venerdì 31 luglio 2009

hate

Sogno di camminare in una città deserta, accompagnato da rock sparato ad altissimo volume, mentre intorno a me esplodono macchine e palazzi.
BUM, il supermercato salta in una palla di fuoco purificatore, BUM, il palazzo dove sta il commercialista, il condominio borghese dove non si può giocare a pallone e dove i cani non possono entrare, la gastronomia che ti fa pagare otto euro 100 gr di formaggio ai frutti di bosco.
sogno il caos primordiale del nulla sociale, l'assenza di convenzioni, leggi, limiti estrinseci.
Sogno l'annientamento dei parassiti, dei ricchi figli di papa nullafacenti, dei discotecari culturalmente vuoti, delle fighette troppo oche, delle sciampiste insignificanti e del codazzo di terroni montati privi di intelletto che le circondano sbavando sullo scollo provocante.
sogno la sparizione della categoria delle imprenditrici di se stesse, che per 3 ore di lavoro settimanale percepiscono stipendi mensili di 2.000 sporchi e fottuti euro, oltre auto e telefono, degli imprenditori che fanno 8 settimane di ferie l'anno ma che ti negano la tua unica settimana perché "c'è da lavorare", ma loro intanto sono al mare.
voglio che spariscano i notai, i commercialisti, i geometri e gli agenti immobiliari, ladri fottuti.
che muoiano infine quelli che vanno in giro con macchine che costano quanto un appartamento, comprate da padri troppo ricchi per capire qualcosa del mondo, e con loro quelle sciocche mignotte che si congratulano per l'acquisto come se avessero conseguito un titolo di studio o se avessero sudato anche solo per 10 centesimi del prezzo pagato.
Invidioso? no, non voglio quello che hanno loro, voglio che loro spariscano per sempre, inghiottiti dalla ragione, dall'altruismo e dalla comprensione.
fanculo a loro, pezzenti morali, privi di cognizione.
fanculo a voi splendide creature che vivete nell'illusione del divertimento forzoso, tirando le 5 tutte le sere per non pensare e riempirvi di vita, che vi fate ammirare per ciò che non siete e che cercate ciò che non volete,
fanculo anche a te, che ti fai beffe di ciò che provo, che ti fingi ignara e mi ignori persa dietro ad utupie personali vivendo una vita non tua,
e fanculo a te, Rafael, figlio di puttana, che predichi giustizia e ti scagli contro i forti, che ti immagini puro, ultimo cavaliere del cazzo e poi usi la tua misera intelligenza per umiliare pubblicamente chi non si accorge neanche che lo stai facendo.
tu, che baratti la fiducia di un semplice con la popolarità della massa ingorda, che scambi le risate di chi ti sta intorno per ovazioni e che fai tutto questo calpestando chi ha commesso il solo crimine di non essere all'altezza dei tuoi scherzi crudeli.
'fanculo Rafael, che le porte dell'inferno si spalanchino anche per te.

lunedì 27 luglio 2009

The Indian Summer

È notte ed esco a caccia.
Sono secoli che non lo faccio. Salgo per la strada, con il vento alle spalle. I lampioni della statale su in alto mi impediscono di vedere le stelle.
Ancora per poco, penso dentro di me. Accelero il passo. Mentre cammino veloce e silenzioso la mia mente è divisa. Una parte è viva ed è assalita dalla vita. Sento il profumo del bosco, la terra, lo scricchiolio leggero dei miei stivali (li ho preferiti agli scarponi perché magari mi risparmio le caviglie dai rovi che ultimamente non perdono occasione di flagellarle), il vento e altre mille sensazioni familiari.
Un’altra parte invece è immersa nei ricordi istintivi che camminare nei boschi da solo la notte fa affiorare.
Sorrido. Un’altra parte del mio passato di cui mi riapproprio.
Arrivato abbastanza in alto abbandono la strada e mi infilo nel bosco. La salita naturalmente è ripida, ma procedo rapido, quasi senza fatica. Mi piace scoprirmi allenato nonostante gli ultimi anni di nulla assoluto. Gli anni che ho impiegato per diventare “intelligente” mi hanno reso molle.
Avrei dovuto capirlo prima. Il rinnovato interesse per i viaggi, le uscite a piedi, lunghe ed appaganti su sentieri un tempo così familiari. La bicicletta, i progetti folli e, da ultimo, le arrampicate esaltanti e pericolose di domenica sono indizi chiari non posso più ignorarli.
Così come non ignoro cosa si nasconde dietro il mio rifiuto di unirmi agli altri nelle uscite serali.
Finalmente la statale scompare, oramai è buia ed indistinguibile, sono in alto abbastanza da rendere quasi ininfluente il bagliore dei lampioni del paese. Le case sono tutte buie da ore.
Il cielo è terso, le stelle finalmente si vedono. Non c’è la luna. Forse è già tramontata o forse è tempo di luna nuova. Un tempo lo avrei saputo senza bisogno di pensarci. Pazienza, tornerà anche quello.
Mi chino a spostare una pianta per vedere se sono su un sentiero o si tratta di una semplice pista di animali. Compiaciuto mi rendo conto che vedo ancora bene al buio, come è sempre stato. Spesso ho usato questo giochetto per fare colpo sugli altri, ma ancora più spesso l’ho usato per me. Da che mi ricordi non ho mai avuto bisogno di torce per camminare di notte.
Scollino e mi siedo, rivolto verso la montagna. Sono sudato in viso, addosso invece la camicia ha già asciugato tutto. Fa quasi freddo. Mi rilasso e seguo la linea dei monti che si stagliano contro il cielo chiaro. La notte mi entra dentro poco alla volta. Vorrei descrivere tutte le sensazioni, dalla consapevolezza dei piccoli sassi e della radice su cui sono seduto fino al calore che sento nelle mani. Ma è inutile. Chiudo gli occhi e lascio andare i pensieri, sperando che prima o poi decidano di tornare spontaneamente.
Sento improvviso un rumore. Avanti sulla destra. Un animale. La mia testa già lavora per conto suo. Sa già quanto è grosso, in che direzione (probabilmente) sta andando. Sul tipo di animale invece mi occorre un attimo in più. Per prima cosa penso ad una volpe. Potrebbe essere, ma era troppo veloce. Un gatto no, troppo lontano dalle case, e poi si sarebbe avvicinato a meno che non avesse una preda. Un topo, no, troppo piccolo. Un uccello non era, aveva quattro zampe, perché ad un certo punto ha saltato qualcosa. Non rimangono che lepri e conigli. Anche se alla fine, tutto sommato, anche l’idea della volpe riacquista consistenza. Non ho comunque intenzione di andargli dietro, quindi lascio andare la questione e penso.
Penso che forse non è esatto dire che sto tornando quello di una volta. Allora non sarei uscito senza la borraccia ed il coltello. Allora avrei camminato per raggiungere una meta, fissata in precedenza, oppure per fare qualcosa, fosse anche solo per esplorare o per giocare con altri come me.
Allora non avrei avuto la rabbia a spingermi in alto, non avrei cacciato i miei pensieri perché non mi seguissero (pensieri pallosi, per lo più), non avrei avuto la voglia di ululare e ringhiare verso l’alto che ho ora.
Magari sto diventando qualcosa di diverso ancora rispetto a tutto quello che sono stato finora. Tremo all’eccitazione che questo pensiero mi provoca. Gioisco all’idea di un Rafael solitario e feroce che si aggira in un mondo di ignavi inconsapevoli, dediti alla sciocca ossessiva pratica del divertimento socialmente appagante, che vivono inconsistenti vite di relazione con altri simili a loro e per i quali la notte vuol dire solo luce e rumore. Kurtz, tu solo sai lo schifo che provo. Kurtz, tu solo sai quanto sono forte, qui fuori da solo.
Kurtz, questa sarà un’estate indiana.

venerdì 17 luglio 2009

Kindness

Caldo e zanzare quest’oggi. Tanto per condire una giornata di struggente merdosità.
Tutto va in malora, ma porcoddio, solo a me?
Sono qua stretto nei miei confini pensando a cosa voglio fare della mia vita. La voglia di fuggire è tentatrice. Lascio tutto, vado, non so dove, semplicemente… parto.
Piacerebbe fosse così, ultima analisi di un bilancio non piacevole o primo anelito del giorno dopo domani?
Chissà se ancora riesco.
Vorrei. Tanto.
Vorrei tanto che di me si dicesse:
è cresciuto, liebchen
si è fatto strada
è andato ovunque
ha visto molto
ha imparato
ha conosciuto
ha saputo
per me e per altri
ha passato il peggio, ma ce l’ha fatta
non si è arreso
ha lottato sempre
ha guardato più lontano
ha urlato più forte
non si è annoiato
non ha mai voluto essere secondo
si è sempre messo dopo gli ultimi
ha servito
ha portato molti pesi
non ne ha lasciato cadere neppure uno
non ha lasciato indietro nessuno
ha camminato a fianco di molti
Il c’est ne pa ici
Sorrideva ad occhi chiusi
He is dead alive
R. è felice
‘fanculo.

mercoledì 15 luglio 2009

Brand Guerrilla: Enjoy, Think positive and just do it.


In questi ultimi tempi guardo molto la TV (un esempio ne è il fatto che un tempo la sigla TV, mentalmente la leggevo “tivvu” ora la leggo “tiviii” con lo stesso gridolino, mentale, di Homer Simpson…).
Probabilmente è un segno di depressione, un tempo avrei giocato ai videogame o avrei letto. Ma queste sono attività, guardare la tiviii è una non attività, semplicemente. Ad un certo punto comunque il mio cervello ha iniziato (da solo, io ero contrario, io volevo solo un’altra birra) a suddividere mentalmente gli spot in due categorie: quelli permanenti e quelli volatili. I volatili sono quelli che non hanno un messaggio forte sotto, quelli che semplicemente ti offrono due fustini al prezzo di un rasoio di cui l’unica cosa difficile è scegliere il gusto del GPL di serie della tua vacanza che passerai a bere brioblùmipiacitù.
Tra questi, ben nascosti, ci sono gli spot permanenti, quelli caratterizzati sia da un brand che da un messaggio. Mi spiego meglio: l’uomo nella sua evoluzione sociale, filosofica e culturale ha elaborato dei concetti teleologicamente molto complessi (e a volte molto stupidi, pensate al sillogismo o alla tripartizione hegeliana della realtà ontologica). Da dieci anni a questa parte alcuni geniali pubblicitari se ne sono appropriati: il carpe diem caro ad orazio (e alla mia generazione, grazie all’attimo fuggente), è inscindibilmente associato alla Nike (just do it: non ci pensare, fallo, comprati le scarpe dai che non le facciamo più cucire ai bambini cinesi o terzomondisti in genere). La tolleranza, la multiculturalità razziale (o la cultura multirazziale, se preferite) sono principi collegati strettamente ai maglioni colorati (hanno anche fatto una rivista, indipendente, sull’argomento: COLORS. Leggetela anzi, visto che è fatta al 95% da immagini, guardatela, merita). La tradizione familiare è barilla, lo style e l’eleganza si esprimono usando un computer sostanzialmente non compatibile che con se stesso, disponibile sono in toni di bianco o di nero, ma con una mela morsicata sul davanti. Nietzsche ha ceduto il suo concetto cardine alla Lacoste, che ci invita a diventare ciò che siamo, con un coccodrillo sulla polo. Se ci piace è Coca Cola (Enjoy!), se invece lo ami semplicemente è McDonald (I’m loving it, perdio!).
La cosa interessante culturalmente è come i brand di punta della nostra società (globale, of curse) stiano assumendo significati spirituali. Non ci invitano a comprare la loro merce. Ci chiamano a vivere secondo lo stile, il principio nazionalpopolarfilosofico cui si sono (auto)associati e di conseguenza, a comprare la loro merce che rispecchia il concetto/stato d’animo cui hanno deciso che dobbiamo aspirare.
Nella sostanza la cosa non è male. In se per se tutti i concetti propugnati sono essenzialmente positivi, migliorativi e superficialmente profondi (ossimoro, ossimoro, ossimoro, avevi promesso di non farlo più, cazzone!). il problema semmai è che, appunto, nella loro apparente profondità, sono piatti e superficiali.
Se il principio cardine della poetica di Orazio diviene uno slogan la massa lo utilizza come tale. Una specie di ritornello filosoficamente orecchiabile. Nessuno riflette realmente sull’invito a vivere la vita prima che questa sfugga irrimediabilmente (e non è certo colpa della Nike, magari è solo perché riflettere in generale è noioso e deprimente…). Comunque sia la cultura di massa se ne appropria come principio socialmente corretto, traghettando al contempo anche il brand, che magari qualche peccatuccio di sfruttamento terzomondista lo avrebbe, tra i politically correct o meglio tra i socially approved.
È pericoloso tutto questo? No, la consapevolezza ci protegge dall’omologazione. Almeno alcuni.

Questa transizione è recente, molto recente. Riflettete su quand’è che avete sentito per la prima volta l’invito Enjoy (2000), just do it (1998?)I’m loving it (2002/3?). la cultura della massa, che alla fine dell’ottocento aleggiava intorno ad astratti principi filosofici (lo stesso proletariato che diviene consapevole di essere tale grazie ad un borghesuccio mantenuto), fino a metà del novecento si costruiva intorno a principi socio-politici ambiziosi (socialismo, nazionalsocialismo, fascismo, liberismo, imperialismo) negli anni cinquanta-ottanta si sta forgiava intorno alla televisione (il mass-media per eccellenza).
Oggi, che da cultura dei mass media siamo passati ad una cultura multimediale (che non vuol dire cultura dei computer, come sperano di farci intendere da mediaworld), ovvero ad una cultura che si basa su molteplici ed eterogenee fonti: la radio, l’arte di strada, la comunicazione visiva, pubblicitaria in primis, la stereo tipizzazione della cultura classica.
Ascoltate radio deejay ad esempio. Sono fantastici, li conosciamo per nome, sappiamo cosa fanno, lo sport che prediligono, la musica che piace ad ognuno di loro… e non ci accorgiamo che NESSUNO di loro usa i congiuntivi quando parla. Normale direte. Si, sarebbe normale se fossero due ragazzini che parlano su un treno. Ma per radio diffondono cultura (scusate, la “c” la tengo minuscola, non vogliatemene), se loro usassero i congiuntivi, forse inizierebbero ad usarli anche i ragazzini sul treno. Lo stesso dicasi per la stereo tipizzazione della cultura classica. Siamo erroneamente convinti che chi legge molto è, per la nota proprietà transitiva del sapere cartaceo: colto.
e invece... credo vada chiarito come ci sia una sostanziale differenza di valore in quello che si legge: Ken Follet, Stephen King, Baricco, Benni, intrattengono, non fanno cultura. Sartre, Camus, Camilleri, Pratolini, Forster Wallace invece trasmettono pensiero, idee e contenuti, quindi sono cultura. Allo stesso modo di come le ricette di suor germana non sono cultura (oppure si? Forse forse…) mentre un saggio di filosofia classica di Canfora o di linguistica di Chomsky lo sono. (personalmente quindi non mi considero granché acculturato...).
in conclusione a questo post eterno (e probabilmente noioso, ma che volete farci, è il mio blog, decido io...) fottetevene della cultura associata ai jeans di marca e sceglieteli per quello che sono: un simbolo di appartenenza sociale. Sono il nostro burka e ne siamo orgogliosi. Almeno fino alla prossima stagione.

giovedì 2 luglio 2009

Aspects of an Undetermined Life

Aspetti della mia vita ignoti ai più.
E immagino che se sono ignoti, ci deve essere sicuramente un’ottima ragione.
Ci sono aspetti estemporanei, tipo che stasera la luna ha un lampione accanto. Intendo proprio accanto, alla stessa altezza esatta. Sopra gli alberi, si tengono compagnia, o magari si stanno sul culo vicendevolmente. Stasera sono in vena romantico riflessiva e sulla cosa potrei scriverci una storia, alla Saint Exupéry. Ma poiché ritengo che cosa sia blasfema preferisco parlarvi d’altro. (ah, sulla mia scelta stilistica di iniziare le frase con una congiunzione, una parentesi o con qualsiasi cosa mi vada dopo il punto ho già parlato, ve ne ricordate vero?).
Tipo il fatto che un’anatra morta si sta decomponendo da mesi di fronte alla mia finestra.
E non posso farci nulla. È lì, urla il suo memento mori in maniera più allegra di quanto fece savonarola. È apparsa un giorno immobile sul biancore del tetto dei garage, 4 o 5 metri oltre la portata della mia mano. Senza farsi notare ha attirato la mia attenzione e i miei vacui e ritorti pensieri mattutini. Se ne sta li, semplicemente, per i fatti suoi. Se non altro ha smesso di puzzare. Però si decompone inesorabile.
All’inizio la guardavo e pensavo a come toglierla di li. Poi ho smesso di pensare a toglierla, ho iniziato ad osservarla. Ad aprile le penne si sollevavano quando soffiava il vento, come un ciuffo ribelle sulla fronte di un ragazzino che corre (ancora quelle dannate foto. Devo smetterla di pensarci!). poi ha iniziato a ripiegarsi su se stessa, come un pallone da calcio di plastica che si sgonfia piano piano. Le penne non si alzano più, immagino che siano incollate ben benino da qualsiasi cosa stia imputridendo la sotto.
Non so cosa le sia preso per decidere di morire davanti alla mia finestra. Effettivamente se io fossi un’anatra non so dove mi piacerebbe morire (probabilmente alle anatre non piace morire in generale, ma tant’è…). Se fosse rimasta a morire sul fiume sarebbe affondata, magari avrebbe assistito impotente al rush finale tra la morte che l’ha colta e l’annegamento, stupendosi in ultimo del vincitore (l’annegamento probably). Se fosse morta sui sassi sarebbe stata semplicemente lavata via dalla pioggia che ingrossa periodicamente il fiume. Se fosse morta dalla parte di qua o di la della riva, ci avrebbero pensato i gatti. Non il gatto mucca, troppo fifone, né il certosino ficcanaso, troppo preso di se per abbassarsi a mangiare un cadavere anche se di anatra. Probabilmente l’onore sarebbe toccato al timido e modesto tigrato, il mio preferito, che ha l’aria di fare quello che gli pare stupendosi poi di averlo fatto.
Se fosse morta sul muretto ci avrebbe pensato la mia vicina impicciona (non a mangiarla idioti, a spazzarla via). Invece scegliendo di morire davanti alla mia finestra si è consegnata alla durevole memoria umana. Si sta decomponendo al sole, alla pioggia, al vento, lontana dai predatori, dai vermi, dagli scarafaggi, dai ragazzini rompicoglioni, dalle vicine, dai padri di famiglia zelanti (effettivamente l’idea di avere un’anatra morta condominiale deve contrastare alquanto con la loro idea di decoro). È un anatra rivoluzionaria, si sta decomponendo ed in culo a tutti. Non so quanto impiegherò a dimenticare l’anatra morta. Un anno o forse dieci (ehm… dimenticavo, non ci arriverò tanto in la’…). Magari anche chi legge la storia dell’Anatrachesidecomponeva la ricorderà, per un po’, almeno.