lunedì 27 settembre 2010

Le Petite Prince

Di tutti i viaggi che ho fatto, di uno in particolare ho ricordi molto contrastanti.

Il fatto è che non volevo partire. Ecco, per la verità non ho mai capito cosa ci sono finito a fare in Perù, io.

L’idea di andare in Perù non è stata neppure mia. Per la precisione è stata dell’ E.

E. che, chiariamolo subito, non era la mia ragazza. No, nulla del genere. Era quella a cui facevo i dispetti.

E così, quando mi confessò che andare in Perù era un suo sogno e che avrebbe invidiato tanto chi ci andava, pensai che, siccome per me una meta estiva a quel tempo valeva un'altra…(sapete com’è a 24 anni, quando la vita sembra eterna e non hai ancora mangiato sufficiente merda sa sapere che, per fortuna, così non è…), tanto valeva andarci e lasciarla rosicare…

Ma non è per questo che non volevo partire.

Il fatto è che al tempo avevo una ragazza. Anzi, per la precisione per qualche tempo in quei giorni furono due. Una molto carina di cui ero istruttore al Club dei Power Ranger, l’altra di cui ero follemente, perdutamente, incoscientemente innamorato da 5 anni, 11 mesi, 13 giorni, qualche ora e un paio di manciate di minuti. Il fatto che tenessi il conto parla da se.

Non rappresenta un’incongruenza per me essere innamorato di una e frequentarne un’altra, anzi, a pensarci bene sarà una specie di leit-motiv di tutta una vita. Era un periodo di transizione.

Il fatto è che la nostra era una storia complicata, lei era fidanzata in casa, con un tipo noioso, da tanti, tanti anni, io invece ero ancora convinto che soffrire per amore avesse qualche senso recondito e profondo e che, alla fine, ne valesse la pena… quindi per cinque anni, undici mesi, 13 giorni, poche ore e qualche manciata di minuti in più, avevo solo sofferto. Immaginandomi come una specie di cavaliere medioevale che ama un’ideale e non una donna vera. Eccetera eccetera eccetera (dio quanto ero palloso a quel tempo!)

bene, per farla corta, la scintilla definitiva finalmente arrivò. Esattamente la sera prima della mia partenza.

Io partivo alle 6,40 dell’indomani. Noi capimmo di amarci alle 22.00 circa. Cazzo che sfiga. L’avevo appena trovata e l’indomani me ne andavo per un mese e qualche settimana a 20.000 km, 9 fusi orari, una quarantina di meridiani lontano. Laggiù era addirittura pieno inverno, mentre da noi era agosto. (sconvolgente vero? Misteri della geografia…)

Fu una notte fantastica (non per il senso che intendete voi, non solo almeno). Piena di romantico malessere. Amore, separazione imminente. Sembrava un film. Uno di quelli per cui, di solito, io cambio canale.

Pensate che alla fine vissi un epifania shakespeariana. Quando noi, abbracciati, stavamo in silenzio sul letto, dalla piccola finestra spalancata lo scuro della notte iniziò a scolorire. impercettibilmente. Quando ci rendemmo conto che distinguevamo i contorni della stanza iniziammo a dare voce ai nostri pensieri… - è l’alba… mi diceva con tristezza infinita. – no, rispondevo io sussurrando, è solo la luna, è ancora presto… abbiamo tempo. –no, è l’alba amore (prima volta in vita mia che qualcuno di cui mi importasse mi chiamava amore), devi andare. Senti, cantano gli uccelli. – no, non è vero, è solo il richiamo dell’allodola. È notte ancora.

Ma non era notte ed io andai davvero.

Fatto sta che, in quel viaggio, ho fatto cose straordinarie. Ho fatto surf tra le dune del deserto su delle tavole di compensato, ritrovandomi pieno di sabbia fino nelle mutande, senza possibilità di cambiarmi. Ho visitato un antico cimitero precolombiano abbandonato nel deserto, pieno di mummie sepolte sedute in buche quadrate, aperte (tanto lì non piove mai, e con il loro vasellame tutto intorno. Non era un museo. Era un posto. Nel senso che potevi saltare dentro le buche, sederti accanto alle mummie e, magari, usare le loro scodelle di terracotta. Intorno, tra le buche, c’erano un sacco di ossa sparse, come seminate, che affioravano qui e la’. Per un po’ mi sono portato dietro per il Perù un paio di vertebre, una mandibola completa ed una mezza calotta cranica. Ho scoperto che il cervello lascia un impronta sulla parte interna della calotta. Io seguivo con le dita le volute e le anse e m’immaginavo di percorrere i pensieri del defunto millenario.

Poi ho camminato per giorni sulla cordigliera e ho raggiunto Macchu Picchu morto di fatica. Ho visto le linee di Nazca dall’alto, su un minuscolo e scassatissimo piper il cui pilota non era affatto sobrio ma queste sono storie che racconterò un’altra volta.

Ho anche avuto la diarrea per tre settimane di fila. Non per vantarmi, ma penso di aver cacato ovunque, in Perù. Vi sfido a trovare qualcun altro che possa dire altrettanto. E questo mi porta alla storia della Pacha Mama, che volevo raccontare sin dall’inizio.

La Pacha Mama è per gli inca quello che di più sacro ci possa essere. Ed è li per tutti, accessibile a tutti e si manifesta in una miriade di modi differenti. È come avere la madre terra, madre natura e Ghandi in un'unica entità, terrena, non sovrannaturale. In effetti, pensandoci oggi, gli Inca sono dei fricchettoni strafatti. In fondo passano le giornate masticando foglie di coca per andare avanti.

E di tutte le rappresentazioni della Pacha Mama, le isole in mezzo al Titicaca sono considerate particolarmente sacre. Vi vivono degli Indios Chechua che parlano solo Aimara (e, in tutto il mondo, lo parlano solo loro… e saranno un paio di centinaia. Immaginate che grandi conversazioni devono mai avere).

La metà di loro per la precisione non abita sulle isole, abita nel lago. Su delle isole galleggianti fatte di papiro legato a fascine e si spostano su delle gondole di paglia lunghe una decina di metri. Starci sopra per qualche ora equivale ad abbandonare ogni certezza di stabilità per abbandonarvi ad una sensazione di infinita precarietà lacustre. Idilliaco vero? Peccato che non ho accennato al fatto che il Titicaca è il lago più alto del mondo, 4.000 metri sopra il livello del mare. La notte lì si congela.

Per cui scelsi di continuare fino ad una delle due isole in mezzo al lago per vedere di dormire con i Chechua. Non una grandissima idea, per la verità. Ma io sono fatto così, mi piace provare come vive la gente. È che non mi faccio mai i cazzi miei.

Bene, ho scoperto come si vive nel medioevo tecnologico. Queste persone, carinissime e disponibilissime, anzi, ansiose di scambiare storie e avventure ci hanno accolti in case fatte di mattoni di fango e paglia. Con i letti rialzati da terra per evitare che topi e scarafaggi divorassero i loro ospiti mentre erano lì (premurosi, non so se a me, al posto loro, importerebbe se un ragazzo troppo curioso venisse divorato nella notte. Vuoi la realtà, eccoti dei topi dannatamente reali, cazzone.). Niente elettricità, niente acqua potabile ( bhé, c’era un lago intero, non ci pensavano nemmeno ai rubinetti loro…). Ma la cosa che mi piaceva di più erano i loro bagni. Erano molto rigorosi in fatto di toilettes: Ogni casupola infatti aveva, a una decina di metri, un’altra casetta, una struttura in mattoni di fango, con una porta, aperta in alto, dentro un buco. Fine del bagno ma almeno non dovevo più sporgermi all’indietro da un peschereccio in navigazione, come avevo fatto per tutto il pomeriggio.

La cena fu deliziosa. Pescado fritto e riso bianco. Pane di miglio e mate di coca (che, per chi si facesse delle illusioni, era un the fatto con foglie di coca, che maceravano sul fondo di una zucca cava, da cui bevevi con una cannuccia. Lo adoravo.

Dopo cena ci intrattennero con una festa popolare dove si ballava in cerchio, si beveva l’Arequipegna, la birra locale che piaceva di più e un po’ di pisco (si, senza la i. è un liquore fatto con il Mais fermentato. A me non piaceva, mi ci ero sbronzato una settimana prima ad Arequipa e ancora ne avevo la nausea). Era tutto molto buio e molto intimo. Persi di vista Marco, ma immagino stesse approfittando dell’intimità con una delle nostre compagne di viaggio.

Io andai nella casupola di fango a dormire. L’altitudine si sente. E poi ero molto stanco.

Era buio pesto quando mi svegliai. Maledetta diarrea. Ancora. Avevo imparato che se ti svegli la notte è inutile cercare di resistere. Sta arrivando. Puoi solo correre. Mi precipito fuori dalla porta, tanto dormivo vestito e con gli stivali. Mi getto addosso il poncho di lana e trovo anche il cappello con cui viaggio sempre. Devo assomigliare a Clint Eastwood in quella tenuta, ma, credetemi, ancora oggi sono i vestiti con cui mi sento più a mio agio. Prima o poi andrò in udienza vestito così, invece che vestito da zorro.

Fuori la notte era nera, le torce con cui gli indios avevano illuminato la festa erano spente da lungo tempo. Non si vedeva nulla. Provai una porta, sperando che fosse quella del bagno. Ero arrivato al tramonto e non mi ricordavo bene come fossero dislocate le casette. Di notte mi sembravano tutte uguali. Entrai sbottonandomi i pantaloni. A tentoni. Toccai un corpo. Poi una faccia. Una voce assonnata mi apostrofò in Aymara. Scappai. Altra porta. Non si apre. Ancora una. Niente. Cazzo. Non ce la faccio più.

Mi accovaccio lì, e la faccio. In mezzo alle case. Cristo che liberazione. Pericolo scampato, all’ultimo secondo. Cazzo, mi dissi, bevi l’acqua del lago. Che ti aspettavi, di cacare regolare come quelle stitiche della pubblicità? Bene, ora non mi resta che tornare al mio sacco a pelo. Nella mia casupola. Ma, cazzo, qual’era?

Merda, mentre giravo come un disperato alla ricerca del cesso mi sono perso tra le case. E non voglio neanche farmi trovare accanto al mio prodotto di giornata che, mi rendo conto, ho lasciato praticamente sull’uscio di una casa. Merda, fa un freddo cane.

Giro un po’, sempre più preoccupato (per la notte di sonno che avrei perso, se non altro). Arrivo ad uno spiazzo, con un recinto di pietre a secco. Mi appoggio. Ma di là dal muro c’è l’erba, quindi scavalco. Mi siedo contro un sacco e mi metto a guardare in alto.

Cazzo, le stelle. Non le avevo mai viste così grandi e vicine. Lo so che è l’effetto dell’altitudine, dell’aria rarefatta, ma soprattutto dei 4 km in meno di atmosfera terrestre a fare da filtro. Le stelle sul Titicaca sono bellissime. Quelle di quest’emisfero poi mi sono sconosciute. A parte la croce del sud. Le guardo assorto per un po’. Almeno fino a quando il sacco non inizia a muoversi. All’inizio non me ne ero reso conto. Ma il sacco, era caldo. Poi volta il collo, mi appoggia il muso alla spalla e inizia a mangiucchiarmi i capelli. Una pecora. Ero in un recinto di pecore. Che si avvicinano incuriosite.

Rimango un attimo interdetto. Cazzo faccio ora? sono pecore normali o quaggiù hanno abitudini particolari. Magari sono vendicative. In fondo ho addosso un poncho di lana. Magari lo conoscevano, prima che diventasse il mio poncho intendo. Invece no. Si limitano a stringersi intorno. E ci addormentiamo tutti. Io guardo le stelle e le pecore guardavano me. Mancavano solo una rosa e dei Baobab. In compenso c’erano le zecche. Ma lo avrei scoperto solo il giorno dopo. Quella notte era bellissima. Io ero laggiù e a casa mi aspettava una ragazza che amavo. Sorridevo, avrei passato lunghe notti a raccontarle tutto. Un giorno, ma non ancora.

martedì 7 settembre 2010

Crashes


Pensieri. Penso che ho ricevuto il mio regalo di compleanno sabato notte, verso le tre. Assolutamente inaspettata. ti sei presentata a casa mia con naturalezza ed un candore di cui non ti credevo capace. E pensare che non ci parlavamo da secoli. All’improvviso eccoti li, con un sacco di parole affastellate e, bhé, un sacco di altre cose, tutte bellissime.
Era una notte che da triste stava volgendo in meglio. Sembrava una canzone o un pezzo di una serie tv, di quelli in cui la camera parte dalla porta chiusa, con il suono del campanello. Il protagonista, che come me è sempre sveglio e vestito, si avvicina di spalle alla porta e la apre. Stacco sul volto di lei, sorriso, la camera in esterno, lei che entra, la porta si chiude, dissolvenza. Mattina.
Ecco, esattamente così. Solo che io la parte nel mezzo l’ho vissuta.
Codice giallo, sto ripartendo lentamente, distaccato. È tardi e l’ambulanza mi sembra così pesante, così lontana dai miei pensieri. Mi avvio piano e attraverso il semaforo rosso e deserto. A quest’ora non c’è nessuno per strada e sono in una zona che conosco benissimo. La faccio tutti i giorni. Tutto è così silenzioso. Non accendo neppure le sirene. Non c’è n’è bisogno e poi io odio le sirene. Mi gridano addosso ed io odio le grida.
Abbiamo parlato per ore e, per una notte, tutto mi sembrava a posto. E i miei mille pensieri accantonati, rimossi e lasciati fuori. Con te quella sera mi pareva di volare alto, molto al di sopra di me stesso, dell’esame imminente, della fatica e della mancanza di sonno.
Io penso che la vita sia fatta a cerchi, per cui le cose iniziano e finiscono. Ma poi tornano sempre e tutto quello che ha avuto inizio avrà una fine che sarà un nuovo inizio. Un concetto molto zen e molto happy days, quasi mi viene voglia di cancellarlo tanto poco mi si addice. Ma è proprio così che va.
Aggeggio con la radio, invio i codici nell’ordine corretto: 2nd-3-0-02-S, che in italiano vuol dire più o meno stiamo arrivando e portiamo qualcuno che sta male ma non tanto male da aver bisogno della sala rossa. È tutto così automatico è tutto così facile…
La mattina sei andata via e io mi sono accorto che ero stato… colonizzato. Proprio così, mentre non guardavo, ti sei presa il mio cassetto. E ci hai lasciato il tuo pigiama (e il fatto che tu ti sia presentata al tuo primo appuntamento portandoti dietro il pigiama già è indicativo di per se…:-), in bagno il tuo spazzolino. Mi è venuto da sorridere. In questa storia non ero io ad avere l’iniziativa. Per niente. Ma va bene così in fondo i miei giorni trascorrono sui libri, come se fosse una tortura. Sono 3 mesi che non è passato giorno che non mi abbia visto per almeno 6 ore sui libri. E i giorni di 6 ore erano vacanza per me. Quindi, se qualcuno decide per me, a me va bene.
Chi cazzo me l’ha fatto fare. Io volevo fare l’archeologo, non l’avvocato. Ingranaggi. Girano e ti catturano, passa il tempo, c’è un sacco di movimento e tu sei comunque sempre ancora lì, preso nel mezzo.
La strada è dritta. Rassicurante, la velocità adeguata alle circostanze, abbastanza lenta e costante da garantire un viaggio senza scosse. La radio bippa. Leggo il codice. 02. Cazzo, ho sbagliato a digitare qualcosa. Devo inviare di nuovo tutto. Inizio a scrivere di nuovo, l’ambulanza procede spedita.
La sera dopo infatti sei tornata. All’improvviso, di nuovo. E i discorsi tra noi si sono fatti più seri. E io ho capito che quelle parole, quelle carezze, quelle emozioni, erano nuove ma già vecchie. Le avevo già vissute, le avevo tutte già sentite. Anche questa è una storia che si ripete. E io non posso farmi prendere di nuovo dall’ingranaggio. È più forte di me. Vorrei lasciarmi andare, vorrei aprirmi, seguire il corso delle cose, fottermene delle conseguenze o fare finta che, come dici tu, il passato non ci sia.
Vorrei davvero non aver tirato su mura impenetrabili, vorrei credere ancora che l’amore è una cosa bella e che tutto va sempre a posto. Vorrei davvero corrisponderti. Mi piacerebbe, davvero, ma sono qui con te, steso nella notte, mentre tu dormi accanto a me ( a proposito, russi, sarà perché hai pianto…) e penso a quello che ti ho detto.
È una frazione di secondo. Mi rendo conto all’improvviso che si, è notte, la strada è quella di tutti i giorni, ma cazzo, quello è il ponte basso ed io non ci passo, non con l’ambulanza. Cazzo, perché ho imboccato questa strada cazzo!. È un lungo secondo al rallentatore, la frenata è immediata, ma è troppo tardi. L’attimo si cristallizza. Lo stridore delle gomme ed il rumore dei vetri infranti. Le grida dietro, il dolore allo sterno, le luci della barra che esplodono e la consapevolezza del disastro. La camera stacca, esterno sulla polvere ed i calcinacci che si depositano, sui nostri corpi sparsi qua e là mentre attendiamo l’adrenalina che ci farà scattare in piedi, a controllare se stiamo tutti bene. No, non stiamo tutti bene. Io non sto per niente bene, dentro di me fa male tutto ma non è un dolore fisico. Fuori sono illeso.
Perdonami bimba, ma ho paura che di me non riuscirò a darti che un cassetto.