lunedì 27 luglio 2009

The Indian Summer

È notte ed esco a caccia.
Sono secoli che non lo faccio. Salgo per la strada, con il vento alle spalle. I lampioni della statale su in alto mi impediscono di vedere le stelle.
Ancora per poco, penso dentro di me. Accelero il passo. Mentre cammino veloce e silenzioso la mia mente è divisa. Una parte è viva ed è assalita dalla vita. Sento il profumo del bosco, la terra, lo scricchiolio leggero dei miei stivali (li ho preferiti agli scarponi perché magari mi risparmio le caviglie dai rovi che ultimamente non perdono occasione di flagellarle), il vento e altre mille sensazioni familiari.
Un’altra parte invece è immersa nei ricordi istintivi che camminare nei boschi da solo la notte fa affiorare.
Sorrido. Un’altra parte del mio passato di cui mi riapproprio.
Arrivato abbastanza in alto abbandono la strada e mi infilo nel bosco. La salita naturalmente è ripida, ma procedo rapido, quasi senza fatica. Mi piace scoprirmi allenato nonostante gli ultimi anni di nulla assoluto. Gli anni che ho impiegato per diventare “intelligente” mi hanno reso molle.
Avrei dovuto capirlo prima. Il rinnovato interesse per i viaggi, le uscite a piedi, lunghe ed appaganti su sentieri un tempo così familiari. La bicicletta, i progetti folli e, da ultimo, le arrampicate esaltanti e pericolose di domenica sono indizi chiari non posso più ignorarli.
Così come non ignoro cosa si nasconde dietro il mio rifiuto di unirmi agli altri nelle uscite serali.
Finalmente la statale scompare, oramai è buia ed indistinguibile, sono in alto abbastanza da rendere quasi ininfluente il bagliore dei lampioni del paese. Le case sono tutte buie da ore.
Il cielo è terso, le stelle finalmente si vedono. Non c’è la luna. Forse è già tramontata o forse è tempo di luna nuova. Un tempo lo avrei saputo senza bisogno di pensarci. Pazienza, tornerà anche quello.
Mi chino a spostare una pianta per vedere se sono su un sentiero o si tratta di una semplice pista di animali. Compiaciuto mi rendo conto che vedo ancora bene al buio, come è sempre stato. Spesso ho usato questo giochetto per fare colpo sugli altri, ma ancora più spesso l’ho usato per me. Da che mi ricordi non ho mai avuto bisogno di torce per camminare di notte.
Scollino e mi siedo, rivolto verso la montagna. Sono sudato in viso, addosso invece la camicia ha già asciugato tutto. Fa quasi freddo. Mi rilasso e seguo la linea dei monti che si stagliano contro il cielo chiaro. La notte mi entra dentro poco alla volta. Vorrei descrivere tutte le sensazioni, dalla consapevolezza dei piccoli sassi e della radice su cui sono seduto fino al calore che sento nelle mani. Ma è inutile. Chiudo gli occhi e lascio andare i pensieri, sperando che prima o poi decidano di tornare spontaneamente.
Sento improvviso un rumore. Avanti sulla destra. Un animale. La mia testa già lavora per conto suo. Sa già quanto è grosso, in che direzione (probabilmente) sta andando. Sul tipo di animale invece mi occorre un attimo in più. Per prima cosa penso ad una volpe. Potrebbe essere, ma era troppo veloce. Un gatto no, troppo lontano dalle case, e poi si sarebbe avvicinato a meno che non avesse una preda. Un topo, no, troppo piccolo. Un uccello non era, aveva quattro zampe, perché ad un certo punto ha saltato qualcosa. Non rimangono che lepri e conigli. Anche se alla fine, tutto sommato, anche l’idea della volpe riacquista consistenza. Non ho comunque intenzione di andargli dietro, quindi lascio andare la questione e penso.
Penso che forse non è esatto dire che sto tornando quello di una volta. Allora non sarei uscito senza la borraccia ed il coltello. Allora avrei camminato per raggiungere una meta, fissata in precedenza, oppure per fare qualcosa, fosse anche solo per esplorare o per giocare con altri come me.
Allora non avrei avuto la rabbia a spingermi in alto, non avrei cacciato i miei pensieri perché non mi seguissero (pensieri pallosi, per lo più), non avrei avuto la voglia di ululare e ringhiare verso l’alto che ho ora.
Magari sto diventando qualcosa di diverso ancora rispetto a tutto quello che sono stato finora. Tremo all’eccitazione che questo pensiero mi provoca. Gioisco all’idea di un Rafael solitario e feroce che si aggira in un mondo di ignavi inconsapevoli, dediti alla sciocca ossessiva pratica del divertimento socialmente appagante, che vivono inconsistenti vite di relazione con altri simili a loro e per i quali la notte vuol dire solo luce e rumore. Kurtz, tu solo sai lo schifo che provo. Kurtz, tu solo sai quanto sono forte, qui fuori da solo.
Kurtz, questa sarà un’estate indiana.

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