avviai alla cassa.

Mia madre la vide e restò estasiata. Mi incoraggiò nella scelta e fece un passo avanti. Toccava a noi.

Io, a quel punto, mi voltai e tornai indietro. Posai l’orchidea e le diedi un’ultima carezza, quasi potesse sentirla davvero.

Tornai da mia madre e senza una parola presi i vasi, il terriccio e mi avviai alla macchina.

Caricato, con molta fatica, il tutto mi volto e faccio per entrare in auto.

Vedo uscire una signora, non troppo anziana, non troppo giovane. Spinge un carrello carico di piante. Tra queste, da una parte, la mia orchidea.

Mi fermo e la guardo passare, quando arriva alla mia altezza alzo piano un mano e la saluto, silenzioso.

La signora mi guarda un po’ indecisa e poi mi risponde: – buonasera.

E passa oltre.

Mia madre mi dice che sono stato stupido a non prenderla e che l’avrei rimpianta.

E infatti ti rimpiango già. Non è indifferenza la mia sai? semplicemente preferisco che anche tu, come l’orchidea, non appassisca in un angolo della mia vita, travolta dalla quotidianità e dal sentimento troppo diluito.

Ho preferito rinunciare a te ancora prima di averti, sicuro che ti vedrò con altri, che forse si prenderanno cura di te in maniera più appropriata di quanto potrei mai fare io. Non voglio rischiare di spegnere i tuoi colori come è successo già con tutte le altre orchidee della mia vita. Ma è vero, ti rimpiango già.

venerdì 16 aprile 2010

Misplaced Loveliness


Voglio descrivervi il sogno di stanotte.
Ho dormito pochissimo eppure sono riuscito ad infarcire quelle due ore di incubi. Nemmeno troppo piacevoli.
Ero al Club (e per Club intendo quel fantastico posto pieno di coglioni vestiti di arancione fluò con strisce catarifrangenti), quando a causa mia (si, lo so che è difficile da credere…) si scatenava una furibonda rissa, di cui io ero il fulcro. Non ricordo bene il motivo, ricordo solo scene di cruda violenza (tipo io che prendevo una per i capelli e le sbattevo la testa al muro più e più volte, fino a farle perdere i denti, il naso, i sensi) oppure di io che venivo tenuto da tre persone mentre una quarta mi colpiva il viso con un sasso o ancora io che riuscivo a scansare un colpo agli occhi vibrato con delle forbici di cui ancora ora vedo le punte arrivare. Le impugnava una donna.
Peculiare, l’unica cosa di cui ero consapevole in quei momenti era la certezza assoluta e fondata che alla base avessi ragione io e non altri e che mi sentivo assolutamente fuori posto, come rigettato dal corpus sociale.
È una sensazione che avevo anche da sveglio per la verità. Infatti ieri sera al Club c’era una specie di triste e alcolicamente nostalgica rimpatriata di ex. intendendo quelle persone che frequentavano il club 20 anni fa, più o meno il periodo in cui ho iniziato a frequentarlo pure io.
Ed io ero l’unico tra quelli che ancora lo frequentano attivamente a conoscere le storie che venivano raccontate e che risalivano a quegli anni lontani, a ricordare vecchi scherzi, a capire perché tizia non salutava nemmeno caia eppure un tempo erano molto amiche (semplice, Caia scopò con Sempronio, il fidanzato di Tizia. Successe un gran casino e gli anni passarono. Il figlio che ora Sempronio porta in braccio è di Caia, sua moglie).
C’erano questi gruppetti di ex militi, ex amici, ex ragazzi brillanti che giravano su e giù, entrando in ogni stanza per rivivere ricordi e momenti. Io ho pensato a quanto fossero patetici e ho pregato chi mi stava intorno di spararmi (lo so, è più forte di me…) qualora tra dieci anni mi fossi ritrovato a fare quelle cose.
Poi mi sono unito a loro, sentendomi alquanto fuori posto. Fino al momento dei saluti. Quando ognuno di essi si è allontanato per conto suo, declinando l’invito a tornare a prestare il proprio servizio al Club e camminando deciso verso le loro rispettive vite, fatte di altre donne, altri lavori, altri amici. Le loro splendide vite fuori dal Club.
All’improvviso quello fuori posto ero io ed io solo. Che appartenevo ad un'altra epoca, rimasto indietro, tra le pieghe del tempo trascorso, incapace di andare avanti come invece avevano fatto loro.
Le scene di lotta si susseguivano, unite a momenti di calma in cui ero investito dallo sprezzo totale delle persone, per lo più anziane, che intorno a me discutevano della gravità del mio comportamento e delle sicure conseguenze disciplinari che questo avrebbe avuto.
Finché da una stanza chiusa usciva il mio avvocato e con aria tranquilla (quella che ci insegnano a tenere quando parliamo con chi sta per beccarsi l’ergastolo, onde mantenere accesa la fiducia in noi fino all’ultimo) mi annunciava che mi avevano ascritto dieci differenti capi d’accusa. io rispondevo che ne avevo contati solo nove.
È una bell’immagine. Io che picchio la gente contando mentalmente: “testa di cazzo, figlio di puttana” (ingiurie), schiaffo ad uno (lesioni lievissime), pugno ad uno e testata ad un altro (rissa), due pugni nello stomaco ad un terzo (lesioni lievi), ginocchiata in piena faccia, naso rotto (lesioni gravi), a terra, calci in testa, via i denti, gli zigomi, il naso ecc. ecc. (lesioni gravissime).
Alla fine la lotta riprende ed io mi trovo in mezzo ad un cerchio di gente che mi disprezza e mi tiene a bada con ogni tipo di attrezzo atto alla bisogna: bastoni, pezzi di ferro, vasi, aste di bandiera. Ed io mi giro e rigiro all’interno di questo cerchio che si restringe sempre più, ogni tanto riuscendo a sferrare qualche calcio o morso. Finché il cerchio non si allarga e vedo una faccia conosciuta e odiata che imbraccia un fucile da caccia, una doppietta, e con aria seria come se dovesse svolgere un compito spiacevole ma necessario (come infilare le dita nel tubo di scarico otturato per intenderci) mi guarda e pronuncia le fatali parole: “bisogna fare come con i cani rabbiosi”. Mi sveglio al momento del colpo che a giudicare dall’angolazione del fucile, mi deve essere arrivato dritto in testa.
Il problema è che ha proprio ragione lui. In effetti sono una specie di cane rabbioso. Mi sembra addirittura di comprenderne perfettamente lo stato d’animo: il cortile che ti va stretto, la catena che ti strozza ad ogni movimento che fai, la sensazione che tutti abbiano troppa paura per venirti vicino e poi, la peggiore, che quando vuoi parlare, quando vuoi disperatamente far capire che c’è altro in te oltre la rabbia, la bocca ti si riempie di bava rossastra ed inizi a ringhiare scoprendo i denti.
Non è che sono pazzo. È che mi fa schifo vivere.

mercoledì 7 aprile 2010

Come un legno nel mare


Il viaggio che inizia per mare è sempre un grande viaggio.
Salire a bordo di una nave, una nave qualsiasi, per un viaggio che durerà giorni, settimane. A volte, mesi.
L’enormità della nave è la prima cosa che ti colpisce. Ti eccita la forza con cui ti risucchia, gli odori così familiari e così esotici, nafta, olii, mare, cibo. I rumori, le urla in lingue a te sconosciute frammiste allo stridore dei pneumatici sul piano di carico, che rispondono ai gabbiani che fanno loro il verso, lontani, sul mare aperto. Il buio della stiva e dei corridoi stretti che all’improvviso sfocia nella luce abbagliante del sole, sul ponte. E tu, solo in mezzo al mare, ti senti un po’ Ulisse, un po’ Quasimodo.
Lasciammo il porto di notte. Una splendida notte. La luna si rifletteva immensa verso est, dalla parte del mare, dalla parte della destinazione a noi ancora ignota, celata dalle ombre dell’avventura. La affrontavamo con lo stesso spirito un po’ incosciente con cui un bambino troppo piccolo sale la prima volta sulle montagne russe. È sicuro, ma non del tutto, è spaventato, ma non può fare a meno di salirci. E quando salimmo a bordo fu un po’ come dire addio alla terra, sicuri certo, di rivederla. Ma, in fondo, in fondo, non così tanto sicuri.
Le navi, quando partono, salutano festose chi rimane, le sirene ululano i loro canti di addio e avvisano che sì, è proprio vero. Stanno partendo.
Quella notte invece la nave salpò in sordina, quasi non volesse disturbare noi, che soli sul ponte, ognuno perso nei suoi pensieri, guardavamo la terra allontanarsi tra le mille luci del porto e la nave attraversare la scia della luna.
È incredibile pure come sparisca in fretta la terra dietro l’orizzonte. Pensi che ci vorrà un sacco prima di essere in mare aperto ed invece, in un attimo, ti volti e lei non c’è già più. La sua immagine è stampata sulla tua retina, come accade quando fissi qualcosa di luminoso e poi chiudi all’improvviso gli occhi. Mi sono voltato e lei non c’era più era sparita dalla mia vita quasi senza una parola, lasciandosi dietro una maglietta e poco altro. Appena il tempo di un ultimo sms, poi neppure più quello.
Ti accorgi solo ora che quello che volevi dirle, non potrai più dirglielo. Quello che ti legava alla tua vita di prima è reciso, come quando immergi le dita nello zucchero filato e poi le tiri via. La massa soffice e appiccicosa ti rimane attaccata, poi si sfalda in tanti fili colorati, poi sempre meno, poi d’improvviso non sono più attaccati e a te rimangono solo i brandelli di storie vecchie, troppo dolci e troppo appiccicose. Avrei voluto sapere che non sarei tornato. Invece sapevo che l’avrei fatto. Perciò non potevo ancora leccarmi le dita.
Eravamo entusiasti della nostra cabina. Perché era la peggiore. Era incuneata nel punto più basso della nave, diversi metri sotto la linea di galleggiamento, con i letti minuscoli e fatti di ferro, con qualche coperta sopra. Costava meno del treno che avremmo preso al ritorno, meno di una delle vostre serate in discoteca, delle vostre cene al mare e ci portava lontano. Ma non potete capirci, perché siete esseri di un altro mondo, perché siete inconsistenti. E perché, in fondo, non capite un cazzo. Noi invece adoravamo quella fetida cabina sul fondo di una sgangherata nave turca che aveva a bordo meno persone di un autobus qualsiasi.
Quando ti svegli in mezzo al mare sei sospeso nel tempo. Tutto ti sembra immobile, a parte il sole che è l’unica cosa che si muove nel tuo universo relativo.
Non avevo mai sete, bevevo al bar di bordo solo per passare il tempo e studiare gli altri viaggiatori, immaginandone le storie e tessendo fantasiose trame con le americane. Il bar della nave è un po’ come un suk. Ognuno prende quello che vuole, parla in qualsiasi lingua gli aggradi e paga in dollari, euro, sterline, lire turche. Tutto va bene a tutti. Tanto siamo persi in mezzo all’egeo e intorno non c’è niente.
Il terzo giorno il vento aveva seccato i nostri volti. Conoscevamo ogni angolo della nave, ogni anfratto. Avevamo conosciuto qualche viaggiatore, ma non molti. Però sapevamo di godere di una certa ammirazione a bordo. Noi eravamo quelli che avrebbero fatto in bicicletta la strada che loro facevano in auto, moto o pullman. Ci fermavano e ci dicevano che ci ammiravano. Poi scuotevano la testa. Ma la maggior parte in fondo ci ignorava. Facevano bene, alla fine non fregava un cazzo neppure ai nostri amici, di dove eravamo. anche se ancora non lo sapevo, i miei, di amici, mi avevano prontamente sostituito… con la mia ex. che in quel momento faceva le stesse cose che di solito facevo io con loro, nello stesso posto. Ma non rimpiango quegli amici, in fondo sono più adatti a lei che a me.
E ancora la nave andava. Mancava ancora una notte, poi saremmo arrivati.
Non ho mai visto tante stelle, come in quelle notti in mezzo al mare. Quando non c’è nulla a fermare lo sguardo, quando ti ritagli un angolo di ponte tutto per te, e stai li, per ore, senza parlare, senza pensare, senza respirare. Sei come un pezzo di legno tra le onde. E ti accorgi che non è brutto. Affatto.
Viaggiare in nave risvegliava alcune curiosità patologiche che mi porto dietro fin da quando sono piccolo.
Mi succede spesso di averne, ad esempio, quando sono fermo alla stazione ed il treno sta arrivando. Lo vedo dai binari che compare, prima immobile, poi lentissimo, lento e poi, infine, incredibilmente veloce. Insomma, quando arriva, tutti fanno un passo avanti, preparandosi a salire.
Io faccio un passo indietro. Perché non mi fido di me stesso. Ho sempre paura di non riuscire a controllarmi e di gettarmi all’improvviso sui binari, appena prima che il treno sopraggiunga. Non perché abbia istinti suicidi (anzi, probabilmente ce li ho, ma non coscienti), ma per curiosità. Mi figuro l’attimo, le urla, il fischio lancinante e poi, pochi istanti prima del botto, la mia faccia che dice “che cazzo stai facendo? E ora come ne esci?”.
Lo so, sarebbe proprio così. Mi succedeva anche da piccolo quando mi buttavo da scogli altissimi, senza sapere dove sarei atterrato. Se ci sarebbe stata abbastanza acqua sotto di me. Mentre ero in volo c’era un attimo di terrore puro, in cui mi rendevo conto di aver osato troppo, che avevo ali di cera ed io ero troppo, troppo vicino al sole. Mi succede anche oggi, dalla finestra del mio studio che dall’alto dei cinque piani del palazzo guarda sui garage della camera di commercio. Guardo giù e mi immagino volare. Allora faccio un passo indietro.
Sulla nave era lo stesso. Guardavo giù e pensavo che se mi fossi lasciato scivolare fuori bordo non se ne sarebbe accorto nessuno. E io mi sarei trovato a galleggiare nel nulla senza più possibilità di essere ritrovato. Allora rientravo, scendevo nella mia cabina e, quasi senza una parola agli altri, facevo finta di dormire.
Passammo dei luoghi bellissimi, isole brulle su cui spiccavano bianchissime le case basse, come gesso, brillanti di luce.
Le guardavo e ne scorrevo mentalmente i nomi. Le guardavo e mi rendevo conto che non si vedeva traccia di civiltà. Nessuna auto, nessun palo della luce, solo qualche casa bassa e gli ulivi coltivati. Stavo guardando le stesse isole che ha guardato Ulisse. Lo stesso vento, lo stesso sole. Le seguivo fino a che, piano, sparivano.
Poi giungemmo all’altezza di Mikonos e mi resi conto che la odiavo. Come si possa odiare un isola, allora proprio non lo sapevo. Oggi lo so. E penso anche che quel sentimento fosse ricambiato. Io, che a volte vorrei essere un’isola, ne odiavo un’altra, bellissima.
Ma piena di stronzi.
Dopo Mikonos le cose peggiorarono, il vento si fece teso e le onde più lunghe. Il fondo della nave non era il miglior posto dove trovarsi con il mare grosso, ma proprio non ce la facevamo a stare in piedi. Potevamo solo giacere e cercare di non vomitare. Tranne A.. lui giaceva e mangiava.
Poi iniziammo a giacere e a cercare di vomitare. Intorno a noi lo facevano in molti. Si sentiva gente che vomitava ovunque.
Ad un certo punto non ce la feci più. Affrontai la faticosa salita verso il ponte, nove ripide rampe di scale, e… mi trovai davanti la costa turca.
Ancora sotto la luna, che però era così uguale e così diversa da quella che avevamo lasciato tre notti prima… e poi la baia, il porto, le luci. Eravamo arrivati, non ero più un isola, non mi ero abbandonato ai flutti, non avevo intrecciato improbabili relazioni e non ero morto sul fondo della stiva. Un viaggio era finito. Ora ne iniziava un altro. Casa era molto, molto lontana.



venerdì 2 aprile 2010

A night of cats and flames


Per quanto vi possa sembrare irreale ho sempre odiato che altri stessero male a causa della mia inerzia, negligenza o paura. Ho sempre preferito agire io piuttosto che aspettare, con il rischio, magari, di precorrere i tempi e pentirmi poi di quello che ho fatto. Succede spesso.
Successe anche molti anni fa, quando io, appena 16enne, rifiutandomi di seguire i miei al mare, mi trovai a passare un fine settimana da solo in casa, insieme ad una gatta incinta.
Vi avverto subito, è una storia triste, che va smorzata per essere digeribile. Pertanto la servo frammista a qualcosa di allegro, come si fa con le medicine troppo amare, cui si aggiunge un po’ di zucchero per buttarle giù.
Ecco quindi che ieri notte che vengo destato per andare a salvare l’ennesima vita nei panni segreti di supereroe che, con un po’ di intimo schifo, vesto una volta a settimana.
Il grido di aiuto che attiva i power ranger è di quelli seri: codice rosso (e già l’adrenalina dovrebbe salire alle stelle, mentre la musica di sottofondo cambia in qualcosa di veloce ed evocativo… peccato non si verifichino mai nessuna delle due evenienze).
E poi ancora: auto ribaltata in fiamme sulla tangenziale. Strano penso dentro di me. Non sono eccitato neanche un po’. Un tempo sarei saltato su come una molla troppo carica, ora vorrei solo continuare a dormire.
La gatta incinta, che era davvero molto incinta, scelse proprio quel fine settimana per mettere al mondo un numero spropositato di adorabili batuffoli di pelo, orecchie e zampe, con gli occhi ancora ciechi e l’espressione inequivocabilmente stralunata e smarrita.
Ed io dentro di me inorridii.
E ora cosa faccio? In famiglia tutti erano stati chiarissimi sul fatto che non avremmo potuto tenerne neppure uno. In effetti avevamo ben 3 gatte, di cui 2 figliavano ad intervalli molto ravvicinati. Avevamo faticato non poco a dare via l’ultima mandata e, oramai, avevamo esaurito tutti gli amici ed i parenti entro il 6° grado.

Arrivati sul posto lo scenario si fa subito esaltante. La macchina è effettivamente in fiamme e la scena discretamente apocalittica. Il buio, la pioggia, il rumore delle fiamme e degli idranti dei pompieri che creaano un denso fumo grigio oro che ci avvolge tutti.
Fiamme alte. I pompieri diranno 6 metri almeno, ma non è vero, si sa che per loro l’altezza delle fiamme è direttamente proporzionale alla lunghezza del loro pisello. Quindi tendono ad esagerare.
Improvvisamente la telecamera mentale che mi segue sempre fa un piano lungo, invertito, per poi zummare sulla mia espressione compiaciuta. Quando vedo un disastro epico o una situazione di caos potenziale sono sempre interiormente felice. È il mio bambino interiore che gode del marasma e spera sempre che sia successo qualcosa di irreparabile. Che ci sia una vittima da sacrificare a qualche oscura divinità primordiale che alberga nel mio cervello.
Un attimo di delusione e il sorriso sparisce. Nessuna vittima, il ragazzo è vivo, conciato male, ma vivo.
Mancavano ancora 2 giorni e mezzo a che quel maledetto weekend finisse ed i miei tornassero per assumersi le loro responsabilità di genitori, mediati, di 6 o 7 gattini appena nati. Ed io nel frattempo ero solo alle prese con i miei dilemmi morali.
Infatti la tradizione popolare vuole che i gattini che non si vogliono tenere vadano tolti immediatamente alla neo mamma, in modo che questa non faccia in tempo a contarli e ad affezionarvicisi. Mi piacerebbe applicare lo stesso criterio anche nel reparto maternità. Magari anche le cinesi non sanno contare…
Quindi onde evitare alla gatta strazianti giorni di dolore in cui vaga per casa e boschi in cerca della prole dispersa, dovevo fare qualcosa. Subito.
Naturalmente gli altri power ranger si sono gettati immediatamente sulla preda. Li guardo operare con la massima efficienza possibile. Un medico, un infermiere ed un promettente aspirante medico. Nessuno di loro sembrava avere bisogno di un avvocato, quindi mi tiro in disparte, ad osservare con calma la scena. Ridley Scott ne sarebbe stato entusiasta. La fotografia è degna dei migliori scorci in Blade Runner. A me ricorda un po’ le immagini trite dell’undicisettembre: pompieri qua e là, fiamme, fumo, un casco da pompiere rovesciato e, apparentemente abbandonato, che fa molto tragedia.
Per fortuna a ricordarmi che non stavo vivendo un film ma solo la fantastica verità della vita arriva la seconda ambulanza di un’altra associazione, da cui scendono in ordine un cesso basso ed un cesso alto che immediatamente si gettano nell’azione. Si avvicinano al mezzo ribaltato (probabilmente hanno istruzioni segrete da trasmettere ai pompieri…) e, solo ora noto una cosa incredibile. Una di queste eroine è… incartata. Letteralmente. In una specie di carta stagnola dorata che noi chiamiamo telo termico. Probabilmente la sua intenzione era ripararsi dalla pioggia. L’effetto finale è quello di un uovo di pasqua. Quando si avvicina (forse ha istruzioni segrete anche per me…) non posso fare a meno di ridere e di risalire sull’ambulanza. Non so cosa volesse. Non l’ho neppure ascoltata.
Allontanare i gattini dalla mamma è facile. Li misi in una cesta e li portai in giardino. Cosa farne era molto, molto più complicato.
La mia mente si riempì di modi orribili di porre fine alla vita. Nessuno dei quali mi sembrava particolarmente umano o caritatevole. Provai anche a chiudere gli occhi, per vedere se poi sparivano. Si sa mai, magari che dio c’è.
No, dio evidentemente non c’è. O magari stava semplicemente godendosi la scesa e non voleva interferire con i miei tormenti (anche in futuro sarà sempre così, mai una volta che dia una mano…).
La saggezza telefonica di mia nonna pose fine alla mia disperata ricerca: “se li chiudi in un sacchetto ben stretto, si addormentano e muoiono nel sonno. Senza accorgersene”. Grandioso. Avevo un sacco di sacchetti. Speravo solo che loro avessero sonno.

La macchina è quasi spenta. Si tratta di una mini cooper. Ottimo, adoro le mini in fiamme. Ho sempre odiato i fighetti con la mini. C’è una sorta di giustizia divina nel fatto che vadano a fuoco.
Questo qui poi ha la patente da 2 mesi ed è un fighetto discotecaro. Probabilmente gioca a calcetto. La divinità primordiale nella mia mente brama sempre di più il suo sangue. Invece dovrà accontentarsi di un bel pezzo della sua faccia.
Mentre sono assorto in questi pensieri arriva il caposquadra dei pompieri con una scarpa da calcetto in mano. -Quante scarpe ha? mi domanda. - Due, come tutti, rispondo (si, hai ragione Y., stasera è serata di sarcasmo fuori luogo).
Invece il problema è serio. Non torna il conto delle scarpe. I pompieri si guardano i piedi e mentalmente le contano. Due ognuno. Bene. Due anche per me e per i miei. Occhi puntati sui carabinieri. Due ognuno anche loro. Di chi cazzo è la scarpa? - Di quello carbonizzatooooo, lalalaaaaa, evvvivaaa… urla la mia divinità personale.
Il dottore si china sul fighetto e gli domanda se fosse solo in macchina. – Si.
Altro giro di consultazioni, i carabinieri aprono le indagini nel vicinato. Di chi è la scarpa? Passano minuti grevi di angoscia. La scarpa è sempre li, che fa finta di nulla, la puttana.
Poi si avvicina un pompiere e domanda allo sventurato appassionato di calcio e idolo delle ventenni che sanno come divertirsi: è tua la scarpa? Questi risponde ancora di si.
Ma potrebbe mentire. Tutti mentiamo sulle scarpe. Io ad esempio parto sempre col provare il 44. poi immancabilmente compro il 42 e mezzo.
Quindi l’indagine entra nel vivo. Colgo un carabiniere che osserva con attenzione le mie scarpe e quella che ha in mano. Magari, sembra ipotizzare, potrebbe essere una scarpa che tengo di scorta.
Infine si decide e chinandosi sul ragazzo lo apostrofa -si po’ sapè di chi minchia è sta scharpa ahé?
Il ragazzo finalmente si desta dallo stato di shock e inizia ad urlare – è mia, *orca *adonna, è mia, mia, mia, mia….” Attacco le sirene e mi dirigo verso l’ospedale. Ghignando come un deficiente.
Fatto. Tutti i gattini sono nella busta. Azzurra, me lo ricordo ancora. Si muovono appena. Mi siedo accanto a loro ed aspetto. Non ho il coraggio di lasciarli soli. Vorrei fuggire ma non posso. Non funzionerebbe. Come non ha funzionato chiudere gli occhi.
Passa un’ora ed effettivamente non si muovono più. Molto.
Ne passa un’altra, è buio ed io sono seduto fuori in giardino, solo con un sacchetto di gattini morenti.
È un sabato di merda, ma io lo odio comunque, il sabato.
Allo scadere della terza ora muovo la busta. Sono tutti morti. Tutti, tranne uno. Questo è vivo e continua a spingere verso l’esterno. Ne sento la testolina che batte contro le pareti di plastica.
Cerca con tutte le sue forze e a lungo di liberarsi. Ma è una lotta vana.
Non può vincere. È solo, contro un destino che non conosce, che non può vincere e lotta, senza denti né unghie. Con gli occhi chiusi.
Meriterebbe di vivere, sicuramente più dei fighetti con la mini.
Ma non succederà. Lo accarezzo attraverso la busta e penso che è destino. Che posso salvarlo, che lo farò, lo tirerò fuori di lì e in culo tutti.
Che ce la sta facendo. Che…
È proprio come mi sento io oggi. Lotto senz’armi per togliermi il sacco di plastica che mi soffoca. Che mi è stato imposto da qualcun altro, contro cui, in realtà, non posso fare proprio nulla.
E come allora, so già che nessuno aprirà il sacchetto di plastica.
Anche oggi la lotta è vana.