Varanasi giace sul fiume Gange come un relitto di granito e
brume.
L’acqua impetuosa color marrone ne lava i Ghat, le scalinate
rituali che scendono fino sotto il livello del fiume. La pioggia, incessante d’agosto,
ne inonda le strade strettissime e brulicanti di vita, lavando via gli
escrementi onnipresenti e creando una cappa appiccicosa di nebbia e caldo che
ti fa, letteralmente, marcire gli abiti addosso.
Ci ho vissuto per qualche settimana, anni fa. E ogni minuto
lo porto inciso nella mente e nel cuore, come fosse oggi.
Varanasi è una città viva, brulicante di persone, migliaia
di migliaia. La maggior parte delle quali sono lì ad aspettare di morire.
Si, perché Varanasi è la più sacra delle città per gli indù
e se muori a Varanasi, sei arrivato. Fine. stop. Il tuo ciclo di reincarnazioni
finisce e tu raggiungi la pace eterna indù, il nirvana, il paradiso o quello
che è in questa religione stranissima dove ci sono migliaia (letteralmente) di
divinità che sembrano supereroi di un fumetto psichedelico anni 60. Uomini
scimmia, uomini elefante, seducenti dee con molte braccia e decisamente troppe,
troppe tette (nel senso numerico, non di dimensione. Le tette non sono mai
abbastanza grandi, per quanto mi riguarda…).
Quindi a Varanasi ci sono migliaia di templi, Ghat, pozze sacre
e crematori a cielo aperto e sono tutti frequentatissimi.
Ad ogni ora del giorno e della notte processioni
interminabili di indiani pressoché nudi, corrono in fila indiana per la città,
da un ghat all’altro, portando in mano una giara di terracotta che riempiono di
acqua del fiume, dove si immergono a più riprese, cospargendosi della sacralità
del gange.
Quando arrivano è come quando incontri una mandria, nessuno
devia un centimetro dalla sua corsa, hanno lo sguardo fisso, invasato e
cantilenano in continuazione. O ti sposti in qualche modo, o vieni portato al
fiume. Tanto tutte le strade portano lì. Una volta mi sono fatto trascinare, li
ho seguiti meravigliato e, devo confessarlo, un po’ esaltato dalla mistica
religiosa Indù. Arrivato al ghat sono entrati tutti in acqua. Uno dietro l’altro.
E l’ho fatto anche io. Mi sono immerso nel grande Gange melmoso, cercando di
non bere, ho fatto le abluzioni rituali e poi sono risalito dalla scalinata del
ghat, spiritualmente leggero e in pace. Un po’ preoccupato per il tifo e il colera,
ma che ci vuoi fare, sono fatto così e avevo comunque la diarrea sin da quando
ero sceso dall’aereo, un mese prima...
Varanasi è un labirinto di vicoli tanto stretti che, se trovavo
una mucca in uno di essi, mi toccava fare chilometri per aggirarla attraverso
mille altre stradine in cui, inevitabilmente, mi perdevo. Scavalcare la mucca,
naturalmente, era un’idea blasfema e pericolosa. Sono sacre e guai, guai a
mancare loro di rispetto.
Voglio dire, sono animali denutriti, lasciati allo stato
brado in piena città con facoltà di fare quello che gli passa per la testa e
andare, letteralmente, ovunque. Anche nelle case o nei templi. Una volta, su un
Tuk Tuk, uno di quei trabiccoli tipo ape piaggio che si usano come tassì,
trascorsi mezz’ora fermo in mezzo ad una tangenziale perché una mucca si era
sdraiata in mezzo alla strada. Nessuno la toccava perché, mi spiegò l’autista,
se lo facevi gli altri guidatori, con assoluta certezza, ti avrebbero ucciso. Sul
posto. Non si scherza con le mucche. Ancora oggi ho una certa difficoltà ad
ordinare al McDonald. Non vorrei offendere.
Comunque, il punto di questa storia strampalata non sono le
mucche. È un pomeriggio strano. Pioveva a dirotto, il monsone eterno che è come
se la tua vita si svolgesse sotto la doccia. Ogni momento. Una doccia calda.
Nessuno porta ombrelli in india, a parte i turisti occidentali, loro portano
anche gli occhiali da sole.
Io non portavo neppure le scarpe. Mi aggiravo per la città
scalzo o con delle infradito di pelle di qualcosa, comprati anni prima in
africa, con cui viaggio sempre. Li trovo più comodi delle scarpe e, tanto, nel
terzo mondo nessuno porta scarpe quindi, se va bene per loro, va bene anche per
me.
L’unico disagio veniva dalla mia disattenzione. Non mi
riusciva proprio fare attenzione dove mettevo i piedi e spessissimo finivo con
il piede fino alla caviglia dentro gigantesche cacche di mucca, suscitando l’ilarità
degli indiani che assistevano scuotendo la testa divertiti. In realtà non era
male. Era caldo e morbido e, se riuscivi a non pensarci, poteva anche risultare
piacevole. E comunque c’erano mille rigagnoli dove infilare piede e ciabatta
per farle tornare pulite in un attimo. Con le scarpe non sarebbe stato lo
stesso. Affatto.
Ma ho divagato ancora. Raccontare di Varanasi mi fa perdere
nei ricordi, che si diramano in mille direzioni come i suoi vicoli. Mi trovo
con la mente nella bottega del the di Vishnu, un ragazzino di forse 16 anni con
cui avevo fatto amicizia, ossessionato dal sogno di fidanzarsi con una ragazza
occidentale, una qualsiasi. Avevamo un rapporto di mutuo scambio. Passavo i
pomeriggi nella sua bottega, lui mi riempiva di the dal sapore incredibile e
dai nomi impronunciabili, mi raccontava le storie della città e mi mostrava
luoghi inaccessibili e io, in cambio, gli spiegavo come funzionano le ragazze
occidentali. All’inizio provai con la cruda verità: “sono tutte troie. Tutte.” Lo
sguardo inorridito che mi lanciò mi fece capire che non era il sistema giusto. E
allora iniziai a mentire. A parlare dell’amore, in cui non credevo. Dell’arte
di conquistare la ragazza desiderata, arte che, evidentemente, io non possedevo.
Ogni tanto dei topi attraversavano il pavimento, su cui ero seduto su stuoie e
cuscini mentre gli raccontavo storie di film, spacciandole per mie, sperando che,
almeno lui, ne potesse trarne insegnamento. Anche ora, mentre scrivo, sto
bevendo il the di Vishnu, me ne regalò un sacco prima che partissi, insieme ad
una collana di ossa scolpite, non ben identificate. Nel prepararlo ho letto l’etichetta
sgualcita su cui ha scritto, nella sua scrittura infantile ed esitante, “Kashmiri
green tea”, the verde del Kashmir. Ancora oggi, scrutando il vapore che si alza
dalla tazza, mi chiedo come sia andata a finire, ma ho come l’impressione che
Vishnu stia ancora seduto nella sua bottega a sognare di ragazze occidentali e
a scrivere etichette sui sacchetti del the.
Vedi, è successo ancora, mi sono perso. Ma sto arrivando al
finale della storia.
E ora, davanti ai miei occhi, si svolgono le stoffe
coloratissime della bottega delle sete in cui mi ero rifugiato quella mattina. Ero
intento a scegliere un sari, una splendida veste indiana di seta colorata e
preziosa. Era per la mia compagna, che ne desiderava una. Ed io sono bravissimo
a contrattare. Impiego ore. Acquistare merce in asia non è un affare di pochi
minuti. Ci vogliono ore. Entri, fingi di essere entrato in uno dei posti più
mediocri e sciatti della città, pieno di merce da due soldi, ed inizi a
giocare. Prima viene il commesso, che non conta nulla. Qualsiasi cosa ti metta
davanti, devi opporre un rifiuto sdegnato. Ti stanno prendendo in giro? Quella è
roba da pidocchiosi musulmani, se ti trovi in un negozio indù o sikh,
altrimenti è da porci miscredenti adoratori di scimmie, se ti trovi in un
negozio musulmano. La religione è importante, in Asia, sempre. A quel punto,
siccome nessuno è scemo e loro quel gioco lo sanno giocare meglio di te, arriverà
il proprietario e ti porterà nel retro. Ti faranno accomodare su mille cuscini
(che devi rifiutare, agli uomini ne basta uno solo, il fatto che te ne offrano
molti è per deriderti) e ti offriranno dell’alcol, che loro non possono bere. Ma
tu chiederai il the, perché nessuno beve alcol mentre contratta.
A quel punto srotoleranno mille e mille stoffe, tutte
bellissime e tu le guarderai, ne ammirerai i ricami, accarezzerai il tessuto
(perché sei lì con lo stesso spirito con cui entri in un museo: ammirare cose
belle). E poi, quando saranno passate ore e avrai bevuto tanto the da avere la
vescica che implora pietà (il bagno non c’è in quelle botteghe, almeno per te. Fa
parte del gioco per spingerti a comprare in fretta) potrai iniziare a
contrattare. Non per la stoffa che hai scelto, ma per un’altra, che non ti
interessa veramente. Ascolterai il prezzo esagerato che ti dirà il proprietario
della bottega e lo guarderai incredulo. Proporrai un decimo del prezzo (che è
un’esagerazione al ribasso altrettanto eclatante) e lui farà finta di
offendersi. Poi, ribadito che nessuno è fesso, puoi iniziare il gioco di
offerta e controfferta. Quando arriverai al punto che non il tuo avversario non
ribassa più e che si dichiara disposto a non vendere perché il prezzo è troppo,
troppo oltraggioso per un onesto commerciante indù, o sikh, o musulmano, tu ti
alzerai, ringrazierai per il the e scopri il suo bluff. È sempre un bluff. Con mille
piagnistei ti spiegheranno perché non possono affamare i loro figli per darti
della seta tanto bella ad un prezzo tanto, tanto basso come chiede il saib.
Insisti. Insisti per una buona mezz’ora. Se cede e scende un po’ il gioco
continua. Se non scende vuol dire che hai trovato il vero prezzo. A quel punto
non resta che fargli dire, tra mille salamelecchi, che quello è davvero il
pezzo più pregiato del suo negozio, che tutti gli altri avrebbe anche potuto
darteli al prezzo che chiedi, ma quello, Ganesha gli è testimone, proprio no.
Con il mio migliore sguardo da ragazzino sprovveduto gli domando se quello è
davvero il prezzo più bello e prezioso del suo negozio, perché a me in effetti
piace tanto, tanto, tanto.
Per la dea Kalì, si certo, lo è! Dice lui convinto di averti
in pugno. Al che, con fare rassegnato e cercando di non ridere, tiro fuori da
sotto il mucchio delle stoffe scartate quella che avevo puntato all’inizio, due
ore prima. e, con tutta l’umiltà di cui sono capace, dico che in tal caso mi
accontenterò di quest’altro misero pezzo di stoffa, quasi uno scarto! E al
prezzo che dicevo io, visto che due minuti prima aveva affermato che era l’altro
il pezzo pregiato che valeva davvero. Al padrone non resta che ammettere la
sconfitta e prendere le misure per il sari.
È a quel punto che viene avanti Sarubid, il figlio ventenne
del padrone, il quale si era divertito immensamente nel vedermi tenere testa al
padre come, parole sue, un vecchio capraio del Kashmir. E mi propone, intanto
che i sarti cucivano il sari, di seguirlo alla casa dei morti, dove lui presta
servizio come volontario.
Incuriosito lo seguo, esco nei vicoli soffocanti di calura, dove
la pioggia aveva lasciato posto ad una nebbiolina traslucida e appiccicosa,
quasi un sudario di umidità. Ci dirigiamo
verso il fiume, dove colonne di fumo si levavano dalle terrazze di cremazione,
dove bruciano i morti incessantemente, a centinaia, uno dopo l’altro senza
requie.
I vicoli intorno alle terrazze erano ingombri di grossi
tronchi di legno, per lo più legno di sandalo che brucia con molto calore ed ha
un forte odore in grado di mascherare, almeno in parte, quello dei corpi.
Sarubid mi conduce in un edificio enorme, di legno vecchio,
su quattro piani. Avrà più di 100 anni ed è mezzo piegato, inclinato verso il
fiume, in un lento inchino che lo porterà a sprofondare in qualche decennio,
piegato dal tempo e dalla pioggia, oppure dal suo incredibile carico umano.
All’inizio di questa lunga storia, vi ho detto che a
Varanasi si va per morire. Non scherzavo. In quell’edificio c’erano centinaia
di anziani indù, tutti col loro rosario di legno in mano, seduti o sdraiati nei
giacigli di canna, avvolti in teli bianchi. Erano persone sole, che sentendo
approssimarsi la morte hanno intrapreso l’ultimo viaggio verso la città santa
nel cuore dell’India più primitiva. Una volta giunti lì, troppo poveri per
trovarsi un posto dove stare o semplicemente non interessati a farlo, venivano
accolti in quel posto, dove veniva dato loro un giaciglio, del latte e del riso
ogni giorno finché, nel momento della morte Sarubid e altri giovani volontari,
non li prendevano per portarli in braccio fino al fiume dove li stendevano su
lastre di pietra inclinate, con i piedi nell’acqua sacra e lì, semplicemente
morivano.
Mentre passavo attraverso questi giacigli di umanità così
diversa da me, così fragile e al tempo stesso così forte, aiutando Sarubid con
il riso e il latte, mi sono sentito afferrare la mano destra. Voltatomi ho
visto una vecchia minuscola, seduta con le mani giunte e gli occhi sorridenti. Ha
iniziato a parlare con una cantilena assolutamente incomprensibile. Era senza
denti e non pareva pesare più di 30 chili, compreso il sari. Un sari candido,
così diverso da quello di pregiata seta azzurra e rosa per cui avevo
contrattato tutta la mattina con il padre di Sarubid. Eppure c’era molta
umanità e dignità in quella vecchia donna dal naso adunco e gli occhi scuri e
velati dall’età. Le porsi la brocca del latte, con cui le riempii la ciotola
sbreccata, ma lei non la toccò. Mi prese di nuovo la mano tra le sue e continuò
con la cantilena delle sue parole, che potevano essere una preghiera o una
maledizione, ma che tanto io non capivo.
Giunse Sarubid, che mi guardò stupito. Si chinò sulla
vecchia e poi mi disse “dice che tu le comprerai la legna”.
“che legna”, feci io guardando un po’ lui e un po’ lei
“la legna per la sua pira”. “Dice che quando le sei passato
vicino, lei ha sentito che tu avresti comprato la sua legna, perché lei è
troppo povera e non ha una rupia. Tu si.” E anche Sarubid mi guardò, come se
non sapesse cosa fare o dire. Neanch’io lo sapevo. La vecchia signora, per dio,
avrà avuto cento anni ed era più raggrinzita di madre Teresa, continuava a
guardarmi. ma non come se mi stesse implorando. No, con la serena fiducia di
chi conosce le cose del mondo. Era così e non poteva essere che così.
“che vuol dire che ha sentito, sentito cosa?” feci io. Ma era
una domanda retorica. Nessuno dei due rispose.
Scesi per le scale traballanti, con le assi sconnesse e mi
infilai nei vicoli. Potevo scappare. Nessuno si aspettava davvero che avrei
comprato della legna da ardere per bruciare una vecchia signora. Cioè, cazzo,
non funziona così nel mio mondo.
Invece, inevitabilmente, mi avvicinai al legnaiolo che
stupefatto e con l’aiuto del figlio di 9 anni che parlava inglese, mi spiegò la
differenza tra i vari tipi di legno. Chiesi quanto legno occorresse per una
pira. “dipende” mi rispose. Da cosa dipendesse non aveva bisogno di spiegarlo. “Una
pira molto piccola”, dissi io.
“ci vogliono 3000 rupie di legno di sandalo o 500 rupie di
legno di pino”. 3000 rupie erano 35 euro.
“voglio 3000 rupie di legno di sandalo” dissi, cercando di
mascherare l’emozione. Non contrattai neppure per una sola rupia di meno. Mi pareva
un sacrilegio contrattare per la legna della pira funebre di una signora che
sentiva che io, che ero passato di lì per caso, avrei acquistato per lei.
Il ragazzino mi seguì nella specie di ospizio dei morenti e
io mi accertai che avesse capito per chi fosse la legna. “la porterò domani” mi
disse lui. “la porterai quando morirà” risposi seccato. Lui mi guardò con l’aria
candida che hanno tutti gli indiani, e mi disse “appunto, la porterò domani”. E
se ne andò. La vecchia signora che aveva assistito a tutto questo mi sorrise.
Non mi ringraziò. Non mi disse niente. Ma mi parve molto serena e, potrei
giurarlo, felice. Era felice.
Sarubid aveva finito il giro e mi disse di seguirlo sulla
terrazza dove bruciavano i morti.
Mi disse che lì non ci potevano andare neppure i familiari. Solamente
i volontari addetti alle pire. secondo lui, io avevo fatto abbastanza per
essere classificato come tale.
Salii una decina di gradini di pietra, fino ad una terrazza
piana lambita dalle acque del fiume in piena.
C’erano sei grandi pire che bruciavano, ognuna guardata da
una o due persone con un dothi bianco ed un turbante giallo. Erano come dei
falò oblunghi, cataste di legna quadrangolari con dentro dei sudari bianchi
coperti da fiori gialli che, una volta accese, bruciavano con fiamme altissime.
E poi c’eravamo io e Sarubid. Il fumo acre mi faceva lacrimare gli occhi. Avevamo
una pala per uno e Sarubid, il mio Virgilio in questo viaggio nel mondo dei
morti, mi disse di aspettare. La pira più vicina a noi crepitò e i pezzi di
legno disposti a formare una struttura quadrangolare crollarono su loro stessi.
Un tizio enorme e dall’aria alquanto annoiata si avvicinò e con un lungo
bastone ammucchiò i legni scompigliati verso il centro della pira, perché
continuassero a bruciare. Poi, con le mani, estrasse due pezzi di legno scuro,
molto secchi, dal lato della pira dove erano finiti cadendo e gettò anch’essi
al centro, dove le fiamme erano più vive. In quel momento realizzai che erano
due gambe umane, con dei piedi che saranno stati almeno un 46. Li aveva presi e
con noncuranza li aveva messi a bruciare. Non era un rito sacro. Era una cosa
ordinaria per loro. Succedeva in continuazione, e le spoglie mortali non hanno
importanza. Le famiglie che seguivano i sudari, una volta accesa la pira, se ne
andavano. Tanto l’anima se ne era già andata, quelle erano solo carne e ossa
vecchie. Quando la pira si spense, Sarubid mi fece cenno e insieme usammo le
pale per gettare tutto nel fiume. Ceneri, pezzi di legno, brandelli di sudario,
fiori, gioielli e ossa. Tutto finiva nel grande fiume impetuoso. Dove io avevo
fatto il bagno prima.
Quel giorno non mangiai.