giovedì 31 marzo 2011

People I Met


La verità è che parlo con un sacco di persone assurde. Da sempre.

o meglio, le ascolto. Mi interessa la loro vita. Se intorno a me c’è qualcuno un po’ strano, svitato o non del tutto centrato, state sicuri che nel giro di cinque minuti avrà attaccato bottone con me. La cosa singolare è che io, che di solito odio parlare o socializzare con la gente, con loro parlo (o meglio, ascolto) per ore e ore. O a volte minuti. Ma non è questo il punto. il punto sono le loro storie.

Prendiamo Hector, ad esempio. Hector vive, anzi, probabilmente viveva, a Miami. L’ho conosciuto su un autobus. Ho anche una foto con lui. Da qualche parte. Hector si è seduto accanto a me, c’erano altri posti liberi, anzi, il mio era ingombro dai bagagli visto che stavo andando all’aeroporto per tornare a casa. Ha iniziato a raccontarmi della sua vita. Aveva 80 anni. Viveva a Miami dal 1954, quando era scappato da cuba per sfuggire ai castristi. E aveva una targhetta legata al polso. Mi ha spiegato che lì sopra c’era scritto chi era, perché lui, mi disse tutto serio, aveva vissuto troppo e a volte lo dimenticava. Immaginava di essere qualcun altro e credeva di vivere la vita di quest’altro. Cosa che evidentemente non era giusto fare. E quindi sua figlia gli ha dato la targhetta.

In questo modo, diceva, quando non sapeva di essere Hector, la leggeva e si ricordava di essere Hector. Però, mi disse, sulla targhetta era scritto solo chi era Hector. Non cosa era Hector. Allora doveva ricordare quello che Hector aveva fatto, le persone che aveva conosciuto, i luoghi dove era stato, le cose che aveva vissuto. Solo che siccome aveva vissuto troppo, alla fine finiva che si scordava nuovamente di alcune cose, tipo dove stava andando o perché ci stesse andando.

Hector aveva la voce di Hugo Pratt che racconta Corto Maltese.

Mi chiese se anch’io avessi una targhetta. - Si, risposi, ce l’ho. E gli feci vedere il mio zaino. Sopra c’era la targhetta della compagnia aerea con il mio nome e il mio indirizzo.

Ne fu estasiato. Volle sapere chi fossi e dove stessi andando, cosa avevo visto e quante persone avessi conosciuto nella mia vita. Ogni tanto per la verità mi interrompeva per chiedermi se conoscevo sua figlia o se anch’io abitavo nel suo quartiere. Parlammo per tre quarti d’ora, perché era un viaggio piuttosto lungo. Mi dette il suo giornale. Era estremamente gualcito, mi disse che era un ricordo che potevo portarmi a casa per far vedere che avevo conosciuto Hector, che aveva una targhetta come la mia. Almeno, mi disse, quando ti perdi puoi leggere che giorno è e ricordarti dove stai andando. Guardai la data sul giornale, era di tre giorni prima. Hector sorrideva sempre e puzzava. Decisamente. Mi iniziai a chiedere se avrei dovuto fare qualcosa per lui, tipo parlare all’autista o a qualcuno intorno a me. Ma in realtà non sapevo neppure dove fosse il quartiere di Hector, magari era sull’autobus giusto. Gli chiesi se stava tornando a casa. “sometimes” mi rispose. Continuava a guardare la mia targhetta con aria felice. Non siamo in molti ad avere una targhetta. Quando ci incontriamo siamo felici.

John Smith l’ho conosciuto ad Hombori, che è l’ultimo posto prima del deserto. Da Hombori in due giorni di piste e strade dissestate arrivi a Timbuctu. Ad Hombori non c’è un cazzo se non una roccia gigantesca a forma di mano ed un Auberge fatto in un vecchio fortino della legione straniera. John Smith stava li, l’unico bianco in un paese di neri. Stava li perché lo avevano dimenticato.

Quando arrivai era sera, e lui ascoltava musica rock anni ‘70 da un vecchio mangianastri a pile, in mezzo al cortile del fortino. Beveva birra. Quando mi vide, sporco e lacero, mi invitò a sedermi accanto a lui. Mi accomodai sulla sedia di plastica bianca e mi allungò una birra da 66. Era calda e non era un granché, ma a lui non importava. Intorno aveva diverse bottiglie vuote e altrettante ancora chiuse. La serata sarebbe stata lunga, pensai.

Nell’africa equatoriale la notte arriva all’improvviso. Da un momento all’altro. Niente tramonti lunghi e struggenti. No, un momento prima ci vedi, il momento dopo è buio e le stelle ti assalgono a moltitudini. Come le zanzare. Io a John Smith non avevo chiesto nulla. Ma lui voleva raccontarmi lo stesso. Parlava Afrikaans, che è il dialetto dei Boeri. Mi disse che veniva dalla Rhodesia (che è un posto che non esiste più dagli anni ‘60). Che lui è, anzi, era, ispettore minerario per un compagnia sud africana. Era stato mandato in Mali per cercare oro e diamanti. Doveva ispezionare quei posti, cercare vecchie miniere, tracce d’oro o di gemme. Ma l’avevano dimenticato laggiù. Come dimenticato, chiesi io. - Semplice mi disse. Io sto qua e da anni nessuno mi cerca più. Si limitano a mandarmi lo stipendio. Accredito automatico, credo. Sul mio conto.

- La multinazionale è grande, mi spiegò. E mi hanno dimenticato. Io ora sto qua, nel deserto, con loro aggiunse, indicando col mento il gruppo di giovani ragazze, poco più che bambine, che stavano intorno a lui. Prese un bon-bon (così da quelle parti chiamano qualsiasi tipo di dolcetto, dalla caramella al marsh-mellow) e lo porse ad una ragazzina che non aveva neppure 13 anni. Seminuda. Lei lo prese con la bocca direttamente dalle sue dita, come un animale da compagnia. O forse era solo un gesto d’affetto.

Gli dissi che andavo a letto, avevo la febbre, dissi. Forse era malaria. Lui mi guardò e disse di non preoccuparmi, avevo bevuto la sua birra. Lui la beveva da quando era qua. Era la sua profilassi. Funzionava. Funzionò anche per me. Ma quella notte successero altre cose. Ne ho già scritto in un altro racconto che pochi hanno letto. non mi ripeterò.

La mattina dopo, quando ripartii, all’alba, John Smith non si vedeva da nessuna parte. Non mi importò granché, John Smith, che in inglese è come dire nessuno, non mi piaceva. L’importante è che non ero più lì.

Yussuf l’ho incontrato due estati fa, in Turchia a Pergamo.

Eravamo appena arrivati, eravamo stanchi, accaldati. Girare la Turchia in bicicletta iniziava ad apparirci come un’idea non troppo brillante. È sempre così in viaggio, quando la fatica ti rende incline alla disperazione e ti domandi chi te lo ha fatto fare. il fatto è che oramai sei lì, e tanto vale andare avanti. Non me ne sono mai pentito.

Eravamo fermi seduti su alcuni gradini rialzati, sul bordo della strada. Le bici accanto a noi. Bevevamo. Eravamo arrivati, avevamo percorso circa 70 km quel giorno e dovevamo solo trovare dove dormire. Io mi guardavo in giro e leggevo la lonely planet. Mi ero tolto le scarpe, lo zaino, gli occhiali. Ad un certo punto ci sentiamo chiamare. Vediamo un tipo strano, magro, dalla faccia stralunata che, in inglese, ci chiede chi siamo. Lui è Yussuf, ci spiega, e ci chiede cosa facessimo da quelle parti. Glielo dico.

Mi ci ero abituato, oramai, alla curiosità delle persone. Tre dementi con delle biciclette stracariche. In asia minore non è precisamente uno spettacolo quotidiano. Questo però era diverso. Di solito dopo averci chiesto da dove venivamo e dove andavamo la gente continuava per la propria strada. Lui invece iniziò a raccontare.

Anche lui aveva girato un sacco. Tirò fuori una macchina fotografica digitale. Un vecchio modello, di diversi anni fa. L’aveva comprata a singapore, spiegò. L’aveva presa perché ci portava dietro la sua vita. Ed iniziò a farcela vedere, la sua vita. Centinaia di foto, in centinaia di posti diversi, indonesia, cina, africa. Si era imbarcato per viaggiare, spiegò. Ed i suoi viaggi erano tutti lì. Persone sorridenti, posti, facce. Era incredibile. Per ognuna di esse lui aveva una storia, un ricordo, un pezzo di vita. E se la portava dietro. Sempre. Anche ora che era a casa, aveva tutti i suoi luoghi con se, ci spiegò.

Non era contento di essere a casa. Non lo capivano, disse. Avevano una mentalità ristretta e pensavano che lui fosse strano. Anche suo padre, ci spiegò, lo pensava. Perché lui, Yussuf, non voleva prendere moglie e trovare un lavoro. Lui, continuò, doveva cercare altra vita da mettere nella sua macchina fotografica. Anche se, aggiunse con un certo rammarico, ogni pezzo di vita che aggiungeva ne doveva cancellare altra. Sapete com’è, i limiti della tecnologia.

Ma non gli importava. Non parlammo molto con Yussuf. Ma lo capimmo. Lo capimmo molto bene. E alla fine, siamo finiti anche noi tre nella sua macchina fotografica, al posto di una vecchia fotografia che cancellò lì per lì. A volte mi domando se ci siamo ancora. Lui è nella mia.