sabato 16 luglio 2022

Color Giallo Grano

 Non ho iniziato di recente. A mettermi nei guai sono sempre stato bravissimo. Una specie di genio del male precoce. Colpa della noia, perlopiù.

Comunque, oggi mentre girovagavo per tantissimi km in bicicletta sotto la calura e il sole martellante, ho attraversato un gigantesco campo di grano, non ancora trebbiato. Con i colori accesi, abbaglianti ed il silenzio assordante di quando in giro non c’è (saggiamente) nessuno.

E siccome quando pedali molto a lungo la mente vaga senza controllo, oggi sono tornato ad un’estate rovente di moltissimi anni fa. Avevo 7 anni e l’Italia era campione del mondo ma io di queste cose non capivo nulla e non è importante. Prendetelo per quello che è: un riferimento temporale.

Fatto sta che tra fine luglio ed inizio agosto avveniva un passaggio importante per la mia infanzia, passavo dalle cure dei nonni materni alle più generalizzate cure del clan paterno, più numeroso e strutturato.

Cambiava l’ambiente, dalla borgata di periferia alla campagna più profonda, dai giochi di città alla vita di fattoria, in attesa di andare al mare con i miei, a pochi km da lì, per la parte centrale delle vacanze. Oggi sospetto che vi fosse una sorta di patto familiare: ce lo ciucciamo un po’ tutti, a turno. E zitti.

Le estati a quel tempo e a quell’età erano lunghissime, vere e proprie cesure temporali nella vita di chi ne aveva viste appena una manciata prima di quella. Quando tornavo a scuola, a settembre, in classe dovevamo fare di nuovo le presentazioni tanto eravamo cambiati nel frattempo.

Ebbene, abbastanza inspiegabilmente io ero un bambino molto attivo. Introverso, solitario, amante dei libri e, in generale, anche pigro. Ma con una spiccata predisposizione per l’esplorazione, la scoperta e il cacciarmi nei guai da far invidia a qualsiasi ragazzino americano dei film.

Anche quella volta non delusi le aspettative. Immaginatevi questa enorme fattoria (dalla mia prospettiva di settenne almeno), composta da una casa nel mezzo, tre grandi stalle, diversi magazzini, e tutt’intorno ettari ed ettari di campi di grano maturo, a perdita d’occhio su entrambi i versanti della valle. Colline tondeggianti che a guardarle sembravano disegnate con i pastelli (tutti solo gialli, però).

Immaginatevi anche un piccolo me, che non amava fare il riposino post prandiale come tutti i sani di mente e quindi, completamente libero, giravo ovunque mi spingesse la curiosità e la fantasia. Quel giorno mi spinse nel grano, verso una collina lontana, con un albero solitario sopra. Ero convinto che da lì avrei visto il mare. Quindi partii. Così, senza alcuna remora, infilandomi nel campo di grano puntando nella direzione generale della collina distante.

Le spighe erano alte quasi quanto me ed era divertente attraversarle, così camminai parecchio (immagino che tutto sia relativo, quindi parecchio per il me di allora) e, ad un certo punto, come è facile immaginare, mi accorsi che non avevo idea di dove fossi. Mi ero, ovviamente, perso. Nel mezzo al nulla agricolo dell’Italia centrale degli anni ’80.

Ricordo benissimo la paura immensa che mi colse realizzando che, davvero, non sapevo come tornare a casa. Ero solo. Nel nulla. Per la prima volta in vita mia non c’era nessuno in vista. Non vedevo case, non vedevo punti di riferimento (che a 7 anni sono molti pochi comunque). Ero davvero terrorizzato. E come ogni bambino terrorizzato feci la cosa più saggia che potevo fare. Piangere.

Davvero utile, lo so, ma nemmeno ora che Bear Grylls mi lega le scarpe in tema di orienteering e survival riesco a farne una colpa al povero, spaventatissimo me di allora.

Ma la paura più grande doveva ancora arrivare. Il terrore più primordiale mi assalì quando iniziai a sentire muovere le spighe intorno a me. Le sentivo spostarsi, come quando qualcosa di grosso le attraversa. Smisi persino di piangere, ma non riuscivo a scappare. Quando sentii il pericolo incombere vicinissimo, chiusi gli occhi e mi accucciai.

Sentivo ansimare. Sentivo toccarmi. Sentivo un muso ferale farsi strada tra le mie braccia chiuse.

Aprii gli occhi. Era il pastore tedesco di mio zio. Oggi, per quanto mi sforzi, non riesco a ricordarne il nome. Ma lo aveva, allora.

Mi tirai su, felice e sollevato. E lui, che sapeva perfettamente cosa stava accadendo, iniziò a farmi strada verso casa. Camminava avanti e poi si fermava, si voltava verso di me e mi aspettava. E io, gambette corte e tutto, lo seguivo indefesso.

Impiegai parecchio a tornare a casa e, appena giunto, corsi in cucina. Nessuno pareva essersi accorto della mia scomparsa, anche se ero stato via qualche ora. Era abbastanza normale. Si aspettavano di vedermi a pranzo e cena, per il resto ero libero (era prima che i bambini divenissero i delicati e preziosissimi Fabergé che sono oggi).

Chiesi a mia zia della carne per il cane perché, le dissi, “dovevo ricompensarlo per avermi salvato la vita”. Dissi proprio così. Lei non mi diede nulla, ovviamente. Alla fine riuscii a mercanteggiare un vecchio osso di prosciutto che era tenuto da parte per il brodo.

Scesi di nuovo nell’aia e il cane (davvero, pagherei per ricordarne il nome, mi par di fargli un torto parlando di lui come il cane. Facciamo che lo scrivo con la maiuscola, come Agnelli che era l’Avvocato). Il Cane, dicevo, mi attendeva attento e con sguardo fiero e compiaciuto. Sapeva quello che aveva fatto e sapeva di meritarsi qualcosa.

Ci sedemmo per terra, io guardavo lontano, cercando di scorgere il mare, lui masticava il suo osso mentre lo tenevo abbracciato.

“A’ Ra’! Nun ce  devi de sta’ così vicino ar Cane, che è pieno de pulci! Lo devo fa’ desinfettà! Viè qua”.

Io guardai il Cane. Lui sollevò appena la testa e ricambiò lo sguardo con aria palesemente colpevole. Le orecchie basse.

Le braccia di mio zio mi afferrarono e mi portarono verso la stalla bassa, dove c’era la sistola. Mi lavò con il sapone disinfettate in polvere. Quello che usava per le bestie. Mi brucia ancora.

lunedì 6 giugno 2022

I Ching

 L’irrequietezza è sempre stata parte di me. E mi impedisce il sonno.

Così capita che nel cuore della notte io faccia cose strane. Che poi alla luce dell’alba mi lasciano pensieri scomposti, come presagi di cui riesco appena a sfiorare la comprensione e di cui conservo sensazioni invece che memorie. Come quando sogni e, da sveglio, non riesci più ad afferrarne il ricordo compiuto, ma solo la sua malinconica essenza.

In questi giorni mi sto isolando molto, come sempre succede quando mi preparo per un viaggio impegnativo. Passo lunghissime ore in sella ad allenarmi. Uscite di 6-7 o persino otto ore per percorsi che sembrano non finire mai, come le ore torride tra la tarda mattina ed il primo pomeriggio, prima che si alzi il vento della sera.

Non dovrei essere così preoccupato, spaventato, di partire. In fondo ho fatto moltissimi viaggi difficili. Questo mi spaventa più di altri. Per le sensazioni che mi stringono al petto. Mi pare di soffocare.

Così, ieri notte, solo alla mia scrivania, ho consultato gli antichi oracoli cinesi. Cosa che non facevo da anni. Ponendo al Libro dei Mutamenti, l’ I-Ching, la domanda che mi perseguita da settimane: “come devo affrontare questo viaggio? Andrà bene? Tornerò?”

Per consultare il libro dei mutamenti sono necessarie tre cose: un libro vecchio di tremila anni, 3 antiche monete cinesi in bronzo e l’animo travagliato di chi è ad un bivio.

Il libro lo pubblica Adelphi. Lo possiedo da anni. L’edizione corrente costa solo € 18.00. Se siete portati per la filosofia orientale, prendetelo. Vi cambierà la vita. O magari vi annoierà a morte. Ma ne vale la pena, costa comunque meno di un aperitivo fuori.

Ho anche le monete antiche. Il perché io abbia in casa monete cinesi che hanno più di mille anni è tutta una storia a sé, che oggi non racconterò, ma fa parte di quelle cose che di solito fanno scuotere la testa con rassegnazione ai miei amici.

Di domande ne ho d’avanzo per due vite. Quindi ho tutto l’occorrente per porre le mie domande all’oracolo.

Per consultare il libro dei mutamenti occorre comporre un esagramma, lanciando le monete in aria 6 volte e componendone i risultati in linee continue o spezzate.

Disegno i due trigrammi, quello inferiore è K’un, la terra, quello superiore Kén, il monte, l’arresto. Compongo l’esagramma ed è l’esagramma 23: Po – La frantumazione.


 



Leggo le antiche terzine della sentenza e sento i brividi scendermi lungo la schiena. Un cazzotto allo stomaco sarebbe stato meno violento. La sentenza recita: La frantumazione. Non è propizio andare in alcun luogo. La mutazione continua: il letto va in frantumi dalle gambe. I perseveranti vengono annientati. Sciagura.

Passo le ore successive a leggere ogni singola interpretazione di queste linee ed ognuna di esse mi porta solo sconforto.

Finché poco prima dell’alba, mi accorgo di aver sbagliato. Ho interpretato male il trigramma superiore. Una linea spezzata era invece continua. Non Kén ma Sun. Non l’Arresto ma il Vento. Non Po la Frantumazione ma Kuan, la Contemplazione. Mi sembra di sentire il vecchio Li Wei che ride tirandosi la lunga barba bianca e prendendosi gioco di me e della notte di sonno persa. Ho passato notti migliori. Ma anche peggiori.

sabato 14 marzo 2020

Directions



(mentre scrivo sto ascoltando https://www.youtube.com/watch?v=TmxSxKxBbQE)

Viaggiare è per lo più questione di indicazioni stradali. Davvero. In qualsiasi continente andiate, qualsiasi sia la vostra rotta, il modo di spostarsi, il tipo di meta che scegliete, se viaggiate per conto vostro, prima o poi, dovrete chiedere la strada a qualcuno. E se viaggiate come faccio io, questo qualcuno non parla una lingua voi comprensibile. Mai. Ma proprio lui vi aprirà le porte di un mondo che altrimenti non avreste conosciuto.

L’unico modo di vivere il viaggio è perdersi in esso. E a me succede sempre.

Ora, chi mi conosce almeno un pochino sa che sono bravissimo ad orientarmi, di giorno, di notte, nelle foreste come in cima ai monti. Il mio background mi ha insegnato tutto e la mia vita girovaga ha affinato le mie abilità. Riseco a calcolare una rotta alternativa a mente, sotto il sole di un deserto con la facilità con cui voi riuscite a scegliere il ristorante o il locale migliore per la serata (abilità che, invece, per me è irraggiungibile…).

Quindi, perché quando viaggio mi perdo? Karma, credo. E un po’ perché mi piace perdermi. Ma soprattutto perché viaggiando in posti davvero sperduti, ti accorgi che la strada segnata sulla carta non esiste più. O non è mai esistita. O magari è frutto di racconti. Molte strade dell’Asia centrale esistono solo nei racconti che passano di villaggio in villaggio e, magari, qualcuno di quei racconti ha trovato l’orecchio di un cartografo distratto. E io, mi ritrovo quaggiù, sotto il sole a picco, a fissare una piana desertica che avrebbe dovuto essere attraversata da una strada. E invece non lo è. Il GPS mi incita ad andare avanti, con una fede assoluta. “ti dico che la strada c’è. Tu non la vedi. Ma c’è. Devi solo fare il primo chilometro. Superato quello ti giuro che apparirà. Devi solo ruotare a occhi chiusi tre volte su te stesso invocando Shiva”.

E così, nel mezzo di una tappa, la mia strada prende una direzione sconosciuta, verso posti che non ho mappato prima e di cui non conosco nulla, perché se la strada per dove devi andare non c’è, di sicuro ce n’è un’altra per qualche altro posto dove non dovresti andare. Perdersi, come dicevo, è un arte.

Ecco, quindi, che viene utile la mia abilità nel ritrovarmi.

Al primo villaggio, pozzo d’acqua, serraglio o più prosaicamente un distributore di carburante in mezzo al nulla, mi fermo ed inizio ad armeggiare con la bici o lo zaino. O semplicemente mi siedo lì per un po’ ed osservo. Con calma mi guardo intorno, scruto i volti che mi scrutano e poi, quando è passata circa mezz’ora, prendo una delle mie cartine.
Porto sempre molte cartine con me quando viaggio. Le compro su internet perché devono essere nella lingua del posto. Sarebbe inutile mostrare a qualcuno una cartina con i riferimenti scritti in una lingua o con dei caratteri a lui incomprensibili. Quindi io possiedo cartine scritte in caratteri cirillici, in arabo, tangri, cinese, nepali, farsi. Ne ho una collezione intera e sono tutte bucherellate, macchiate, strappate. Vissute.

Quindi, con la mia cartina mi avvicino a colui che, tra tutti quelli che erano intenti ai loro affari quando sono arrivato, durante quel tempo non si è mosso. Vuol dire che lui è di lì e qualcosa ti saprà dire. Saluto educatamente. In Asia centrale ci si tocca il petto, in Africa la fronte, in India si sorride mentre si pronuncia l’ubiquo Namasté. In Uzbekistan si stringono le mani, in Cina guai a farlo, in Turchia ci si abbraccia. Potrei continuare a lungo, ma credo abbiate capito cosa intendo.
Il più delle volte, chiedere indicazioni è un rituale che richiede tempo e, quasi ovunque, del the. Che ti viene servito in piccoli bicchieri di stagno (Mali), di vetro (in Turchia a forma di tulipano, in India molto semplici), in tazze piccole (Uzbekistan) o grandi (Mongolia). Comunque sia, bevi il tuo the con gratitudine.

Io mentre bevo il the che mi viene offerto provo sempre la sensazione di vedermi dall’alto. Mi vedo lì, piccolo, seduto a gambe incrociate in posti lontani, con gente che non conosco circondato dall’immensità del mondo. Eppure, se mi offrono il the, sono tranquillo. Vuol dire che va tutto bene, che non mi succederà nulla e che, anche quaggiù, a qualcuno importa che io beva qualcosa di caldo e sia, per un pochino almeno, al sicuro.
Poi inizia la vera prova.

Comunicare con le persone non mi spaventa più. Ho affrontato conversazioni lunghissime con persone che non parlavano alcuna lingua che riuscissi a comprendere, eppure mi ricordo tutto quello che mi hanno detto. Non sono le parole, sono i suoni che contano, i gesti, le espressioni. Riuscirei a capire chiunque, ovunque, quando viaggio.
La prima cosa che ti chiedono non è il nome. Il nome non serve mai. Sappiamo tutti che questo sarà l’unico momento delle nostre vite che condivideremo mai. Quindi presentarsi non è importantissimo. A volte lo fai, per lo più no. La cosa che veramente interessa è da dove vieni (Otkuda in uzbeko, haanaas irsen in mongolo). Ed è la cosa che li incuriosisce di più.
Italia, dico io, con una certa spavalderia (è più forte di me…).

Loro strabuzzano gli occhi e guardano la bici, immancabilmente. Fanno il gesto di pedalare con le mani e io scuoto la testa. La seconda cosa che vogliono sapere è da dove sei partito. Tashkent, Ulaan Baator, Cesme, Sanauli. Poi ti chiedono dove stai andando. Khiva, Bejing, Istanbul, Kathmandu.
Ecco, a questo punto il mondo è tornato comprensibile per loro, i nomi hanno un senso, le distanze possono essere visualizzate. Ora siamo nella stessa dimensione. Quindi io apro la cartina, la distendo davanti a loro. Loro la guardano sempre molto interessati. Alcuni non capiscono neppure da che parte si guarda. Ma annuiscono comunque. Li stai rendendo partecipi del tuo viaggio ed è una cosa unica per loro (infatti, ti chiedono sempre di farti mille foto con loro e, in tutte, loro sorridono più di me. Per quanto mi sforzi, non mi riesce proprio…).
All’inizio l’approccio è scientifico, chiedo lumi sulla direzione, certo, ma soprattutto sulle condizioni della strada, la pendenza, sul vento (10 km su strada sterrata sono diversi da 10 km su asfalto, con il vento contro poi, valgono 100). “Yeni Foca?” dico io, lui si volta nella direzione e mi fa cenno con la mano. “Quanto? Kilometre?” e lui spara un numero. A caso. Poi faccio un gesto per sapere la se c’è salita. Dicono sempre di no, ma poi c’è sempre. Forse vogliono incoraggiarmi, o forse, andando in macchina, non si accorgono di cosa sia una salita…

A quel punto, immancabilmente, si è radunata una piccola folla, e le versioni sono sempre discordanti:
Insh’allah’, troverai acqua dopo 50 km, ma solo se (nome incomprensibile) avrà piantato la sua Yurta sulla strada. Lui ha l’acqua per le sue capre (o le pecore, i cavalli, i cammelli, la fauna varia di paese in paese)
Che diventa: “ho fatto quella strada la settimana scorsa con il mio camion, niente acqua fino a Gazli (o Sanjshand o Ershinhaodicun, in giro per il mondo i nomi li scelgono con le lettere avanzate dallo scarabeo)

E così tu devi scegliere di chi fidarti, a chi credere, al tipo col turbante o al camionista senza denti? A chi ti ha dato da mangiare o a chi ti ha chiesto di poter fare un giro sulla tua bici?
In generale non importa molto. Di solito hanno ragione tutti e nessuno. Quest’anno nel Gobi mi sono portato dietro 16 litri d’acqua per 100km perché ho creduto al camionista. Il mio compagno di viaggio ne ha presi solo 4, perché non gli ha creduto. Come è andata a finire? Non ve lo dico. Ma siamo tornati tutti sani e salvi lo stesso.

Immancabilmente poi, arrivano le raccomandazioni e gli inviti: “dormi qui con noi, non arrivare al prossimo villaggio, a Yangiyer sono terribili e lì odiano gli stranieri (ricordate, vero, che viaggio per strade non battute, dove la parola “turismo” non ha alcun senso compiuto…?).” oppure, scuotendo la testa in modo significativo: “mio figlio ha sposato una di lì…”. Ma spesso è troppo presto per potermi fermare, i chilometri ancora troppi e, per quanto sia sconsigliabile, dovrò vedere se riuscirò a sopravvivere ai banditi Turkmeni che affollano il villaggio successivo.

Vi arrivo a sera. Mi fermo lì e vado alla moschea (quando non sai che fare o hai bisogno di dormire cerca sempre la moschea, qualcuno ti aiuterà. Immancabilmente). Vedo alcuni uomini che escono dalla preghiera serale e chiedo loro dove posso montare la mia tenda per dormine (paraculo, so già che mi inviteranno a casa loro…). Infatti, uno di essi, un contadino, ci porta presso casa sua, poche stanze caldissime che si affacciano su un cortile coltivato rigogliosamente di fiori, frutta e verdura, con le stalle accanto al cubicolo del bagno. Si chiama Safar e ha una figlia bellissima!.

Lei, Margouba, parla inglese molto bene e nelle ore successive non faremo altro che parlare. Sarà lei ad insegnarmi cose utilissime sull’Uzbekistan, da come chiedere del cibo a come usare i diversi catini e secchi che suppliscono alla mancanza di acqua corrente nelle case… è venuto fuori che mi lavavo la faccia con il secchio che loro usano solo per le mani dopo aver fatto i bisogni…
Insiste per lavarmi i vestiti e, quando rifiuto, temo che abbia pensato che non mi fidassi di lei. Invece è solo che, davvero, non riuscirò mai ad abituarmi che, essere uomini, in certe parti del mondo ti dà dei diritti che da noi, semplicemente, sono inconcepibili…

A cena, (un banchetto!) lei non siede con noi. Le donne mangiano in casa, separate dagli uomini. Io quindi mi siedo in un mare di cuscini accanto al padrone di casa ed i suoi figli. Che, di nuovo, non parlano alcuna lingua che io conosca, e viceversa. Quindi la conversazione ne risente un po’. Fino a quando Safar non cala l’asso: Toto Cotugno. E così, dopo abbondanti dosi di vodka uzbeka (l’Uzbekistan è l’unico paese musulmano dove, a quanto pare, bere alcol non è considerato particolarmente peccaminoso…) e l’ennesima versione di “sono un italiano vero” (che lui conosce meglio di me…), Safar mi dice, attraverso la figlia: “sei stato molto fortunato, sai? Perché ti sei fermato in questo villaggio. Se avessi continuato saresti arrivato a Zafarobod, e là, davvero, ci sono persone terribili. Probabilmente vi avrebbero tagliato la testa (accompagnando il tutto con il gesto)…”. Tutto il mondo è paese. In fondo, noi diciamo lo stesso dei pistoiesi (e loro sì, che sono dei senzadio screanzati, pronti a tagliarti la gola per niente!)…
Safar è un brav’uomo. Durante la notte si sveglierà ogni poche ore per recitare le sue preghiere. Peccato che abbia insistito per dormire accanto a me (probabilmente voleva controllarmi, vista la confidenza con la figlia…).

Altre volte, invece, chiedere informazioni è una faccenda seria. Ripropongo qui quanto scrissi il 7 agosto 2017, perché è uno dei pezzi per me più significativi del mio modo di viaggiare e, in ultima analisi, di prendere la vita…

Ma anche mentre scrivo queste cose, il mio pensiero va fisso alla strada che ancora manca: altri 500 km, di cui 367 attraverso il deserto del Kyzil-Kum. Non posso più nascondermi la paura che provo in questo momento. Non so quanto manchi al mio limite, al punto dopo il quale non ho più nulla da dare e io, semplicemente, mi fermerò lì dove sono. Non sono davvero sicuro di cosa mi aspetti, del caldo, della strada e, soprattutto, dell'acqua. Consumo più di sei litri d'acqua al giorno e a volte non sono sufficientemente idratato nemmeno per pisciare. Ho studiato per mesi le carte, il satellite, i resoconti di viaggio. So che è già stato fatto, da almeno altri 4 pazzi prima di me di cui ho letto i diari, ma penso siano molti di più. Da giorni chiedo notizie a chiunque vi sia passato, viaggiatori in macchina, backpakers con i mezzi locali, e agli uzbeki in generale. Ogni versione è diversa ma tutte parlano di un gran caldo (48-54 gradi di giorno) e di un forte vento molto variabile. Per alcuni l'asfalto è ok (qualsiasi cosa significhi ok...) altri riportano un lungo tratto molto brutto, senza però riuscire ad indicarlo sulla cartina. Asruf, un vecchio rinsecchito dal sole come un arbusto ma con una chiostra di denti d'oro baluginante al sole del tramonto, mi ha raccontato di aver fatto il carovaniere per 30 anni (o trent'anni fa, o negli anni trenta, il bello della proto lingua è che sta più nell'interpretazione che nell'ascolto). Vedi, mi ha detto, attraversare il deserto non è questione di acqua o muscoli delle gambe ma di testa (credo intendesse di determinazione) e di fede. Se manca la fede o la determinazione, non ce la farai. Poi, versandosi il te tre volte come d'uso prima di berlo mi ha sorriso e mi ha detto: in 30 anni (o trent'anni fa o negli anni trenta) ho perso solo 6 muli ed un cavallo. Mancanza di fede?, chiedo io con aria ingenua. No, risponde lui perplesso, morti di sete. E torna a bere il suo the.”

giovedì 4 aprile 2019

Thin Red Wounds



Stanotte proprio il sonno mi sfugge. Come ieri notte. Come tutte le notti a parte alcune, di solito quando torno dai trekking in montagna.

Oramai sono abituato, quasi, a questa fastidiosa irrequietezza, che mi vorrebbe sempre da qualche altra parte rispetto a dove sono. Senza mai avere pace.
Allora, le notti come questa, mi siedo alla scrivania, davanti al PC. Nel silenzio ascolto un po’ il mio respiro. Poi metto su una playlist. Stasera tocca ad Eddie Vedder con la colonna sonora di Into the Wild. Un film che amo. Un film pericoloso. Un film che guardo solo l’ultima sera, la sera prima di partire per uno dei miei viaggi. Le sere precedenti guardo Mediterraneo di Salvatores ed il Paziente Inglese di Minghella. Sono i miei film preferiti. Li avrò visti decine di volte. Prima di decine di viaggi diversi. In posti diversi. Con persone diverse. L’unica costante è l’irrequietezza che mi spinge a prendere lo zaino, la bici e i miei pensieri e partire per l’altro capo del mondo. Mancano meno di 4 mesi e riguarderò questi film. Sto per partire di nuovo.

Ma non ancora. Stasera non guardo film. Sto guardando Google Earth.

Google Earth è un programma meraviglioso. Lo uso da anni per programmare, mappare, tracciare i miei viaggi, i miei itinerari. Permette di vedere ogni centimetro di questo mondo grandissimo che abbiamo. Ogni strada, ogni pista nel niente. Poi, il fatto che le persone possano caricarci le proprie foto è fantastico. Guardo le foto di sconosciuti sorridenti a caccia dei particolari che gli stanno alle spalle, sullo sfondo, come traffico, condizioni della strada, o addirittura per capire se quel casottino in mezzo al nulla è un ovile o un negozio di alimentari (o, come spesso accade in Asia, entrambi).
Funziona così: prima traccio un percorso di massima che mi servirà come linea guida per la direzione generale. Connetto con una linea nera città e paesi, seguendo più o meno la viabilità secondaria scegliendo a occhio i passi di montagna meno irti, le strade meno trafficate ecc. Poi traccio le singole tappe, in mille colori, annotando distanze, dislivelli, punti acqua, paesi, guadi, stato della strada (per quello che permettano di capire le foto satellitari). Poi, una volta stabilito l’itinerario definitivo, lo traccio nuovamente, con una sottile linea continua rossa. Solo allora mi rendo conto della portata dell’impresa. Della distanza, della fatica, del numero di passi/pedalate che saranno necessari.

Ora, seduto qui al buio, sto guardando la prossima strada rossa che ho tracciato. Attraversa il deserto del Gobi. Parte da Ulaan Baatar, la capitale della Mongolia e arriva fino a Piazza Tienanmen a Pechino, in Cina. 1632 km in 14 tappe. Mi fa già paura. Guardo i 700 km di deserto dal satellite. Sono così vuoti, così accidentati. Un paesaggio lunare senza anima viva. Ce la farò? Mi basteranno le forze? Riuscirò a portarmi acqua a sufficienza? E se mi si spacca un raggio, una forcella o la catena in mezzo al nulla? Mentre penso a questo, Eddie inizia a cantare la mia canzone preferita: Long Nights (se siete in vena, la trovate qui: https://www.youtube.com/watch?v=6H8optu9rTU). 

E allora mi ricordo perché faccio tutto questo. Lo faccio per perdermi. Parto con la speranza di non tornare, di arrivare alla fine della strada e vedere com'è. Disperdermi lontano, distendermi sulla terra vuota, sotto un cielo pieno. Ed essere lontano da tutto, soprattutto da me stesso. Penso a cosa lascerei, e non è molto. Penso alle persone della mia vita, alle ragazze che ho amato, al mio lavoro. Mi rendo conto che, davvero, non c’è nulla da cui tornare. È una specie di consapevolezza buddista. Non c’è nulla dietro, nulla davanti. Solo una lunga strada sotto i piedi.

Ecco perché, ogni volta che torno da un viaggio, rimango un po’ deluso. Quasi che l’essere riuscito a tornare sia una specie di fallimento, di obiettivo mancato. Allora, mi siedo al PC e, come tutte le volte, ricomincio a tracciare sottili linee rosse, sempre più lontane, sempre più difficili.
A guardarle bene, zoomando fuori e allontanando la prospettiva, quelle sottili linee rosse sembrano dei tagli, delle ferite aperte sul mio mondo. Ferite che solco partendo e che non guariscono mai. Almeno fino alla volta che, davvero, non tornerò. Allora, probabilmente, riuscirò a dormire.

domenica 10 marzo 2019

Drifting Away


La prima volta che ho attraversato il confine nepalese è stato di notte, da solo, ad un posto di frontiera dove i turisti non arrivano, perché da lì passano solo i bus locali. Io quando viaggio, lo faccio con quelli. A volte va bene, a volte va male. In Nepal più che in altri posti.

Una delle prime cose che ho imparato, a mie spese come ho raccontato qualche pagina fa, è che in fondo ti siedi solo se ti costringono. E devono minacciarti forte. Altrimenti scegli qualsiasi altro posto, davanti, nel mezzo, sul tetto. Ovunque. Ma non dietro. Mai dietro.
Quindi la notte che arrivai in Nepal dall’India, passata la frontiera andai subito alla station, la stazione dei bus. Memore del caos indiano per salire e sistemarmi con lo zaino, volevo essere tra i primi. Ci riuscii anche troppo. Non c’era nessuno. Solo un vecchio bus con le tendine di pizzo ai finestrini. Iniziavo ad essere un po’ stufo di sbagliarle tutte. Immancabilmente, se c’era un’alternativa, finivo sulla via più impervia, lunga, scomoda e, a volte, piena di insidie. Questa volta non faceva eccezione.

Così, un po’ sconsolato per la prospettiva di essere solo, in capo al mondo, in un piazzale fangoso immerso nell’oscurità più nera (non crederete mica che in un posto sperduto al confine tra due stati che tra loro a malapena si parlano ci sia qualcosa chiamato illuminazione pubblica vero?). Oscurità più nera fatta eccezione per una lampadina. Una sola. Attaccata ad un palo, sul bordo del piazzale. Accanto al bus con le tendine. Poggio lo zaino a terra, con molta poca delicatezza, e mi lascio sprofondare in quella che reputo essere la sistemazione più comoda mai raggiunta dall’uomo: dormire appoggiati al proprio zaino sui bordi di una strada mentre sei in viaggio da solo.

Comunque sembrava un quadretto da sfera di cristallo con la neve finta. Io, lo zaino, il bus con le tendine di pizzo e il palo con la lampadina. E il cartello con gli orari. Cazzo, non lo avevo visto mentre ero in piedi, perché era dall’altra parte del palo. Naturalmente era scritto in nepali, con i loro caratteri scarabocchio incomprensibili. Ma gli orari erano con i numeri arabi. Il primo era alle 4.30. Ora erano circa le 2.30. potevo dormire un po’. Mi sposto dalla mia idilliaca postazione perché, oltre agli sfigati che viaggiano da soli in quella parte del mondo, la solitaria lampadina attirava anche un consistente numero di zanzare desiderose di pasteggiare con cibo esotico. Quindi mi dirigo in un angolo buio. Lontano dal bus e metto la sveglia alle 4.15, giusto per essere sicuri.

La sveglia non suonò mai. Fui svegliato invece dal suono del clacson e del motore che si avviava. Aprii gli occhi e vidi l’autobus in moto. Cazzo, era in anticipo. Mai successo in Asia. Corsi a perdifiato verso il bus con lo zaino di traverso urlando “Kathmandu! Kathmandu!”. Il bigliettaio (cioè un tizio indistinguibile dagli altri passeggeri che sostava sotto alla porta del bus) mi guardò esterrefatto per trenta secondi, con gli occhi sgranati. Un europeo scalzo, con una maglietta in stile indian freak e dei pantaloncini corti larghissimi, dal colore indefinibile, stava correndo contro di lui, con uno zaino militare enorme tutto rattoppato di traverso urlando il nome della capitale del Nepal, distante 400 km… poi scoppiò a ridere. “Kathmandu” mi rispose. “Kathmandu!” E giù risate scomposte. Mi stava prendendo per il culo. Non c’erano dubbi. Comunque esigette un prezzo esoso (altri 5 dollari) e mi lasciò salire sul bus. Che era già pieno. Non ero riuscito ad essere primo neppure arrivando lì 2 ore prima della partenza…

Mi tocco il posto in fondo. Chiesi al tizio perché stavamo partendo in anticipo. Mi guardò strano e mi fece vedere l’orologio. Erano le 4.30. il mio dava le 4.15. Scoppio a ridere (e due…) e mi spiegò che tra Nepal e India il fuso orario si sposta in avanti di un quarto d’ora. Non per un motivo preciso. Solo perché si stavano sul cazzo e non volevano avere niente, ma proprio niente, in comune.

Iniziò così un altro viaggio lungo di 12 ore su strade incredibili, strettissime, a picco su strapiombi altissimi, passando a guado dei fiumi in piena, dalle acque scure e impetuose. E mentre guardavo fuori dal finestrino durante quelle interminabili ore, con il mio nuovo amico che ogni tanto passava accanto a me e urlava “Kathmandu! Kathmandu!” Ridendo a crepapelle, capii cosa avrei fatto una volta giunto in città. Sarei ripartito. Sarei andato a fare rafting.

“Rafting, Sir?” mi chiese incredulo il tipo dell’ufficio guide cui mi rivolsi il terzo giorno che ero a Kath.
“Yessir” risposi sorridendo. “it’s not the right season, sir” “I know, but I’m here now…” “its dangerous.” E mi guardò con aria di rimprovero.
Avevo capito, non c’era alcuna possibilità dif are rafting fuori stagione… Mi stavo preparando ad abbandonare il progetto quando sento “let’s say 100 dollars, three days trip, sleeping in tents, ok?” si, era decisamente ok. Mi dette appuntamento al giorno dopo, alle 5 di mattina.

All’ora stabilita mi trovo davanti alla porta dell’ufficio guide e, meraviglia, non sono solo. C’era Claude. Un ragazzo di forse 25 anni, australiano. Un altro in cerca di guai.
Partiamo con l’ennesimo, minibus color bianco sporco, rattoppato e strapieno di equipaggiamenti. Tende, cucina da campo, e, naturalmente, il gommone. Sono eccitatissimo, non vedo l’ora.

Invece l’ora l’avrei guardata a lungo e da lontano per un infinità di curve strette. Impiegammo quattro ore per raggiungere il posto prescelto dalla nostra guida. Un ragazzo di nemmeno trent'anni, ben piazzato e dall'aria molto seria, come tutti i nepalesi. Così diversi dagli indiani. Se su un indiano non potevi fare affidamento alcuno, su un nepalese potevi giocarti la vita. Avrebbe mantenuto la promessa e avrebbe fatto il suo dovere. Qualunque esso fosse. E questo, nelle vicende che seguirono, fu molto importante per me.

Comunque, arrivammo ad una località sconosciuta (per me). La guida puntò la strada più avanti e disse solo “Tibet border”. Più a nord non si andava. Tra l’altro, in quel momento decisi che il Tibet sarebbe stata la mia prossima meta, ma questa è un’altra storia.

Ci preparammo, gonfiammo il canotto e ci dividemmo le postazioni. Io ero il primo rematore sulla sinistra. Avrei dovuto dare il ritmo alla mia fila di 3 persone. Claude era dietro di me. Prima di salire indossammo il giubbotto salvagente. Il mio mi stava piuttosto largo, non riuscivo nemmeno a stringerlo bene. Ma i miei occhi erano già sul fiume. Largo almeno 30 metri, in piena ruggente, con alberi sradicati che sfrecciavano sotto di noi saltando sulle onde e le rapide. Il colore limaccioso non permetteva di vedere il fondo ma sulla piattaforma in cemento da cui avremmo lanciato il canotto in acqua c’erano le tacche di profondità. 24 feet. 24 piedi. Più di 6 metri. Wow! Claude aveva l’aria eccitata e impaziente quanto me. Non vedevamo proprio l’ora. Ci sembrava un’avventura meravigliosa. Il tizio di cui vi dicevo, di cui non ricordo quasi nulla, non prese posto sul gommone. Ci fece salire e, insieme all'autista del pulmino, ci spinse in acqua direttamente dalla piattaforma. Un volo di 2 o tre metri, tanto per acclimatarci.

Non credo che si possa descrivere come è fare rafting se non lo avete mai fatto. In sostanza sei seduto su un tubolare del gommone, con un piede in acqua ed uno aggrappato (o incastrato) sotto una corda che corre sul fondo del gommone, con un remo in mano, mentre viaggi a velocità incredibile trascinato dalla corrente, cercando di capire gli ordini del timoniere che chiama il tuo lato a remare, tirare, inclinarti verso l’interno o l’esterno per evitare scogli, alberi, cascate e quant'altro. La corsa non dura un’oretta, come in Italia. Durò 5 ore. E finì male.

Misi in discussione le mie scelte di vita già dopo la prima mezzora. Non riuscivo a tirare il fiato un attimo. Il mio universo era una turbolenta corsa nel nulla di montagne, strapiombi, alberi che sbucavano dal nulla, salti improvvisi e urla, tante urla. Mentre stringevo il remo sentivo che non era una giostra, un otto volante dove devi solo aspettare che finisca. Non potevo neppure aggrapparmi, sdraiarmi nel mezzo del gommone e tenermi stretto. Dovevo spingere con forza, cercare di capire gli ordini del rematore, sperare di riuscire a spostare la prua prima di colpire i sassi davanti e, soprattutto, pregavo di non ribaltarci. Finire in acqua era un’idea terrificante. E fu esattamente quello che mi successe.

Non fu colpa mia, credo di nessuno in realtà. Forse avevo perso un ordine, forse avevo spinto sul remo troppo presto. Non ricordo. So solo che dopo un salto, mi trovai a volare in avanti e poi giù, in acqua. Era gelata. La testa finì immediatamente sotto. Mi sentivo trascinare con forza, non sapevo da che parte era la superficie. In più, il giubbotto salvagente che mi stava largo, si sfilò. Non del tutto, ma si alzò verso l’alto, così che mi trovai la cinghia della vita sotto le ascelle e, mentre il resto del giubbotto galleggiava, io ero sotto, come una specie di boa. Ricordo solo la paura. Avevo davvero paura di morire. Anzi, ne ero certo. Sotto di me c’erano metri di acqua fangosa, non riuscivo a nuotare, neppure a galleggiare. Nulla. Stavo solo sott’acqua attaccato ad un giubbotto salvagente troppo largo, o forse indossato male.

Finché non sentii un colpo al torace. Forte. Poi alle braccia, che erano alzate fuori dall’acqua. E strinsi qualcosa di solido. Un remo. Mi aggrappai esausto e mi lasciai tirare. Le mani trovarono un bordo di plastica dura. Un corda. Tirai la testa fuori dall'acqua e respirai. Era il tizio nepalese, con la canoa con cui ci seguiva. Aveva fatto il suo lavoro. Mi aveva raccattato. E così mi lasciai trascinare a valle, aggrappato alla canoa come ad un tronco, senza forze fino ad arrivare ad uno specchio d’acqua più ampio e calmo. Galleggiavo alla deriva guardando in alto. Con le dita arpionate ad una cordicella sul bordo della canoa di salvataggio. Mi sembrava fossero passate ore. Finché non sentii sotto la schiena dei sassi. Ero a riva. Mi voltai, nuotai un poco e poi, finalmente, uscii dall’acqua. Ero disorientato. E vedere che gli altri, quelli che erano rimasti a bordo, erano tranquillamente seduti a mangiare, mi lasciò un po’ deluso. Evidentemente la mia odissea non era interessante quanto il riso e la carne (yes, in Nepal mangiare carne non è reato capitale, evviva!).

Comunque, dopo un paio di ore di sosta, gettammo nuovamente il gommone a fiume e ripartimmo. Ripresi il mio posto, ma senza tutto l’entusiasmo di quella mattina. Anche Claude era più calmo. Mi chiese come stessi. Risposi solo OK.
Arrivammo a valle verso le 16, che il sole era già andato via. Montammo le tende e cenammo. Dopo cena, il tizio nepalese mi si avvicina. Tira fuori una cartina e me la mostra. Col dito indica un sentiero su un affluente del fiume, un torrente. Mi guarda e mi fa: ”Tomorrow, Canyoning. 80 dollars. OK?”. Guardo Claude. Sorridiamo. “OK!”

lunedì 3 settembre 2018

Varanasi- waiting to die


Varanasi giace sul fiume Gange come un relitto di granito e brume.
L’acqua impetuosa color marrone ne lava i Ghat, le scalinate rituali che scendono fino sotto il livello del fiume. La pioggia, incessante d’agosto, ne inonda le strade strettissime e brulicanti di vita, lavando via gli escrementi onnipresenti e creando una cappa appiccicosa di nebbia e caldo che ti fa, letteralmente, marcire gli abiti addosso.
Ci ho vissuto per qualche settimana, anni fa. E ogni minuto lo porto inciso nella mente e nel cuore, come fosse oggi.
Varanasi è una città viva, brulicante di persone, migliaia di migliaia. La maggior parte delle quali sono lì ad aspettare di morire.
Si, perché Varanasi è la più sacra delle città per gli indù e se muori a Varanasi, sei arrivato. Fine. stop. Il tuo ciclo di reincarnazioni finisce e tu raggiungi la pace eterna indù, il nirvana, il paradiso o quello che è in questa religione stranissima dove ci sono migliaia (letteralmente) di divinità che sembrano supereroi di un fumetto psichedelico anni 60. Uomini scimmia, uomini elefante, seducenti dee con molte braccia e decisamente troppe, troppe tette (nel senso numerico, non di dimensione. Le tette non sono mai abbastanza grandi, per quanto mi riguarda…).
Quindi a Varanasi ci sono migliaia di templi, Ghat, pozze sacre e crematori a cielo aperto e sono tutti frequentatissimi.
Ad ogni ora del giorno e della notte processioni interminabili di indiani pressoché nudi, corrono in fila indiana per la città, da un ghat all’altro, portando in mano una giara di terracotta che riempiono di acqua del fiume, dove si immergono a più riprese, cospargendosi della sacralità del gange.
Quando arrivano è come quando incontri una mandria, nessuno devia un centimetro dalla sua corsa, hanno lo sguardo fisso, invasato e cantilenano in continuazione. O ti sposti in qualche modo, o vieni portato al fiume. Tanto tutte le strade portano lì. Una volta mi sono fatto trascinare, li ho seguiti meravigliato e, devo confessarlo, un po’ esaltato dalla mistica religiosa Indù. Arrivato al ghat sono entrati tutti in acqua. Uno dietro l’altro. E l’ho fatto anche io. Mi sono immerso nel grande Gange melmoso, cercando di non bere, ho fatto le abluzioni rituali e poi sono risalito dalla scalinata del ghat, spiritualmente leggero e in pace. Un po’ preoccupato per il tifo e il colera, ma che ci vuoi fare, sono fatto così e avevo comunque la diarrea sin da quando ero sceso dall’aereo, un mese prima...
Varanasi è un labirinto di vicoli tanto stretti che, se trovavo una mucca in uno di essi, mi toccava fare chilometri per aggirarla attraverso mille altre stradine in cui, inevitabilmente, mi perdevo. Scavalcare la mucca, naturalmente, era un’idea blasfema e pericolosa. Sono sacre e guai, guai a mancare loro di rispetto.
Voglio dire, sono animali denutriti, lasciati allo stato brado in piena città con facoltà di fare quello che gli passa per la testa e andare, letteralmente, ovunque. Anche nelle case o nei templi. Una volta, su un Tuk Tuk, uno di quei trabiccoli tipo ape piaggio che si usano come tassì, trascorsi mezz’ora fermo in mezzo ad una tangenziale perché una mucca si era sdraiata in mezzo alla strada. Nessuno la toccava perché, mi spiegò l’autista, se lo facevi gli altri guidatori, con assoluta certezza, ti avrebbero ucciso. Sul posto. Non si scherza con le mucche. Ancora oggi ho una certa difficoltà ad ordinare al McDonald. Non vorrei offendere.
Comunque, il punto di questa storia strampalata non sono le mucche. È un pomeriggio strano. Pioveva a dirotto, il monsone eterno che è come se la tua vita si svolgesse sotto la doccia. Ogni momento. Una doccia calda. Nessuno porta ombrelli in india, a parte i turisti occidentali, loro portano anche gli occhiali da sole.
Io non portavo neppure le scarpe. Mi aggiravo per la città scalzo o con delle infradito di pelle di qualcosa, comprati anni prima in africa, con cui viaggio sempre. Li trovo più comodi delle scarpe e, tanto, nel terzo mondo nessuno porta scarpe quindi, se va bene per loro, va bene anche per me.
L’unico disagio veniva dalla mia disattenzione. Non mi riusciva proprio fare attenzione dove mettevo i piedi e spessissimo finivo con il piede fino alla caviglia dentro gigantesche cacche di mucca, suscitando l’ilarità degli indiani che assistevano scuotendo la testa divertiti. In realtà non era male. Era caldo e morbido e, se riuscivi a non pensarci, poteva anche risultare piacevole. E comunque c’erano mille rigagnoli dove infilare piede e ciabatta per farle tornare pulite in un attimo. Con le scarpe non sarebbe stato lo stesso. Affatto.
Ma ho divagato ancora. Raccontare di Varanasi mi fa perdere nei ricordi, che si diramano in mille direzioni come i suoi vicoli. Mi trovo con la mente nella bottega del the di Vishnu, un ragazzino di forse 16 anni con cui avevo fatto amicizia, ossessionato dal sogno di fidanzarsi con una ragazza occidentale, una qualsiasi. Avevamo un rapporto di mutuo scambio. Passavo i pomeriggi nella sua bottega, lui mi riempiva di the dal sapore incredibile e dai nomi impronunciabili, mi raccontava le storie della città e mi mostrava luoghi inaccessibili e io, in cambio, gli spiegavo come funzionano le ragazze occidentali. All’inizio provai con la cruda verità: “sono tutte troie. Tutte.” Lo sguardo inorridito che mi lanciò mi fece capire che non era il sistema giusto. E allora iniziai a mentire. A parlare dell’amore, in cui non credevo. Dell’arte di conquistare la ragazza desiderata, arte che, evidentemente, io non possedevo. Ogni tanto dei topi attraversavano il pavimento, su cui ero seduto su stuoie e cuscini mentre gli raccontavo storie di film, spacciandole per mie, sperando che, almeno lui, ne potesse trarne insegnamento. Anche ora, mentre scrivo, sto bevendo il the di Vishnu, me ne regalò un sacco prima che partissi, insieme ad una collana di ossa scolpite, non ben identificate. Nel prepararlo ho letto l’etichetta sgualcita su cui ha scritto, nella sua scrittura infantile ed esitante, “Kashmiri green tea”, the verde del Kashmir. Ancora oggi, scrutando il vapore che si alza dalla tazza, mi chiedo come sia andata a finire, ma ho come l’impressione che Vishnu stia ancora seduto nella sua bottega a sognare di ragazze occidentali e a scrivere etichette sui sacchetti del the.
Vedi, è successo ancora, mi sono perso. Ma sto arrivando al finale della storia.
E ora, davanti ai miei occhi, si svolgono le stoffe coloratissime della bottega delle sete in cui mi ero rifugiato quella mattina. Ero intento a scegliere un sari, una splendida veste indiana di seta colorata e preziosa. Era per la mia compagna, che ne desiderava una. Ed io sono bravissimo a contrattare. Impiego ore. Acquistare merce in asia non è un affare di pochi minuti. Ci vogliono ore. Entri, fingi di essere entrato in uno dei posti più mediocri e sciatti della città, pieno di merce da due soldi, ed inizi a giocare. Prima viene il commesso, che non conta nulla. Qualsiasi cosa ti metta davanti, devi opporre un rifiuto sdegnato. Ti stanno prendendo in giro? Quella è roba da pidocchiosi musulmani, se ti trovi in un negozio indù o sikh, altrimenti è da porci miscredenti adoratori di scimmie, se ti trovi in un negozio musulmano. La religione è importante, in Asia, sempre. A quel punto, siccome nessuno è scemo e loro quel gioco lo sanno giocare meglio di te, arriverà il proprietario e ti porterà nel retro. Ti faranno accomodare su mille cuscini (che devi rifiutare, agli uomini ne basta uno solo, il fatto che te ne offrano molti è per deriderti) e ti offriranno dell’alcol, che loro non possono bere. Ma tu chiederai il the, perché nessuno beve alcol mentre contratta.
A quel punto srotoleranno mille e mille stoffe, tutte bellissime e tu le guarderai, ne ammirerai i ricami, accarezzerai il tessuto (perché sei lì con lo stesso spirito con cui entri in un museo: ammirare cose belle). E poi, quando saranno passate ore e avrai bevuto tanto the da avere la vescica che implora pietà (il bagno non c’è in quelle botteghe, almeno per te. Fa parte del gioco per spingerti a comprare in fretta) potrai iniziare a contrattare. Non per la stoffa che hai scelto, ma per un’altra, che non ti interessa veramente. Ascolterai il prezzo esagerato che ti dirà il proprietario della bottega e lo guarderai incredulo. Proporrai un decimo del prezzo (che è un’esagerazione al ribasso altrettanto eclatante) e lui farà finta di offendersi. Poi, ribadito che nessuno è fesso, puoi iniziare il gioco di offerta e controfferta. Quando arriverai al punto che non il tuo avversario non ribassa più e che si dichiara disposto a non vendere perché il prezzo è troppo, troppo oltraggioso per un onesto commerciante indù, o sikh, o musulmano, tu ti alzerai, ringrazierai per il the e scopri il suo bluff. È sempre un bluff. Con mille piagnistei ti spiegheranno perché non possono affamare i loro figli per darti della seta tanto bella ad un prezzo tanto, tanto basso come chiede il saib. Insisti. Insisti per una buona mezz’ora. Se cede e scende un po’ il gioco continua. Se non scende vuol dire che hai trovato il vero prezzo. A quel punto non resta che fargli dire, tra mille salamelecchi, che quello è davvero il pezzo più pregiato del suo negozio, che tutti gli altri avrebbe anche potuto darteli al prezzo che chiedi, ma quello, Ganesha gli è testimone, proprio no. Con il mio migliore sguardo da ragazzino sprovveduto gli domando se quello è davvero il prezzo più bello e prezioso del suo negozio, perché a me in effetti piace tanto, tanto, tanto.
Per la dea Kalì, si certo, lo è! Dice lui convinto di averti in pugno. Al che, con fare rassegnato e cercando di non ridere, tiro fuori da sotto il mucchio delle stoffe scartate quella che avevo puntato all’inizio, due ore prima. e, con tutta l’umiltà di cui sono capace, dico che in tal caso mi accontenterò di quest’altro misero pezzo di stoffa, quasi uno scarto! E al prezzo che dicevo io, visto che due minuti prima aveva affermato che era l’altro il pezzo pregiato che valeva davvero. Al padrone non resta che ammettere la sconfitta e prendere le misure per il sari.
È a quel punto che viene avanti Sarubid, il figlio ventenne del padrone, il quale si era divertito immensamente nel vedermi tenere testa al padre come, parole sue, un vecchio capraio del Kashmir. E mi propone, intanto che i sarti cucivano il sari, di seguirlo alla casa dei morti, dove lui presta servizio come volontario.
Incuriosito lo seguo, esco nei vicoli soffocanti di calura, dove la pioggia aveva lasciato posto ad una nebbiolina traslucida e appiccicosa, quasi un sudario di umidità.  Ci dirigiamo verso il fiume, dove colonne di fumo si levavano dalle terrazze di cremazione, dove bruciano i morti incessantemente, a centinaia, uno dopo l’altro senza requie.
I vicoli intorno alle terrazze erano ingombri di grossi tronchi di legno, per lo più legno di sandalo che brucia con molto calore ed ha un forte odore in grado di mascherare, almeno in parte, quello dei corpi.
Sarubid mi conduce in un edificio enorme, di legno vecchio, su quattro piani. Avrà più di 100 anni ed è mezzo piegato, inclinato verso il fiume, in un lento inchino che lo porterà a sprofondare in qualche decennio, piegato dal tempo e dalla pioggia, oppure dal suo incredibile carico umano.
All’inizio di questa lunga storia, vi ho detto che a Varanasi si va per morire. Non scherzavo. In quell’edificio c’erano centinaia di anziani indù, tutti col loro rosario di legno in mano, seduti o sdraiati nei giacigli di canna, avvolti in teli bianchi. Erano persone sole, che sentendo approssimarsi la morte hanno intrapreso l’ultimo viaggio verso la città santa nel cuore dell’India più primitiva. Una volta giunti lì, troppo poveri per trovarsi un posto dove stare o semplicemente non interessati a farlo, venivano accolti in quel posto, dove veniva dato loro un giaciglio, del latte e del riso ogni giorno finché, nel momento della morte Sarubid e altri giovani volontari, non li prendevano per portarli in braccio fino al fiume dove li stendevano su lastre di pietra inclinate, con i piedi nell’acqua sacra e lì, semplicemente morivano.
Mentre passavo attraverso questi giacigli di umanità così diversa da me, così fragile e al tempo stesso così forte, aiutando Sarubid con il riso e il latte, mi sono sentito afferrare la mano destra. Voltatomi ho visto una vecchia minuscola, seduta con le mani giunte e gli occhi sorridenti. Ha iniziato a parlare con una cantilena assolutamente incomprensibile. Era senza denti e non pareva pesare più di 30 chili, compreso il sari. Un sari candido, così diverso da quello di pregiata seta azzurra e rosa per cui avevo contrattato tutta la mattina con il padre di Sarubid. Eppure c’era molta umanità e dignità in quella vecchia donna dal naso adunco e gli occhi scuri e velati dall’età. Le porsi la brocca del latte, con cui le riempii la ciotola sbreccata, ma lei non la toccò. Mi prese di nuovo la mano tra le sue e continuò con la cantilena delle sue parole, che potevano essere una preghiera o una maledizione, ma che tanto io non capivo.
Giunse Sarubid, che mi guardò stupito. Si chinò sulla vecchia e poi mi disse “dice che tu le comprerai la legna”.
“che legna”, feci io guardando un po’ lui e un po’ lei
“la legna per la sua pira”. “Dice che quando le sei passato vicino, lei ha sentito che tu avresti comprato la sua legna, perché lei è troppo povera e non ha una rupia. Tu si.” E anche Sarubid mi guardò, come se non sapesse cosa fare o dire. Neanch’io lo sapevo. La vecchia signora, per dio, avrà avuto cento anni ed era più raggrinzita di madre Teresa, continuava a guardarmi. ma non come se mi stesse implorando. No, con la serena fiducia di chi conosce le cose del mondo. Era così e non poteva essere che così.
“che vuol dire che ha sentito, sentito cosa?” feci io. Ma era una domanda retorica. Nessuno dei due rispose.
Scesi per le scale traballanti, con le assi sconnesse e mi infilai nei vicoli. Potevo scappare. Nessuno si aspettava davvero che avrei comprato della legna da ardere per bruciare una vecchia signora. Cioè, cazzo, non funziona così nel mio mondo.
Invece, inevitabilmente, mi avvicinai al legnaiolo che stupefatto e con l’aiuto del figlio di 9 anni che parlava inglese, mi spiegò la differenza tra i vari tipi di legno. Chiesi quanto legno occorresse per una pira. “dipende” mi rispose. Da cosa dipendesse non aveva bisogno di spiegarlo. “Una pira molto piccola”, dissi io.
“ci vogliono 3000 rupie di legno di sandalo o 500 rupie di legno di pino”. 3000 rupie erano 35 euro.
“voglio 3000 rupie di legno di sandalo” dissi, cercando di mascherare l’emozione. Non contrattai neppure per una sola rupia di meno. Mi pareva un sacrilegio contrattare per la legna della pira funebre di una signora che sentiva che io, che ero passato di lì per caso, avrei acquistato per lei.
Il ragazzino mi seguì nella specie di ospizio dei morenti e io mi accertai che avesse capito per chi fosse la legna. “la porterò domani” mi disse lui. “la porterai quando morirà” risposi seccato. Lui mi guardò con l’aria candida che hanno tutti gli indiani, e mi disse “appunto, la porterò domani”. E se ne andò. La vecchia signora che aveva assistito a tutto questo mi sorrise. Non mi ringraziò. Non mi disse niente. Ma mi parve molto serena e, potrei giurarlo, felice. Era felice.
Sarubid aveva finito il giro e mi disse di seguirlo sulla terrazza dove bruciavano i morti.
Mi disse che lì non ci potevano andare neppure i familiari. Solamente i volontari addetti alle pire. secondo lui, io avevo fatto abbastanza per essere classificato come tale.
Salii una decina di gradini di pietra, fino ad una terrazza piana lambita dalle acque del fiume in piena.
C’erano sei grandi pire che bruciavano, ognuna guardata da una o due persone con un dothi bianco ed un turbante giallo. Erano come dei falò oblunghi, cataste di legna quadrangolari con dentro dei sudari bianchi coperti da fiori gialli che, una volta accese, bruciavano con fiamme altissime. E poi c’eravamo io e Sarubid. Il fumo acre mi faceva lacrimare gli occhi. Avevamo una pala per uno e Sarubid, il mio Virgilio in questo viaggio nel mondo dei morti, mi disse di aspettare. La pira più vicina a noi crepitò e i pezzi di legno disposti a formare una struttura quadrangolare crollarono su loro stessi. Un tizio enorme e dall’aria alquanto annoiata si avvicinò e con un lungo bastone ammucchiò i legni scompigliati verso il centro della pira, perché continuassero a bruciare. Poi, con le mani, estrasse due pezzi di legno scuro, molto secchi, dal lato della pira dove erano finiti cadendo e gettò anch’essi al centro, dove le fiamme erano più vive. In quel momento realizzai che erano due gambe umane, con dei piedi che saranno stati almeno un 46. Li aveva presi e con noncuranza li aveva messi a bruciare. Non era un rito sacro. Era una cosa ordinaria per loro. Succedeva in continuazione, e le spoglie mortali non hanno importanza. Le famiglie che seguivano i sudari, una volta accesa la pira, se ne andavano. Tanto l’anima se ne era già andata, quelle erano solo carne e ossa vecchie. Quando la pira si spense, Sarubid mi fece cenno e insieme usammo le pale per gettare tutto nel fiume. Ceneri, pezzi di legno, brandelli di sudario, fiori, gioielli e ossa. Tutto finiva nel grande fiume impetuoso. Dove io avevo fatto il bagno prima.
Quel giorno non mangiai.

sabato 21 luglio 2012

Ex Se



Mi ero scordato come fosse alienante muoversi di notte, al buio, ascoltando i rumori fuori. Assaggiare l’aria che porta promesse di pioggia, di umidità. Di calura soffocante.
Le ho già vissute tutte, i miei piedi scalzi ne portano memoria, quasi fossero anch’essi, in qualche modo, sensi.
Cazzo. Le due e trenta. È la seconda notte che non dormo. Ieri la febbre, oggi me stesso.
E allora tanto vale sedersi qui, col vento tiepido e violento che entra a folate rabbiose dalla finestra e mi arriva in faccia, a raccontare di un’altra interminabile notte. Di quasi un anno fa.
Quando ti ritrovi lasciato solo per la seconda volta in India nel giro di un paio di settimane inizi a riflettere.
Prima il mio compagno di viaggio, che mi ha abbandonato per vigliaccheria dopo appena due giorni, poi lei, appena trovata e un po’ più di una semplice compagna di viaggio. Per naturali scadenze temporali. Questa volta.
Andare fino a Kathmandu. In Nepal. Sulla cartina pareva un attimo, cosa facile. Quindi, perché no? Seguo l’avventura e prendo per il nord, lasciandomi Varanasi alle spalle.
Solo che non c’è nessun mezzo che da Varanasi ti porti fino a Kathmandu. Puoi solo avvicinarti alla frontiera, passarla in qualche modo e poi arrangiarti. Quindi il mio obbiettivo immediato era Sanauli. Una cittadina di confine cui la Lonely dedica appena due righe.  Vado a cercare un autobus.
In India gli autobus partono dalle stazioni, come da noi i treni. Solo che quelli sono grandi parcheggi pieni di fango, rumore, colori, bambini e adulti sdraiati per terra ad aspettare, a volte per giorni, di andare da qualche parte. Ognuno la sua. Anch’io faccio così.
Mi appoggio allo zaino e mi guardo intorno. Quale sarà l’autobus per Sanauli? Ce ne sono decine e ogni minuto qualcuno parte e qualcun altro ne arriva. Tutti carichi all’inverosimile.
Dopo quasi un mese quaggiù so riconoscere al volo le persone che possono darmi informazioni e quelle che, per eccesso di cortesia, te le danno sbagliate. Non perché sono stronzi. Perché non vogliono deluderti.
Il trucco è nel porre le domande in forma attiva e mai passiva. Se tipo chiedessi a qualcuno cose tipo “ è questo l’autobus per Kathmandu?” quello, invariabilmente, risponderebbe scuotendo la testa (che vuol dire si) e sorridendoti. “Kathmandu? Kathmandu!” indicando l’autobus. Se fossi tanto ingenuo da salirci mi troverei a Calcutta. All’alba.
No, la domanda va posta in modo da non dargli la possibilità di essere accondiscendenti con te.
Quindi arrivo al centro dello spiazzo fangoso. Aspetto  di essere notato. Qualcuno arriva. Arrivano sempre in India. Sono curiosi come i gatti del mio piazzale, che quando torno a casa la sera e mi fermo nel mezzo, arrivano da tutte le parti per salutarmi e parlare un po’.
Il tipo che arriva per primo è vestito, naturalmente, da indiano. Pantaloni lunghi color polvere, camicia di cotone stinto, di un colore indefinibile. E la pelle scura, oliata. I denti bianchissimi lampeggiano quando mi si rivolge. In Hindi, naturalmente. Non parlano alta lingua. Però sono bravi a capirti. Perché ti leggono dentro.
Gli pongo la domanda in forma attiva. Semplice. “which’s goin’ to Sanauli?” senza indicare nulla, senza staccargli gli occhi dalla faccia sorridente. Smette per un attimo di sorridere (buon segno, vuol dire che sta pensando…)
“Sanauli?” ripete. Non ha bisogno di conferme, ha già capito. È solo che gli piace parlarmi e lo fa.
Si gira, si guarda intorno e parte deciso verso un gruppo di persone. Gesticola, mi indicano tutti due o tre volte e partono in tre verso tre distinti bus. Parlano col tizio davanti alla porta e, alla fine, tutti e tre mi scortano verso uno dei più scassati. Mi spingono dentro, quasi avessero paura che, all’improvviso, possa ripensarci vanificando così la loro gentilezza. Mi parlano a raffica tutti e tre, anzi tutti e quattro, anche l’autista. Sorridono tutti. Non capisco una parola ma stringo mani come se fossi una specie di celebrità.
Mi avvio verso il fondo di un autobus pienissimo. Mi guardano tutti, senza nascondere la loro curiosità. Mi fissano e quando passo accanto al loro sedile si voltano per continuare a guardarmi mentre mi avvicino al mio posto. E a quel punto faccio il primo grande errore di quella tratta di viaggio. Mi siedo in fondo. Incastro lo zaino tra i sedili (col cazzo che lo metto sul tetto…) e mi ci siedo accanto.
L’autobus, già pieno, si riempie all’inverosimile. In India gli autobus non partono ad un orario stabilito, partono quando sono pieni.  E non nel senso di quando tutti i posti sono occupati.
Partono quando, anche volendo, nessuno può più entrarci. E così, sul sedile di fondo, originariamente concepito per cinque persone troviamo posto io, il mio zaino, altri 8 adulti e 4 bambini (questi ultimi in braccio ad altri adulti). L’autobus non è ancora partito ed io già non mi sento più le gambe.

Poi partiamo. Sono quasi le sei, ma sta già scurendo. Guardo fuori dal finestrino la strada che inizia a scorrere. Poco più avanti un bambino inizia a piangere (e lo farà per complessive 4 ore, 42 minuti e qualche secondo, finché i suoi genitori non decideranno di essere arrivati).
In quel momento, guardando fuori dal finestrino, ho provato una delle più strane sensazioni di quel viaggio. Non ero dentro di me, ero fuori, avanti nel tempo e indietro, nello stesso momento.
Ero a casa a scrivere questo blog (allora ancora non sapevo che sarebbe trascorso un anno prima che ci rimettessi mano), ero con lei, le raccontavo il viaggio senza di lei. Ero ancora a Varanasi, ero a Kathmandu. Ero in un sacco di posti e di tempi, mentre guardavo i campi, la gente accovacciata per i bisogni serali (il bagno in casa in India è ancora un lusso), il mio riflesso sul vetro che, via via che l’esterno si faceva scuro, si faceva più definito.
E intanto l’autobus andava.
Ogni mezz’ora controllavo la cartina, cercando di far collimare i nomi in Hindi dei cartelli con i caratteri occidentali della mappa. Non avevo cibo.  Avevo quasi finito i soldi e da quelle parti i bancomat non funzionavano affatto. Avevo solo 43 rupie in tasca. Non valevano neppure un euro.
 In quei giorni non mangiavo quasi nulla comunque.
Avevo solo la mia borraccia piena d’acqua. Così la tirai fuori e ne diedi una sorsata. Poi, come ispirato da un improvviso senso di fratellanza (io?) mi volto a destra e guardo il mio compagno di viaggio. Un tipo allampanato, scuro di pelle, baffi e capelli. Avrà 30 anni. Lui naturalmente mi guarda sorridendo (non illudetevi, dopo un po’ il fatto che sorridano sempre perde quel calore umano iniziale ed acquista un ché di non troppo intelligente). Gli porgo la borraccia. Lui l’afferra, la alza e si fa cadere una grossa sorsata di acqua in bocca. Felice mi restituisce la borraccia.
Così, da li in poi, ogni volta che bevevo gli allungavo la borraccia e lui, contento, ne beveva tutto felice, neanche stessimo passandoci del vino.
Mentre le strade e le città scorrevano fuori nel buio pesto indiano, lascio vagare i miei pensieri.  Penso a lei, perlopiù.
Ad un certo punto, a Maunath credo ma non potrei giurarci, l’autobus si ferma.
Loro fanno così, si fermano ogni tanto, anche se non c’è alcuna fermata. la gente scende a fare un giretto, compra qualcosa da mangiare, tabacco da masticare, beve un masala chai, piscia sul bordo della strada e dopo un po’ l’autobus riparte.
Non avendo nulla da comprare non scendo nemmeno. Rimango al mio posto sperando che risalgano meno persone di quante ne sono scese. Speranza vana. In compenso il mio compagno di bevute sale e mi passa uno dei due samosa che aveva comprato. Karma, penso.  Non avevo soldi eppure la cena era arrivata. Dovrei essere più aperto verso questo pensiero.
Quando il bambino ululante scende, siamo a metà del tragitto fino al confine. Dormire è impossibile ed io soffro un po’ l’immobilità, schiacciato tra le persone, lo zaino ed il finestrino.  Guardo ancora l’ora sullo schermo del mio nuovo cellulare indiano. Una replica contraffatta di un vecchio modello nokia che ho pagato troppo, a Jaipur, e che aveva i tasti in caratteri hindi. la scheda telefonica del Rajasthan oramai non serviva più a nulla. Quindi l’usavo come orologio.
Sono quasi le undici. Il mio compagno di viaggio è assorto con il suo cellulare. È su internet. Su youporn per la precisione. Lo guardo. Mi sorride. Nulla di nuovo insomma.
Alle 3 di notte l’autobus è oramai vuoto. Il mio compagno di viaggio è sceso da tempo, tra grandi saluti e un ultimo, beneaugurante, sorso d’acqua della mia borraccia. Sono quasi a Sunauli (che bellissimo nome, Sunauli… ha un suono che mi ricorda uno dei re di cui narra Erodoto, Candaule, che perse sua moglie per un eccesso di fiducia…). Quando finalmente l’autobus si ferma, non prosegue oltre, per il semplice motivo che non c’è più india davanti a noi, scendiamo in cinque. Io sono l’unico non indiano.
Gli altri si dileguano al buio, tra le vie di questo paese di casupole piccole, buie e strade non asfaltate.
Io non so dove andare. Non c’è nulla qua. Nemmeno qualche luce o un’indicazione.
Dietro di me, improvvisamente, sento un campanello di bicicletta. Un rikshaw. Il tipo ai pedali mi fa capire che mi poteva portare fino alla frontiera. 100 rupie.
Rido della sua ingenuità e con aria esperta gli dico che gliene avrei date solo 5. Dopo qualche minuto di inutili trattative (io ero l’unica persona che aveva bisogno di sapere dove andare e lui era l’unico rikshaw in circolazione…) ci mettiamo d’accordo per 15 rupie. Un prezzo tutto sommato onesto.

Salgo e lui mi porta per circa trecento metri, fino ad un palo che bloccava la strada. Mi scarica li. Quello era il confine e lui non aveva nessuna intenzione di andare oltre. (prezzo onesto una sega…). Mi indica però una casupola dall’altra parte. Probabilmente l’ufficio immigrazione dove dovrò procurarmi il visto d’ingresso. Sul confine ci sono tre soldati. Bassi e tarchiati, dall’aria molto minacciosa. Se non stessero dormendo, intendo.
 Gli passo accanto cercando di non fare rumore e mi avvicino alla casupola.
Busso. Nulla. Busso ancora. Nulla ancora. Do un paio di calci alla porta e poi, sconsolato, mi sdraio davanti all’uscio. Ho sonno.
Dopo una decina di minuti mi rendo conto che non riuscirò a dormire. Quindi tanto vale continuare a provare.
Lascio lo zaino ad ostruire la porta e torno dai soldati. Li guardo per un po’ e poi ne scuoto uno per una spalla. Delicatamente.
Invece questi, tutti e tre, saltano su. E iniziano ad urlare puntandomi i fucili in faccia. Alzo le mani (lentamente, molto lentamente).
Si calmano quasi subito e mi chiedono 100 rupie a testa per l’incomodo di essere stati beccati a dormire mentre erano di guardia al confine. Gli allungo 5 dollari. Se li spartiscano pure come vogliono. Gli spiego il problema e uno di questi mi porta di nuovo alla casupola.
Bussa, urla in nepali al tipo che dorme dentro (sdraiato sotto una zanzariera…) e così ottengo il visto per il Nepal. Posso starci 15 giorni.
Per arrivare a Kathmandu impiegherò altre 15 ore. Ma questa è un’altra storia…