La prima volta che ho attraversato il confine nepalese è
stato di notte, da solo, ad un posto di frontiera dove i turisti non arrivano,
perché da lì passano solo i bus locali. Io quando viaggio, lo faccio con
quelli. A volte va bene, a volte va male. In Nepal più che in altri posti.
Una delle prime cose che ho imparato, a mie spese come ho
raccontato qualche pagina fa, è che in fondo ti siedi solo se ti costringono. E
devono minacciarti forte. Altrimenti scegli qualsiasi altro posto, davanti, nel
mezzo, sul tetto. Ovunque. Ma non dietro. Mai dietro.
Quindi la notte che arrivai in Nepal dall’India, passata la
frontiera andai subito alla station, la stazione dei bus. Memore del caos
indiano per salire e sistemarmi con lo zaino, volevo essere tra i primi. Ci
riuscii anche troppo. Non c’era nessuno. Solo un vecchio bus con le tendine di
pizzo ai finestrini. Iniziavo ad essere un po’ stufo di sbagliarle tutte.
Immancabilmente, se c’era un’alternativa, finivo sulla via più impervia, lunga,
scomoda e, a volte, piena di insidie. Questa volta non faceva eccezione.
Così, un po’ sconsolato per la prospettiva di essere solo,
in capo al mondo, in un piazzale fangoso immerso nell’oscurità più nera (non
crederete mica che in un posto sperduto al confine tra due stati che tra loro a
malapena si parlano ci sia qualcosa chiamato illuminazione pubblica vero?). Oscurità
più nera fatta eccezione per una lampadina. Una sola. Attaccata ad un palo, sul
bordo del piazzale. Accanto al bus con le tendine. Poggio lo zaino a terra, con
molta poca delicatezza, e mi lascio sprofondare in quella che reputo essere la
sistemazione più comoda mai raggiunta dall’uomo: dormire appoggiati al proprio
zaino sui bordi di una strada mentre sei in viaggio da solo.
Comunque sembrava un quadretto da sfera di cristallo con la
neve finta. Io, lo zaino, il bus con le tendine di pizzo e il palo con la
lampadina. E il cartello con gli orari. Cazzo, non lo avevo visto mentre ero in
piedi, perché era dall’altra parte del palo. Naturalmente era scritto in
nepali, con i loro caratteri scarabocchio incomprensibili. Ma gli orari erano
con i numeri arabi. Il primo era alle 4.30. Ora erano circa le 2.30. potevo
dormire un po’. Mi sposto dalla mia idilliaca postazione perché, oltre agli sfigati
che viaggiano da soli in quella parte del mondo, la solitaria lampadina
attirava anche un consistente numero di zanzare desiderose di pasteggiare con
cibo esotico. Quindi mi dirigo in un angolo buio. Lontano dal bus e metto la
sveglia alle 4.15, giusto per essere sicuri.
La sveglia non suonò mai. Fui svegliato invece dal suono del
clacson e del motore che si avviava. Aprii gli occhi e vidi l’autobus in moto. Cazzo,
era in anticipo. Mai successo in Asia. Corsi a perdifiato verso il bus con lo
zaino di traverso urlando “Kathmandu! Kathmandu!”. Il bigliettaio (cioè un
tizio indistinguibile dagli altri passeggeri che sostava sotto alla porta del
bus) mi guardò esterrefatto per trenta secondi, con gli occhi sgranati. Un
europeo scalzo, con una maglietta in stile indian freak e dei pantaloncini
corti larghissimi, dal colore indefinibile, stava correndo contro di lui, con
uno zaino militare enorme tutto rattoppato di traverso urlando il nome della
capitale del Nepal, distante 400 km… poi scoppiò a ridere. “Kathmandu” mi
rispose. “Kathmandu!” E giù risate scomposte. Mi stava prendendo per il culo. Non
c’erano dubbi. Comunque esigette un prezzo esoso (altri 5 dollari) e mi lasciò
salire sul bus. Che era già pieno. Non ero riuscito ad essere primo neppure
arrivando lì 2 ore prima della partenza…
Mi tocco il posto in fondo. Chiesi al tizio perché stavamo
partendo in anticipo. Mi guardò strano e mi fece vedere l’orologio. Erano le
4.30. il mio dava le 4.15. Scoppio a ridere (e due…) e mi spiegò che tra Nepal
e India il fuso orario si sposta in avanti di un quarto d’ora. Non per un
motivo preciso. Solo perché si stavano sul cazzo e non volevano avere niente,
ma proprio niente, in comune.
Iniziò così un altro viaggio lungo di 12 ore su strade
incredibili, strettissime, a picco su strapiombi altissimi, passando a guado
dei fiumi in piena, dalle acque scure e impetuose. E mentre guardavo fuori dal
finestrino durante quelle interminabili ore, con il mio nuovo amico che ogni
tanto passava accanto a me e urlava “Kathmandu! Kathmandu!” Ridendo a
crepapelle, capii cosa avrei fatto una volta giunto in città. Sarei ripartito. Sarei
andato a fare rafting.
“Rafting, Sir?” mi chiese incredulo il tipo dell’ufficio
guide cui mi rivolsi il terzo giorno che ero a Kath.
“Yessir”
risposi sorridendo. “it’s not the right season, sir” “I know, but I’m here now…”
“its dangerous.” E mi guardò con aria di rimprovero.
Avevo capito, non c’era alcuna possibilità dif are rafting
fuori stagione… Mi stavo preparando ad abbandonare il progetto quando sento “let’s
say 100 dollars, three days trip, sleeping in tents, ok?” si, era decisamente
ok. Mi dette appuntamento al giorno dopo, alle 5 di mattina.
All’ora stabilita mi trovo davanti alla porta dell’ufficio
guide e, meraviglia, non sono solo. C’era Claude. Un ragazzo di forse 25 anni,
australiano. Un altro in cerca di guai.
Partiamo con l’ennesimo, minibus color bianco sporco,
rattoppato e strapieno di equipaggiamenti. Tende, cucina da campo, e, naturalmente,
il gommone. Sono eccitatissimo, non vedo l’ora.
Invece l’ora l’avrei guardata a lungo e da lontano per un
infinità di curve strette. Impiegammo quattro ore per raggiungere il posto
prescelto dalla nostra guida. Un ragazzo di nemmeno trent'anni, ben piazzato e
dall'aria molto seria, come tutti i nepalesi. Così diversi dagli indiani. Se su
un indiano non potevi fare affidamento alcuno, su un nepalese potevi giocarti
la vita. Avrebbe mantenuto la promessa e avrebbe fatto il suo dovere. Qualunque
esso fosse. E questo, nelle vicende che seguirono, fu molto importante per me.
Comunque, arrivammo ad una località sconosciuta (per me). La
guida puntò la strada più avanti e disse solo “Tibet border”. Più a nord non si
andava. Tra l’altro, in quel momento decisi che il Tibet sarebbe stata la mia
prossima meta, ma questa è un’altra storia.
Ci preparammo, gonfiammo il canotto e ci dividemmo le
postazioni. Io ero il primo rematore sulla sinistra. Avrei dovuto dare il ritmo
alla mia fila di 3 persone. Claude era dietro di me. Prima di salire indossammo
il giubbotto salvagente. Il mio mi stava piuttosto largo, non riuscivo nemmeno
a stringerlo bene. Ma i miei occhi erano già sul fiume. Largo almeno 30 metri,
in piena ruggente, con alberi sradicati che sfrecciavano sotto di noi saltando
sulle onde e le rapide. Il colore limaccioso non permetteva di vedere il fondo
ma sulla piattaforma in cemento da cui avremmo lanciato il canotto in acqua c’erano
le tacche di profondità. 24 feet. 24 piedi. Più di 6 metri. Wow! Claude aveva l’aria
eccitata e impaziente quanto me. Non vedevamo proprio l’ora. Ci sembrava un’avventura
meravigliosa. Il tizio di cui vi dicevo, di cui non ricordo quasi nulla, non
prese posto sul gommone. Ci fece salire e, insieme all'autista del pulmino, ci
spinse in acqua direttamente dalla piattaforma. Un volo di 2 o tre metri, tanto
per acclimatarci.
Non credo che si possa descrivere come è fare rafting se non
lo avete mai fatto. In sostanza sei seduto su un tubolare del gommone, con un
piede in acqua ed uno aggrappato (o incastrato) sotto una corda che corre sul
fondo del gommone, con un remo in mano, mentre viaggi a velocità incredibile
trascinato dalla corrente, cercando di capire gli ordini del timoniere che
chiama il tuo lato a remare, tirare, inclinarti verso l’interno o l’esterno per
evitare scogli, alberi, cascate e quant'altro. La corsa non dura un’oretta,
come in Italia. Durò 5 ore. E finì male.
Misi in discussione le mie scelte di vita già dopo la prima
mezzora. Non riuscivo a tirare il fiato un attimo. Il mio universo era una
turbolenta corsa nel nulla di montagne, strapiombi, alberi che sbucavano dal
nulla, salti improvvisi e urla, tante urla. Mentre stringevo il remo sentivo
che non era una giostra, un otto volante dove devi solo aspettare che finisca. Non
potevo neppure aggrapparmi, sdraiarmi nel mezzo del gommone e tenermi stretto. Dovevo
spingere con forza, cercare di capire gli ordini del rematore, sperare di
riuscire a spostare la prua prima di colpire i sassi davanti e, soprattutto,
pregavo di non ribaltarci. Finire in acqua era un’idea terrificante. E fu
esattamente quello che mi successe.
Non fu colpa mia, credo di nessuno in realtà. Forse avevo
perso un ordine, forse avevo spinto sul remo troppo presto. Non ricordo. So solo
che dopo un salto, mi trovai a volare in avanti e poi giù, in acqua. Era gelata.
La testa finì immediatamente sotto. Mi sentivo trascinare con forza, non sapevo
da che parte era la superficie. In più, il giubbotto salvagente che mi stava
largo, si sfilò. Non del tutto, ma si alzò verso l’alto, così che mi trovai la
cinghia della vita sotto le ascelle e, mentre il resto del giubbotto
galleggiava, io ero sotto, come una specie di boa. Ricordo solo la paura. Avevo
davvero paura di morire. Anzi, ne ero certo. Sotto di me c’erano metri di acqua
fangosa, non riuscivo a nuotare, neppure a galleggiare. Nulla. Stavo solo sott’acqua
attaccato ad un giubbotto salvagente troppo largo, o forse indossato male.
Finché non sentii un colpo al torace. Forte. Poi alle
braccia, che erano alzate fuori dall’acqua. E strinsi qualcosa di solido. Un remo.
Mi aggrappai esausto e mi lasciai tirare. Le mani trovarono un bordo di
plastica dura. Un corda. Tirai la testa fuori dall'acqua e respirai. Era il
tizio nepalese, con la canoa con cui ci seguiva. Aveva fatto il suo lavoro. Mi aveva
raccattato. E così mi lasciai trascinare a valle, aggrappato alla canoa come ad
un tronco, senza forze fino ad arrivare ad uno specchio d’acqua più ampio e
calmo. Galleggiavo alla deriva guardando in alto. Con le dita arpionate ad una
cordicella sul bordo della canoa di salvataggio. Mi sembrava fossero passate
ore. Finché non sentii sotto la schiena dei sassi. Ero a riva. Mi voltai,
nuotai un poco e poi, finalmente, uscii dall’acqua. Ero disorientato. E vedere
che gli altri, quelli che erano rimasti a bordo, erano tranquillamente seduti a
mangiare, mi lasciò un po’ deluso. Evidentemente la mia odissea non era
interessante quanto il riso e la carne (yes, in Nepal mangiare carne non è
reato capitale, evviva!).
Comunque, dopo un paio di ore di sosta, gettammo nuovamente il gommone a fiume e ripartimmo. Ripresi il
mio posto, ma senza tutto l’entusiasmo di quella mattina. Anche Claude era più
calmo. Mi chiese come stessi. Risposi solo OK.
Arrivammo a valle verso le 16, che il sole era già andato
via. Montammo le tende e cenammo. Dopo cena, il tizio nepalese mi si avvicina. Tira
fuori una cartina e me la mostra. Col dito indica un sentiero su un affluente
del fiume, un torrente. Mi guarda e mi fa: ”Tomorrow, Canyoning. 80 dollars.
OK?”. Guardo Claude. Sorridiamo. “OK!”