martedì 26 maggio 2009

Blut und Boden

Sangue e suolo.
È un vecchio principio nazista, stava ad indicare i due valori supremi per il Volk nazionalsocialista.
Sono passati 70 anni e siamo di nuovo qua. Il nostro mondo, inteso come quella parte di complesso sociale che riverbera i suoi effetti sulla nostra sfera individuale combatte di nuovo per questo arcaico principio, forse in assoluto il primo ad essere formulato dal pensiero sociale primitivo (Carl Schmitt sarebbe d’accordo con me, Chomsky forse no).
L’altro, l’estraneo, lo straniero (avete letto tutti Camus vero?), spinge per entrare nei confini del nostro mondo. che sbarchi a Lampedusa, si rivolti a Parigi o a Lione, stupri nei parchi, ci venda la droga per il nostro svago finesettimanale o ci derubi personalmente, Loro sono qui. Noi questo lo percepiamo attraverso i sensi, tutti e 6 (ultimamente ritengo che la TV, facendoci percepire accadimenti, sensazioni e paure a noi lontane come nostre proprie sia divenuta uno dei nostri sensi, il sesto). Ecco dunque che l’uomo nero arriva. E noi non possiamo far altro che difenderci.
Lo facciamo ricorrendo ad un altro istinto arcaico. L’affidamento di massa. Ci affidiamo all’alto, allo stato/europa/polizia perché tuteli i nostri beni, alla chiesa/volontariato/carità perché tuteli la nostra ipocrisia. Le risposte a questa invasione (lo è, credetemi, stanno arrivando davvero, come sono arrivati gli unni, i vandali, i germani, i longobardi etc etc, quasi per gli stessi motivi di allora, tra l’altro), noi le percepiamo e basta. Per il resto non agiamo minimamente. In prima persona noi non ci difendiamo, non accogliamo non aiutiamo. Personalmente non ci muoviamo né in un senso né nell’altro. Ci limitiamo ad approvare o disapprovare la politica governativa attuale (o meglio, quello che la TV ci trasmette della politica governativa) a seconda del nostro colore politico. Non perdiamo neppure tempo ad interrogarci sulla portata di alcune decisioni politiche, ci limitiamo ad un sillogismo neopolitico tipicamente itagliese: sei di sinistra: lo fa Berlusconi, quindi è sbagliato, sei di destra: lo fa Berlusconi quindi è giusto. Non mi stancherò mai di dire che Aristotele dovrebbero eliminarlo dalle nostre scuole insieme all’educazione civica (serve a un cazzo) e al Manzoni (ma a chi cazzo frega di Renzo e Lucia. Tra l’altro, in che edizione del Grande Fratello erano questi? La 4a mi pare?).
Comunque torniamo a loro quei fetenti puzzoni amanti delle gite in barca che riempiono le nostre strade e la nostra indignazione: immigrati, zingari, albanesi, rumeni (ma chi cazzo li ha fatti entrare in europa questi trogloditi?), negri, pakistani, cingalesi, filippini (eh no cazzo, i filippini no, altrimenti chi riassesta casa alla liberal chic che pretende di essere pure di sinistra?) ecc. ecc.
Cosa facciamo con Loro? Effettivamente siamo in balia Loro: il 75% dei reati viene commesso da Loro, che sono meno del 10% della popolazione. Wow, ma allora basta eliminarli e tagliamo la criminalità di tre quarti (c’eri già arrivato da solo eh? minchia, dovrebbero farti ministro...).
Ho letto che un rumeno ha fatto una rapina in un ufficio postale, gremito di gente, con un taglierino in mano. Ora, perché non hanno reagito? Perché non hanno preso una sedia, un palo divisorio, le loro stesse mani e in 15 non l’hanno finito a calci e pugni? Avevano paura.
Cammino per strada e vedo che la reazione tipica di chi viene avvicinato da un ambulante, che venda accendini o rose è lo stesso, è di ignorarli. Ignoriamo le persone che ci chiedono di acquistare qualcosa. Non ci parliamo mai. Eppure non ci derubano, ci vogliono vendere qualcosa. Noi li ignoriamo e basta. Abbiamo paura.
Io personalmente dopo un paio di sere così baratterei le rose per il taglierino, non so voi.
Forse dovremmo semplicemente iniziare a reagire. A vederli. Tutti, i cattivi, tanti, i buoni, che sono sicuramente di più. Reagire alla loro presenza nel bene e nel male e farlo fino in fondo.
Forse davvero potremmo cambiare alcune dinamiche sociali del nostro “mondo”.
Ma non servirebbe a molto comunque. Loro vinceranno. Loro sono talmente disperati che lasciano tutto, attraversano il deserto a piedi e arrivano qui a mangiare la nostra merda. Loro si fanno saltare in aria per i loro ideali. Noi per i nostri al massimo cambiamo canale.
Loro non hanno paura, o meglio, ne hanno e molta, ma di cose diverse.
Loro vinceranno. E probabilmente è giusto così.
In culo alla politica.

venerdì 22 maggio 2009

Rage I

Post un po' politico, un po' filosofico, sicuramente lungo e noioso. non vale la pena leggerlo.
Rabbia. È l’unico sentimento che ci possiamo permettere, noi pochi infelici disadattati. Siamo nati in un mondo che ci va stretto, di cui, sostanzialmente, non capiamo le dinamiche ed i meccanismi.
La gente che ci circonda ci paiono teatranti ignavi, legati a particine sterili, miriadi di comprimari scialbi.
Un tempo lottavamo per la sopravvivenza. L’uomo era una razza determinata. Si lottava giorno dopo giorno e ogni primevo tramonto cui i nostri antenati si affacciavano era una vittoria.
Poi lottavamo per espandere i nostri confini, per sopravvivere meglio, perché la nostra comunitas fosse più ricca e potente di quella vicina. Ci siamo evoluti e la lotta ha iniziato a perdere il suo significato primitivo. La sopravvivenza in gioco ora non è quella dell’individuo ma quello della realtà sociale in cui eravamo immersi. La guerra divenne elemento preponderante del nostro essere quotidiano.
Poi, nel medioevo, la lotta si scisse in miriadi di sfaccettature, tutte espressione dello stesso concetto: lo scontro.
Da una parte lo scontro di masse, popoli migranti contro gli autoctoni, barbaros contro poleicos, barbarorum contro cives, poi barbari contro barbari: unni, vandali, germani, poi visigoti, ostrogoti, longobardi, rus, sassoni e franchi. Poi ancora vichinghi, mori e turcomanni, infine kazachi, mongoli e tartari.
Dall’altra scontri locali, altrettanto cruenti: comune contro comune, feudo contro feudo, signore contro signore.
Infine apparve anche lo scontro individuale, per i principii: cavaliere contro cavaliere, eroi contro potenti, san Giorgio contro il Drago.
Anche allora l’Uomo lottava e ogni sera, dopo la battaglia, l’Uomo era sazio.
Passano i secoli, cambiano gli ideali, ma la lotta rimane, sempre più estesa, sempre più organizzata.
Anche la lotta individuale rimane quale sfogo concreto della pulsione recondita all’omicidio, alla distruzione alla necessità di sopravvivere intesa nel senso estrinseco, sopravvivere a qualcun altro.
L’ultimo secolo infine è stata l’apoteosi della lotta, il carnaio disumano della Grande Guerra, dove la lotta viene privata anche dei suoi valori di facciata, della morale propria di ogni fazione. Lo scontro è tutti contro tutti, fino alla fine. Si combatte con i fucili, con le baionette, le bombe, le vanghe, i coltelli, i gas, le mani, i denti, i sassi. Si combatte nel fango per sopravvivere al giorno, come millenni prima.
In ogni combattimento la rabbia ti porta avanti, finché ce n’è. Quando questa finisce, ti svuoti e muori.
Poi arriva la seconda guerra mondiale, la guerra giusta per tutti.
Era giusta per i tedeschi, che portavano scritto sui cinturoni le parole Got mit Uns e, probabilemente ci credevano.
Giusta per i francesi, i polacchi e gli olandesi, che erano stati aggrediti e che, naturalmente, scordavano che appena 20 anni prima hanno vessato fino alla fame l’odierno aggressore. Era giusta per i sovietici, che inalberavano il loro rosso vessillo per la grande guerra patriottica di liberazione. Stalin, con i suoi venti milioni di morti purgati dal suo regime passa per un liberatore, quasi un bonaccione nei confronti di Hitler, lo sterminatore del popolo di Davide.
Era una guerra giusta per i giapponesi, che allargavano il loro spazio di influenza nel nome del loro arcaico imperatore-dio. Lo era per i finlandesi, che combattevano contro i sovietici che tentavano da anni di sovietizzarli, per gli ungheresi ed i rumeni, più o meno per gli stessi motivi.
Naturalmente lo era anche per i mitici soldati statunitensi ed inglesi, che sono sempre dalla parte del giusto, in ogni caso e circostanza. Lo hanno pure scritto sulla loro cazzo di costituzione.
Era una guerra giusta per i cinesi che si liberavano dal giogo di altri cinesi nel nome di un contadino ignorante e fanatico dalla pettinatura ridicola.
Era una guerra giusta anche per il Brasile, anche se nessuno ha mai capito perché…
Infine era giusta anche per noi italiani, anche se abbiamo combattuto prima da una parte e poi, quando ci ha fatto comodo (oops, volevo dire quando ci siamo liberati del pelatone, cattivone), siamo diventati tutti partigiani.
Comunque sia abbiamo lottato, e tanto. Dopo abbiamo ricostruito.
I nostri genitori? Loro avevano lotte ideologiche, il ’68, le lotte per i diritti civili, aborto e divorzio in testa. Poi il rock’n’roll, il sesso libero e sfrenato (in realtà rispetto alle 16enni di oggi erano tutte educande, ma non lo ammettono), il Vietnam, la droga come stato della mente.
Anche li la rabbia veniva ben utilizzata.
Oggi invece? Per cosa cazzo combattiamo oggi? Per i soldi e per le donne. Sono le uniche cose che ci premono. E la rabbia ribolle dentro, senza possibilità di sfogo alcuno. Ci hanno levato la guerra e ci hanno dato il calcio. Non esiste più lo scontro individuale, ora al massimo abbiamo il televoto. La sera non siamo mai completi. Dateci, vi prego, una scusa per poter uccidere il nostro prossimo. Una qualsiasi, ne ho bisogno.

mercoledì 20 maggio 2009

Fears and Escapes in the sadness of a late spring night


Paura. Sono attanagliato dalle paure più assurde.
La notte spesso mi sveglio reduce da spaventosi incubi… inconsistenti come pallidi fantasmi orgiastici, ebbri di fantasie astruse.
Nelle mie paure non temo mai per me o per la mia incolumità, anzi quegli incubi dove alla fine trapasso, mi danno sollievo. Perché con il mio provvidenziale decesso l’incubo finisce e non continua come altri. Eh già, perché gli incubi li ho anche a puntate. Nel senso che mi sveglio da un incubo, magari in un'altra stanza rispetto a dove mi ero addormentato, a me capita, mi calmo, magari torno a letto, leggo un po’ e, mezz’ora dopo, appena mi riaddormento, ecco che riprendo l’incubo esattamente dal punto dove l’avevo lasciato. Sono incubi gentili, mi aspettano.
Sogno di tutto, i miei gatti, tutti quelli che ho avuto e che sono morti, e sono sogni tristi. Sogno della mia ex, sogno che ora stia con uno dei miei migliori amici, ed è un sogno disperato (quando ti sottraggono anche gli amici, vuol dire che è stato un divorzio pessimo e che dovresti cambiare avvocato…). A volte sogno di uccidere altri, che conosco o che ancora non conosco… li uccido al termine di una lotta barbara, primitiva, in cui incasso molti colpi, spesso vengo ferito da armi bianche, che mi terrorizzano, ma poi uccido il mio avversario. Fin qui è un sogno normalissimo. Il fatto è che lo uccido in modo catartico. Con le mani, con i denti, non uso mai armi. L’ultima volta ho ucciso uno strappandogli la trachea a morsi. Ho sentito perfino il sapore del sangue, non potete immaginare la sensazione che si prova ad avere la vita di un’altra persona, che odi, tra i denti ed in effetti mi ero morso il labbro a sangue. Questi sinceramente sono sogni che generalmente apprezzo, liberatori. Di questi sogni mi spaventa solo il fatto che prima o poi lo farò davvero. ucciderò qualcuno a morsi. Quindi siete avvertiti, non fatemi incazzare.
Sogno, stereotipo notturno classico, che un pericolo incombe, spesso non riesco a vederlo o a capirlo, ma so che c’è, lo sento dentro. Sento che devo fuggire, ma non ce la faccio. Le gambe non mi rispondono, le braccia neppure, mi sento soffocare ma sono lucido e attento. Vedo tutto e penso che potrei arrivare a pisciarmi a letto. Se solo fossi ancora a letto, naturalmente.
Questi sono i sogni mi fanno fuggire (ah, la fuga, quanto adoro la fuga come soluzione ai problemi della vita, ma ne parlerò un’altra volta) (ehi, l’ultima frase funziona anche se sostituite la “u” con la “i”…). dicevo che questi sogni terrificanti mi fanno fuggire, letteralmente. Scappo, corro, urlo, mi impiglio nei lenzuoli, sbatto contro le porte, mi perdo dentro l’attaccapanni e alla fine mi sveglio. Da qualche altra parte.
Ma i sogni più terribili sono altri, sono quelli come quello di questa notte. Sono quelli dove sogno Lei. Dove sogno di sfiorarla, di baciarla, di stringerla. In sogno sono felice, finalmente. Vorrei che non finisse mai e non mi rendo conto di stare solo sognando. Non c’è rabbia in quei sogni, solo amore. Sono sogni bellissimi. Ma dolorosissimi.
Alla fine infatti mi sveglio e in un attimo mi rendo conto di aver solo sognato. e rimango pieno di amarezza per giorni. Non posso nemmeno scappare, perché il sogno mi ha regalato l’illusione della realtà e da essa non c’è fuga non c’è liberazione. Non posso strappare la trachea alla realtà.

giovedì 14 maggio 2009

unrecoverable choises

post programmatico privo di interesse e di senso compiuto, solo per ricordare a me stesso che non durerà ancora a lungo.
sapete, è esistito un conte polacco, un tal Potocki, grande viaggiatore, uomo di cultura eccezionale, scrittore la cui opera, dopo 200 anni, è ancora ricca di contenuti moderni.
ma non è della sua opera che parlerò, ma di un episodio su cui rifletto da anni.
Bene, il conte di Potocki, ad un certo punto della sua vita, stacco il pomello della sua teiera d'argento, a forma di fragola.
Con una lima, delicatamente, iniziò ad arrotondarne le forme. pochi colpi di lima al giorno, un giorno dopo l'altro. per anni.
i suoi familiari naturalmente gli chiedevano ragione del suo quantomeno singolare hobby. Lui semplicemente non rispondeva.
con costanza limò la fragola d'argento fino a farne una sfera perfetta. a quel punto rimirò il suo lavoro, immagino anche con una certa soddisfazione, caricò la sua pistola utilizzando la sfera d'argento come proiettile e si sparò. semplicemente.
Un pazzo? non penso. credo anzi ci voglia una lucidà estrema per applicarsi costantemente ad un progetto di tanto lunga durata. un depresso? può darsi, ma se lo era davvero, avrebbe trovato un modo molto più semplice, e veloce, per farla finita. invece no, ha scelto di metterci anni, di applicarsi con costanza alla sua dipartita.
e sapete una cosa? io quando penso a lui sorrido. mi immagino la sua soddisfazione quando ad ogni domanda, ad ogni sofferenza, ai momenti no, lui rispondeva con un colpo di lima. quando la gente gli chiedeva cosa facesse lui probabilmente sorrideva e rispondeva "niente". come farei io.
ecco, quello non era un gesto di disperazione, ma di consolazione. per anni, il conte Jan Potocki, è vissuto con la consapevolezza che, qualsiasi cosa accadesse, lui già sapeva come sarebbe finito e quanto mancava. ed era una sua scelta. io lo ammiro e non mi stanco di sorridere, pensando a lui e oramai sono anni che lo faccio. peccato che non usino più le teiere con i pomelli a forma di fragola.
R.

lunedì 11 maggio 2009

Deeply sunken hours and the unpredictable projects…


È sparita la luna,
Le pleiadi. Notte
Alta.
L’ora del tempo varca.
Ed io dormo
sola.

È singolare, ma la poesia che più mi rappresenta in questo periodo è stata scritta da una donna più di 2500 anni fa. Coglie, credo, l’essenza di quei momenti di solitudine notturna, quando è troppo tardi per dormire e troppo presto per alzarsi, in cui i tuoi pensieri si attorcigliano su se stessi e tu ti autopensi. Cartesio era un dilettante in confronto ad un qualsiasi erratico non dormiente moderno. Tipo me, per esempio.
Non dormo, ma non è una novità di oggi. È di oggi invece il pensiero di come spesso la nostra testa viaggi qualche mese nel futuro, a dispetto di noi e, soprattutto degli altri.
Ho sempre pensato che fare progetti strampalati fosse per me l’alternativa alla noia quotidiana di cercare di essere quello che dovrei, ma che non sono sicuro di voler essere. Va avanti così da anni. Cambiano solo i protagonisti passivi, le mete, i mezzi. Il resto rimane invariato: Io.
Prendiamo due esempi catastroficamente distanti fra loro: l’amore e le vacanze.
In entrambi i casi mi pare di spiccare voli omerici, sorretto da ali di cera, con la somma incertezza se alla fine mi scoprirò Deadalus o Icarus. Arriverò a destinazione o cadrò perché oso troppo?
L’obiettivo è sempre un passo troppo in là. Lo scelgo, inconsciamente, apposta. Odio la mediocrità di ciò che faccio (Ok, ok, l’ho già scritto… sono noioso e ripetitivo, ve l’avevo detto di smettere di leggere e di seguire il link in fondo alla pagina), ma quando sogno, progetto, mi innamoro… volo molto alto.
Quindi ogni volta eccomi pronto a gettarmi a copofitto in imprese fantastiche, avventurose, intense e potenzialmente molto, molto pericolose. Soprattutto per me.
Viaggiare fa parte di me, sono cresciuto viaggiando. Anche letterariamente. I miei autori preferiti di quando avevo 12 anni scrivevano di viaggi fantastici ed avventurosi (Jack London, Jules Verne, J.R.R. Tolkien).
A 18 anni leggevo di altri viaggi,più maturi e impegnati (J. Kerouac, il Che, B. Chatwin). A 25, complice la scoperta che con lo zaino e a piedi si va davvero dappertutto, ero tornato all’avventura classica (J. Conrad, Steinbeck). A 30 ecco che rispunta la filosofia del viaggio come ricerca interiore: Junger, Langerdorff, Malraux, Hopkirk.
Oggi guardo i Simpson.
La stessa escalation l’hanno avuta i viaggi: ho iniziato a viaggiare da solo (o almeno con gente che non conoscevo prima) a 13 anni, quando i miei hanno deciso che ero grande a sufficienza per andare a Londra da solo a studiare l’inglese. Avevano ragione, naturalmente, anche se di inglese non imparai nulla.
A 16 ero di nuovo lassù, anche a 17 e 18 anni. Amo Londra, amo l’Inghilterra.
Poi ho iniziato a girellare l’Europa. Un po’ a caso ed in modo assurdo. Per aver compiuto il mio dovere di studente ed essermi maturato ufficialmente ho vinto un mesetto a Budapest, in un appartamento preso in affitto (in realtà era subaffittato da dei ragazzi all’insaputa dai genitori di questi, che erano a loro volta in vacanza), con il mio amico Stefano. In quegli anni ho maturato anche la predilezione per i posti sfigati nei momenti sfigati: c’era la guerra in Jugoslavia? Io ero lì a fare il bravo scout e ad aiutare i profughi (non ci fate caso, ero anche comunista). C’era la guerra in Albania? Eccomi, pronto, guidavo la jeep della P.A. che dall’aeroporto militare di Tirana portava i feriti ai vari ospedali, appena arrivavano freschi freschi con gli elicotteri militari (la Cinza è rimasta l’unica con cui condivido questo ricordo oramai decennale).
Anche la bicicletta ha sempre avuto un certo fascino per me. Su di essa sono arrivato a Budapest, anni dopo mi sono arrampicato sui passi alpini per raggiungere Salisburgo, partendo da Innsbruck.
Poi sono andato in treno fino a Praga, poi in Polonia poi ancora a Budapest, Vienna, Bratislava, Monaco.
Ho studiato mesi e mesi da a Friburgo, per re-imparare il tedesco perso nella mia infanzia, imparando al contempo una notevole dose di parole intime in Svedese, Norvegese e spagnolo. In quei mesi riuscivo a dire ti amo a 4 persone contemporaneamente in 4 lingue diverse. Chissà se poi davvero ci credevano come dicevano.
Anni dopo sono arrivato fino a Capo Nord, dove, il 18 di agosto, una tempesta di ghiaccio e neve ha abbattuto la mia tenda e mi ha costretto alla fuga notturna (e allo scontro con una cazzo di renna suicida ed incazzata, ma questa è un’altra storia). Tutto rigorosamente con i mezzi trovati sul posto. Pensate che abbiamo finito i soldi più o meno a metà della Norvegia. Abbiamo risparmiato fino all’eccesso, non mangiavamo quasi niente e dormivamo per terra nelle stazioni. Fino al momento in cui abbiamo scoperto che rubare nei supermercati norvegesi è facilissimo. Da li in poi…
Viaggi complicati? Forse.
Pensate che un anno ho deciso che volevo vedere il Perù. Sono stato via più di un mese, ho viaggiato sulla panamericana (la stessa che ha percorso il Chea suo tempo, ma in direzione opposta…), sono arrivato a Macchu Picchu… a piedi. Ci ho messo 4 giorni per arrivare fino lassù, giorni in cui camminavo 14 ore e crollavo morto le altre 10. Faceva caldo, avevo la peggiore dissenteria della mia vita (la diarrea ed i viaggi sono inseparabili, ricordatevelo). Ma sono arrivato e me lo ricorderò per sempre. Ricorderò per sempre anche che il 21 di agosto di quell’anno, verso sera, prima di crollare pensai che quello sarebbe stato per me il giorno più difficile della mia vita, ero sfinito, i miei compagni di viaggio stavano male, persino Marco aveva vomitato per la fatica e lo stress. Non credevo che avrei mai patito tanto di nuovo. Mi sbagliavo, il 21 agosto dell’anno dopo moriva mio padre per un cazzo di errore medico. Odio le coincidenze.
Poi sono andato in Africa. Ci tornai con Marco e con la mia ragazza di allora (che è stata la mia unica Fidanzata, finora). Sono partito da Dakar, in Senegal, abbiamo attraversato il paese, poi il Gambia, poi siamo andati a pescare con i pescatori di li ed ho imparato cosa vuole veramente dire Insch’Allah. Siamo risaliti verso il Mali e, abbiamo preso un treno fantastico, con la gente sul tetto e gli animali dentro. Fino a che un ponte crollato non ha costretto tutti i passeggeri a guadare il fiume con i bagagli sulla testa per poi riprendere il treno di là del ponte. Marco si è beccato qualcosa che pareva a tutti malaria ma che dopo un po’ è guarita. Siamo andati verso Timboctou, solo per scoprire che l’idiota di conducente che avevamo preso aveva voluto risparmiare sulle gomme. Fermi nel deserto per 11 ore, fino all’arrivo di una jeep di simil banditi, che poi sembra che invece fossero governativi. Mai chiarito del tutto. Intanto noi ci eravamo bevuti tutto il radiatore, mitigando il sapore di motore con l’aspira effervescente. Timboctou. Città magnifica, ogni volta che ci penso mi viene da piangere per la nostalgia. Mal d’Africa? Non lo so ma vi giuro che è lì che ora vorrei essere.
Poi il Burkina Faso, Ouagadogu, il Niger, Niamey ed una pletora di posti incredibili nel mezzo. Cattedrali fatte di fango, fiumi larghi, mangrovie, scorpioni, un varano di un metro e mezzo nel cesso mentre pisciavo. personaggi strani, compagni di viaggio improbabili.
Tutto questo è il mio viaggiare. Fatto di luoghi e di persone, ma soprattutto di compagni di viaggio. Li scelgo con cura e confeziono la meta del viaggio su di loro. Scelgo mete impegnative e persone interessanti. Tutto è sempre andato bene.
E finora ho sempre pensato che tutto sarebbe continuato così. Bastava scegliere una meta e andare, partire. Al massimo c’era da convincere gli indecisi. Di solito io organizzo e propongo e le persone mi seguono e arricchiscono il viaggio. Ho sempre pensato che tutto dipendeva da me e che ogni ostacolo potesse essere superato. Purché io lo volessi.
Oggi ho scoperto invece che ci sono cose più grandi di me. Cose contro cui non posso fare nulla. Battaglie che non si possono vincere, ma solo combattere.
Qualcuno mi ha detto qualcosa oggi. Ed il mio viaggio di quest’estate è andato in una zona di discussione.
Una voce beffarda dentro di me ripete: Insch’Allah, cazzone. E ride.
Vedete, ho passato l’ultima settimana a programmare, leggere, studiare mappe, pensare e sognare l’avventura estiva. Ed in tutti i miei pensieri eravamo almeno in tre. A volte potevamo essere quattro, o cinque o di più. Ma i tre di base c’erano sempre, non cambiavamo.
Oggi non siamo più tre ed io mi sono reso conto che così non è più lo stesso viaggio. Ha un sapore diverso. Un po’ amaro.
E non so che fare. Arrendermi o continuare a progettare? Ci sono davvero cose che non posso realizzare? Posso vincere il destino di qualcun altro anche solo per 15 giorni? Per la prima volta ho paura.
Ok, questo era il viaggio, direte, ma l’amore? Cosa c’entra?
È la stessa cosa. Le stesse difficoltà e, soprattutto, la stessa paura: che alla fine non dipenda da me. Che, per quanto io faccia, lotti, soffra, a lei non importi. Ed io non so se potrò farci nulla. Anche qui, per la prima volta, ho paura.

venerdì 8 maggio 2009

Immaterial stalactites

Quietoedimmotonondormo,solo
Inme zzoatu ttii dormi enti
Sen z’ani ma tasto ilm
io dolo re vivo eac
re com e ilp en
si ero di te che
ac ca n t om
i ig n o
r
i

giovedì 7 maggio 2009

The intimistic mediocrity of being

secondo post, in sottofondo 1979 degli smashing pumpkins. grande canzone per i momenti stonati.
dicevo: secondo post, primi dubbi.
come tutti i miei progetti mi sono lanciato in voli pindarici astrusi e prolifici, ma che necessitano costanza e dedizione, che sinceramente, non ho.
Pertanto...

Intimistica mediocrità. bel titolo, non c'è dubbio, i titoli e gli incipit sono il mio forte. ho scritto centinaia di incipit strepitosi, decine di romanzi eccelsi, da far scomparire Dave Eggers... peccato che nessuno di questi sia mai andato oltre pagina 3... e anche questo rientra nella mediocrità di cui sopra.
Mi rendo conto infatti quanto sia estremamente mediocre creare cose a mezzo, lasciar morire idee, diluire la propria originalità con la quotidianità, aspettare, lasciar maturare le cose.
vorrei non farlo mai. e naturalmente invece lo faccio sempre. (digressione: avete notato che la scrittura rende le pause espressive solo se si aggiunge una congiunzione minuscola dopo il punto. che stilisticamente fa molto Saramago).

Comunque non è per parlare di questo che scrivo oggi, ma per incalanare in un flusso decente quello che penso sul mio essere mediocre.
Tale è infatti il quadro che appare dopo un esame appena appena meno superficiale del mio me stesso. cosa che, per inciso, odio si faccia.
Sorrido all'idea che qualche stolto, in quel luogo di perdizione sensoriale dove mi reco ad espletare i miei bisogni sociali, addirittura mi imiti. o pensi, "fai un sacco di cose ganze" come qualcuno mi disse.
in realtà mi pare di dibattermi infinitamente in una rete che mi va stretta. faccio due lavori, nessuno dei quali mi riesce in maniera compiuta ma solo a tratti. il mestiere di pseudo avvocato dilettante poi... sembra, e non è solo un impressione, che persino l'usciere del tribunale sia più competente di me. opinione questa che, sono sicuro, il mio dominus sottoscriverebbe in pieno.
ho un sacco di interessi, è vero, ma mi annoio dopo pochissimo. dipingo, disegno, scrivo... ma odio rileggere o rivedere quanto ho fatto. non sono fiero di ciò che creo. per niente. mai.
parlo alcune lingue. ma nessuna in maniera perfetta. nemmeno l'italiano, probabilmente.
leggo molto, a volte sono orgoglioso del fatto che, se la media italiana è di 0,5 libri all'anno a testa, io leggo per altri 79 italiani circa. quando qualcuno viene a casa mia si complimenta per tutti i libri che ho negli scaffali. neanche fossero coppe sportive. be', se solo provassero a considerare una cosa: più della metà dei libri che ho letto nell'800 o fino a metà del 900 sarebbero stati considerati come "svago". non letteratura né, probabilmente, cultura.
quindi anche lì mediocrità.
Nella vita privata? indovinate un po'? yes sir, mediocrità spinta. ogni volta un grande amore a termine, con scadenza più o meno ravvicinata. ogni volta da capo e qualcosa che sfugge. ma di questo non parleremo.
in fondo quindi, esaminando il le cose che fanno di me quello che sono non posso che percepire l'intimistica mediocrità di essere. e non sono affatto sicuro che porti da qualche parte. per niente.

mercoledì 6 maggio 2009

intents and flawless imperfections

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