venerdì 19 marzo 2010

Regretful Deads II

È successo ancora.
La prosaica stupidità dei vivi si è scontrata con la serafica indifferenza dei quasi-morti.
Ennesima corsa nella notte per cercare di salvare una vita che non aveva nessuna intenzione di lasciarci interferire con il suo corso naturale. Ancora uno scontro tra la professionalità imbelle e arrogante dei titolati (o presunti tali), contro la semplicità dell’irrilevanza delle azioni umane.
Arriviamo sul posto (target, si dice target), coi nostri costumi da power ranger, tronfi ed assonnati varchiamo le soglie del purgatorio terreno: il centro degenza alzheimer. Un posto asettico, anonimo, dove in comode gabbie bi-gerontiche giacciono ignavi ed inconsapevoli relitti di epoche passate, le cui date di nascita richiamano vecchi regimi, guerre dimenticate o memorabili eventi la cui importanza storica viene messa in ombra da una qualsiasi puntata di Amici.
La signora Natalina nacque nel momento esatto in cui il nostro neoclassico dictator et dux spingeva la sua idealistica e raccogliticcia armata di pazzi verso roma.
È ha deciso di morire in uno squallido ed anonimo anno di nulla. Presto, ma non ancora.
Sul posto troviamo già un’infermiera (del centro alzheimer) ed un'altra ambulanza (di sfigati vestiti come l’equipaggio di star trek).
La diagnosi dell’infermiera era abbastanza inquietante (almeno per Natalina, suppongo): non respira, non si muove, è fredda, è in coma ipoglicemico e fa movimenti convulsi con le braccia.
Il mio alter ego invisibile (che è molto più stronzo di me, a proposito, se lo incontrate evitatelo…) nonostante il sonno ha sufficiente spirito sarcastico da farmi notare che la diagnosi appare abbastanza contraddittoria. Ma… niente paura, abbiamo il nostro medico. Lei sì che risolverà brillantemente l’enigma del cadavere agitato. Assomiglia pure un po’ a miss Marple.
Entriamo in una cella di conservazione per quasi-cadaveri. Saluto educatamente i morti che altrettanto educatamente mi ignorano.
Natalina mi appare abbastanza serafica per essere contemporaneamente morta, in coma, in ipotermia e soggetta a movimenti convulsi con svariate parti del corpo. Ma io naturalmente non sono un infermiere. Sarà per quello che non capisco.
Comunque il nostro super medico in versione gnomo irlandese (è san Patrizio, che diamine!) decide di fare comunque una serie completa di analisi, decisa più che mai a far si che la signora Natalina si goda ancora i suoi lunghi e felici anni di allettamento nel fantastico mondo di Alzheimer.
Ecco dunque che improvvisamente si rendono necessarie: analisi del sangue (fatte e pronte per il laboratorio), elettrocardiogramma (fatto, nessuna variazione dal precedente), misurazione della pressione (110/70, ok), glicemia (86, tutto sommato ok, inoltre la puntura dell’ago ha provocato la reazione tipica di tutti i cadaveri: Natalina ha farfugliato qualcosa come “..orca ma’onna”), della frequenza cardiaca (70 bpm. una specie di atleta la signora Natalina) della saturazione (95%, forse fuma... magari quando si ricorda dove ha la bocca) e della temperatura… Oops. La signora Natalina pare proprio non avere temperatura corporea (è un difetto che in effetti tendono ad avere solo i cadaveri e gli alberi).
L’infermiera, già preoccupata dalla eccessiva normalità dei dati precedenti (che per l’appunto contraddicevano le sue teorie e la sua diagnosi di morte) si rischiara in viso e, trionfante, mostra la prova della sua competenza al medico: vede, è morta, non ha temperatura corporea. Tenta di fregarci muovendosi e farfugliando, ma noi, cavolo, noi siamo sanitari. Io sono addirittura infermiera. E così via.
La dottoressa, colpita da tanto acume e dalla indubbia logicità del ragionamento decide di fare una prova su se stessa e si infila il termometro nell’orecchio (che ci volete fare, io proporrei altri orifizi, ma loro non vogliono mai…) e… momento di suspence… 36. bassa ma indubbiamente viva.
Quindi le due menti scientifiche, sicure di essere sull’orlo di una scoperta clamorosa (un cadavere che rifiuta di seguire le regole. La luce nei loro occhi è la stessa che doveva avere il dottor Frankenstein all’apice della sua gloria), si gettano ancora una volta sopra la signora Natalina e tastandola ovunque le reinfilano il termometro in un orecchio. Ancora nessuna rilevazione. Ecco, ci siamo, l’infermiera ha un malcelato sorriso di trionfo spalmato in faccia. Avevo ragione io esclamano i suoi occhi. Qualcosa deve avere la vecchia.
Però… però… un atroce dubbio pervade la stanza.
Cavolo, Natalina è.. rosa. Cioè, non è cianotica o pallida. Inoltre a toccarla… Ecco, a toccarla sembra… non può essere… sembra… calda. Si, è proprio calda, accidenti!
Questo contraddice tutte le teorie scientifiche. L’intero mondo della medicina ne sarà sconvolto. Oppure… no, orrido dubbio.
Non sarà mica un’altra diagnosi di termometro guasto? Terribile. Veramente terribile.
La delusione è palpabile, tutti si ritirano mogi di fronte al fallimento della scienza.
Natalina è viva. Un aurea dorata scende sulla stanza e tutti abbiamo una visione mistica. Indubbiamente quelli intorno al letto che con la loro luce bloccano le tenebre che vogliono ghermire Natalina sono… si, sono proprio loro: Padre Pio, Pupo e Paperino. È bello aver recuperato la fede.
Comunque sia, l’intera vicenda ha un epilogo lieto, che mette d’accordo tutti: il medico, che si libera di ogni responsabilità, l’infermiera, che in fin dei conti aveva ragione, la sua diagnosi era azzeccata e l’equipaggio di Star trek, che sa di aver salvato un’altra vita: Natalina viene ricoverata. Diagnosi finale: termometro rotto.
Mi consola sapere che alla signora Natalina non importa. Potrebbero ricoverarla al reparto di ortofrutta della Conad e a lei non cambierebbe nulla lo stesso.

giovedì 11 marzo 2010

Bikes and Dead Dogs

L’aria calda soffia da tutte le direzioni.
Maledetto vento, Omero ci aveva avvisati. Non gli avevamo creduto.
- cos’è?
- un cane morto.
Passano 10 km senza che nessuno dei tre dica una parola. Il ronzio delle bici è continuo, basso, tranquillizzante.
- e quello?
- Un altro cane.
- Ma è diviso a metà!
- Già.
Beviamo 5 litri di liquidi a testa, lo abbiamo calcolato, eppure abbiamo sempre sete. Ogni sosta ci regala zuccheri e liquidi, spesso mischiati. Mangiamo una sola volta al giorno, la sera.
Ci sentiamo pienamente parte della strada, della gente del posto.
Maledetto vento.
Maledetto asfalto.
Il sole ci cuoce, i radi bagni ci tolgono di dosso la polvere per incrostarci di sale, e ancora andiamo. Avanti, sempre avanti. La metà è 400 km più avanti.
Istamboul. Istamboul. Istamboul.
Ritmico, come l’alzarsi e abbassarsi dei pedali ripeto il nome dentro di me. Ogni tanto lo mischio con un altro, ma è storia vecchia, incerta.
Le auto ci passano sfrecciando accanto, ci salutano suonando il clacson e ci dimostrano tutta la loro simpatia tentando di investirci, un po’ per gioco, un po’ no.
L’acqua con l’integratore sa di piscio caldo, ma è buona, ci serve. La salita è tremenda, la discesa un lampo, la bici pesa tantissimo. 60, 80 km al giorno. Ma nessun dubbio. Ci arriveremo. Sono sempre arrivato ovunque mi fossi prefisso. È un viaggio, ed io sono nato per viaggiare (la monotonia del pedalare rende megalomani ed inclini all’autoesaltazione ndr).
Lasciamo la statale e ci inoltriamo verso un apparente nulla. Solo la cartina mi rassicura su cosa c’è al di là delle colline, al di là dei campi coltivati.
In cuor nostro speriamo che non sia un’altra Yeni Foca, un'altra deviazione che ci disperde nel niente agricolo dell’asia minore, tra monti brulli, bruciati e isole sparse nel cristallo blu intenso del mare.
Il cielo si rannuvola, il vento rafforza. Qualche goccia di pioggia.
Hissarlik, manca poco. Ci siamo. Discesa, salita, ancora salita ed in cima alla via un polveroso villaggio. La mappa segna 400 abitanti. Meno di quanti ce ne siano ogni sera in un cinema da noi.
Parliamo, chiediamo informazioni, ci facciamo capire ma non capiamo. Ci mandano da Varol, lui ci ospiterà.
Una notte in casa sua ed una cena a base di riso e minestra fanno 45 lire. circa 9 euro a testa. Sono aumentati i prezzi, ci stiamo avvicinando a Istamboul.
Lasciamo le bici e a piedi ci inoltriamo nel paese. Non c’è niente. Eppure c’è tutto.
Dietro la seconda curva, Troia.
Schliemann. Ho letto i suoi diari 3 volte. Mi sembra di conoscere ogni angolo di questo posto. Ma in cento anni è cambiato tutto. L’archeologia è diventata turismo. I souvenir sostituiscono i ricordi, ma soprattutto c’è gente.
Li odio, arrivano sempre senza faticare per niente. Non sanno niente, e parlano solo di dove andare a mangiare la sera. Cazzo, io ho pedalato per 8 giorni, 400 km per arrivare fino qua, sono stato 3 giorni in mezzo al mare. Loro sono in bus. Con l’aria condizionata. Non hanno neanche idea di che odore abbia la strada (puzza, in verità). E la cosa peggiore è che sono Italiani, anche qui. Odio gli italiani. Ma almeno questi non cantano popopopo. Sono seduto su un masso, avrà 10.000 anni, ha visto Ettore morire per mano di Achille, è servito per edificare le mura più possenti del suo tempo. Loro invece guardano interessati un cazzo di cavallo di legno finto che a me pare un mio mini poni troppo cresciuto.
Guardo il mare, mi domando quanto impiegassero gli Achei a raggiungere le mura e capisco perché le donne Troiane continuassero a lavare i panni sullo Scamandro anche in pieno assedio. Sento che loro invece si domandano dove mangeranno stasera. Che schifo.
Se penso che tutti i miei amici sono così mi viene da grattarmi. In effetti mi gratto.
Il giorno dopo di buon mattino risaliamo in sella. Fa sempre un po’ male ripartire, i muscoli protestano. Tutti.
Arriviamo alla statale e riprendiamo la fila consueta.
Il ronzio sale monotono, anche se lo sguardo va oltre l’orizzonte. Oggi vedremo l’Europa al di là dei Dardanelli.
- Ehi, l’hai visto quello?
- Si.
- Era un cane morto?
- Già.
Dura la vita dei cani in Turchia.