giovedì 4 aprile 2019

Thin Red Wounds



Stanotte proprio il sonno mi sfugge. Come ieri notte. Come tutte le notti a parte alcune, di solito quando torno dai trekking in montagna.

Oramai sono abituato, quasi, a questa fastidiosa irrequietezza, che mi vorrebbe sempre da qualche altra parte rispetto a dove sono. Senza mai avere pace.
Allora, le notti come questa, mi siedo alla scrivania, davanti al PC. Nel silenzio ascolto un po’ il mio respiro. Poi metto su una playlist. Stasera tocca ad Eddie Vedder con la colonna sonora di Into the Wild. Un film che amo. Un film pericoloso. Un film che guardo solo l’ultima sera, la sera prima di partire per uno dei miei viaggi. Le sere precedenti guardo Mediterraneo di Salvatores ed il Paziente Inglese di Minghella. Sono i miei film preferiti. Li avrò visti decine di volte. Prima di decine di viaggi diversi. In posti diversi. Con persone diverse. L’unica costante è l’irrequietezza che mi spinge a prendere lo zaino, la bici e i miei pensieri e partire per l’altro capo del mondo. Mancano meno di 4 mesi e riguarderò questi film. Sto per partire di nuovo.

Ma non ancora. Stasera non guardo film. Sto guardando Google Earth.

Google Earth è un programma meraviglioso. Lo uso da anni per programmare, mappare, tracciare i miei viaggi, i miei itinerari. Permette di vedere ogni centimetro di questo mondo grandissimo che abbiamo. Ogni strada, ogni pista nel niente. Poi, il fatto che le persone possano caricarci le proprie foto è fantastico. Guardo le foto di sconosciuti sorridenti a caccia dei particolari che gli stanno alle spalle, sullo sfondo, come traffico, condizioni della strada, o addirittura per capire se quel casottino in mezzo al nulla è un ovile o un negozio di alimentari (o, come spesso accade in Asia, entrambi).
Funziona così: prima traccio un percorso di massima che mi servirà come linea guida per la direzione generale. Connetto con una linea nera città e paesi, seguendo più o meno la viabilità secondaria scegliendo a occhio i passi di montagna meno irti, le strade meno trafficate ecc. Poi traccio le singole tappe, in mille colori, annotando distanze, dislivelli, punti acqua, paesi, guadi, stato della strada (per quello che permettano di capire le foto satellitari). Poi, una volta stabilito l’itinerario definitivo, lo traccio nuovamente, con una sottile linea continua rossa. Solo allora mi rendo conto della portata dell’impresa. Della distanza, della fatica, del numero di passi/pedalate che saranno necessari.

Ora, seduto qui al buio, sto guardando la prossima strada rossa che ho tracciato. Attraversa il deserto del Gobi. Parte da Ulaan Baatar, la capitale della Mongolia e arriva fino a Piazza Tienanmen a Pechino, in Cina. 1632 km in 14 tappe. Mi fa già paura. Guardo i 700 km di deserto dal satellite. Sono così vuoti, così accidentati. Un paesaggio lunare senza anima viva. Ce la farò? Mi basteranno le forze? Riuscirò a portarmi acqua a sufficienza? E se mi si spacca un raggio, una forcella o la catena in mezzo al nulla? Mentre penso a questo, Eddie inizia a cantare la mia canzone preferita: Long Nights (se siete in vena, la trovate qui: https://www.youtube.com/watch?v=6H8optu9rTU). 

E allora mi ricordo perché faccio tutto questo. Lo faccio per perdermi. Parto con la speranza di non tornare, di arrivare alla fine della strada e vedere com'è. Disperdermi lontano, distendermi sulla terra vuota, sotto un cielo pieno. Ed essere lontano da tutto, soprattutto da me stesso. Penso a cosa lascerei, e non è molto. Penso alle persone della mia vita, alle ragazze che ho amato, al mio lavoro. Mi rendo conto che, davvero, non c’è nulla da cui tornare. È una specie di consapevolezza buddista. Non c’è nulla dietro, nulla davanti. Solo una lunga strada sotto i piedi.

Ecco perché, ogni volta che torno da un viaggio, rimango un po’ deluso. Quasi che l’essere riuscito a tornare sia una specie di fallimento, di obiettivo mancato. Allora, mi siedo al PC e, come tutte le volte, ricomincio a tracciare sottili linee rosse, sempre più lontane, sempre più difficili.
A guardarle bene, zoomando fuori e allontanando la prospettiva, quelle sottili linee rosse sembrano dei tagli, delle ferite aperte sul mio mondo. Ferite che solco partendo e che non guariscono mai. Almeno fino alla volta che, davvero, non tornerò. Allora, probabilmente, riuscirò a dormire.

domenica 10 marzo 2019

Drifting Away


La prima volta che ho attraversato il confine nepalese è stato di notte, da solo, ad un posto di frontiera dove i turisti non arrivano, perché da lì passano solo i bus locali. Io quando viaggio, lo faccio con quelli. A volte va bene, a volte va male. In Nepal più che in altri posti.

Una delle prime cose che ho imparato, a mie spese come ho raccontato qualche pagina fa, è che in fondo ti siedi solo se ti costringono. E devono minacciarti forte. Altrimenti scegli qualsiasi altro posto, davanti, nel mezzo, sul tetto. Ovunque. Ma non dietro. Mai dietro.
Quindi la notte che arrivai in Nepal dall’India, passata la frontiera andai subito alla station, la stazione dei bus. Memore del caos indiano per salire e sistemarmi con lo zaino, volevo essere tra i primi. Ci riuscii anche troppo. Non c’era nessuno. Solo un vecchio bus con le tendine di pizzo ai finestrini. Iniziavo ad essere un po’ stufo di sbagliarle tutte. Immancabilmente, se c’era un’alternativa, finivo sulla via più impervia, lunga, scomoda e, a volte, piena di insidie. Questa volta non faceva eccezione.

Così, un po’ sconsolato per la prospettiva di essere solo, in capo al mondo, in un piazzale fangoso immerso nell’oscurità più nera (non crederete mica che in un posto sperduto al confine tra due stati che tra loro a malapena si parlano ci sia qualcosa chiamato illuminazione pubblica vero?). Oscurità più nera fatta eccezione per una lampadina. Una sola. Attaccata ad un palo, sul bordo del piazzale. Accanto al bus con le tendine. Poggio lo zaino a terra, con molta poca delicatezza, e mi lascio sprofondare in quella che reputo essere la sistemazione più comoda mai raggiunta dall’uomo: dormire appoggiati al proprio zaino sui bordi di una strada mentre sei in viaggio da solo.

Comunque sembrava un quadretto da sfera di cristallo con la neve finta. Io, lo zaino, il bus con le tendine di pizzo e il palo con la lampadina. E il cartello con gli orari. Cazzo, non lo avevo visto mentre ero in piedi, perché era dall’altra parte del palo. Naturalmente era scritto in nepali, con i loro caratteri scarabocchio incomprensibili. Ma gli orari erano con i numeri arabi. Il primo era alle 4.30. Ora erano circa le 2.30. potevo dormire un po’. Mi sposto dalla mia idilliaca postazione perché, oltre agli sfigati che viaggiano da soli in quella parte del mondo, la solitaria lampadina attirava anche un consistente numero di zanzare desiderose di pasteggiare con cibo esotico. Quindi mi dirigo in un angolo buio. Lontano dal bus e metto la sveglia alle 4.15, giusto per essere sicuri.

La sveglia non suonò mai. Fui svegliato invece dal suono del clacson e del motore che si avviava. Aprii gli occhi e vidi l’autobus in moto. Cazzo, era in anticipo. Mai successo in Asia. Corsi a perdifiato verso il bus con lo zaino di traverso urlando “Kathmandu! Kathmandu!”. Il bigliettaio (cioè un tizio indistinguibile dagli altri passeggeri che sostava sotto alla porta del bus) mi guardò esterrefatto per trenta secondi, con gli occhi sgranati. Un europeo scalzo, con una maglietta in stile indian freak e dei pantaloncini corti larghissimi, dal colore indefinibile, stava correndo contro di lui, con uno zaino militare enorme tutto rattoppato di traverso urlando il nome della capitale del Nepal, distante 400 km… poi scoppiò a ridere. “Kathmandu” mi rispose. “Kathmandu!” E giù risate scomposte. Mi stava prendendo per il culo. Non c’erano dubbi. Comunque esigette un prezzo esoso (altri 5 dollari) e mi lasciò salire sul bus. Che era già pieno. Non ero riuscito ad essere primo neppure arrivando lì 2 ore prima della partenza…

Mi tocco il posto in fondo. Chiesi al tizio perché stavamo partendo in anticipo. Mi guardò strano e mi fece vedere l’orologio. Erano le 4.30. il mio dava le 4.15. Scoppio a ridere (e due…) e mi spiegò che tra Nepal e India il fuso orario si sposta in avanti di un quarto d’ora. Non per un motivo preciso. Solo perché si stavano sul cazzo e non volevano avere niente, ma proprio niente, in comune.

Iniziò così un altro viaggio lungo di 12 ore su strade incredibili, strettissime, a picco su strapiombi altissimi, passando a guado dei fiumi in piena, dalle acque scure e impetuose. E mentre guardavo fuori dal finestrino durante quelle interminabili ore, con il mio nuovo amico che ogni tanto passava accanto a me e urlava “Kathmandu! Kathmandu!” Ridendo a crepapelle, capii cosa avrei fatto una volta giunto in città. Sarei ripartito. Sarei andato a fare rafting.

“Rafting, Sir?” mi chiese incredulo il tipo dell’ufficio guide cui mi rivolsi il terzo giorno che ero a Kath.
“Yessir” risposi sorridendo. “it’s not the right season, sir” “I know, but I’m here now…” “its dangerous.” E mi guardò con aria di rimprovero.
Avevo capito, non c’era alcuna possibilità dif are rafting fuori stagione… Mi stavo preparando ad abbandonare il progetto quando sento “let’s say 100 dollars, three days trip, sleeping in tents, ok?” si, era decisamente ok. Mi dette appuntamento al giorno dopo, alle 5 di mattina.

All’ora stabilita mi trovo davanti alla porta dell’ufficio guide e, meraviglia, non sono solo. C’era Claude. Un ragazzo di forse 25 anni, australiano. Un altro in cerca di guai.
Partiamo con l’ennesimo, minibus color bianco sporco, rattoppato e strapieno di equipaggiamenti. Tende, cucina da campo, e, naturalmente, il gommone. Sono eccitatissimo, non vedo l’ora.

Invece l’ora l’avrei guardata a lungo e da lontano per un infinità di curve strette. Impiegammo quattro ore per raggiungere il posto prescelto dalla nostra guida. Un ragazzo di nemmeno trent'anni, ben piazzato e dall'aria molto seria, come tutti i nepalesi. Così diversi dagli indiani. Se su un indiano non potevi fare affidamento alcuno, su un nepalese potevi giocarti la vita. Avrebbe mantenuto la promessa e avrebbe fatto il suo dovere. Qualunque esso fosse. E questo, nelle vicende che seguirono, fu molto importante per me.

Comunque, arrivammo ad una località sconosciuta (per me). La guida puntò la strada più avanti e disse solo “Tibet border”. Più a nord non si andava. Tra l’altro, in quel momento decisi che il Tibet sarebbe stata la mia prossima meta, ma questa è un’altra storia.

Ci preparammo, gonfiammo il canotto e ci dividemmo le postazioni. Io ero il primo rematore sulla sinistra. Avrei dovuto dare il ritmo alla mia fila di 3 persone. Claude era dietro di me. Prima di salire indossammo il giubbotto salvagente. Il mio mi stava piuttosto largo, non riuscivo nemmeno a stringerlo bene. Ma i miei occhi erano già sul fiume. Largo almeno 30 metri, in piena ruggente, con alberi sradicati che sfrecciavano sotto di noi saltando sulle onde e le rapide. Il colore limaccioso non permetteva di vedere il fondo ma sulla piattaforma in cemento da cui avremmo lanciato il canotto in acqua c’erano le tacche di profondità. 24 feet. 24 piedi. Più di 6 metri. Wow! Claude aveva l’aria eccitata e impaziente quanto me. Non vedevamo proprio l’ora. Ci sembrava un’avventura meravigliosa. Il tizio di cui vi dicevo, di cui non ricordo quasi nulla, non prese posto sul gommone. Ci fece salire e, insieme all'autista del pulmino, ci spinse in acqua direttamente dalla piattaforma. Un volo di 2 o tre metri, tanto per acclimatarci.

Non credo che si possa descrivere come è fare rafting se non lo avete mai fatto. In sostanza sei seduto su un tubolare del gommone, con un piede in acqua ed uno aggrappato (o incastrato) sotto una corda che corre sul fondo del gommone, con un remo in mano, mentre viaggi a velocità incredibile trascinato dalla corrente, cercando di capire gli ordini del timoniere che chiama il tuo lato a remare, tirare, inclinarti verso l’interno o l’esterno per evitare scogli, alberi, cascate e quant'altro. La corsa non dura un’oretta, come in Italia. Durò 5 ore. E finì male.

Misi in discussione le mie scelte di vita già dopo la prima mezzora. Non riuscivo a tirare il fiato un attimo. Il mio universo era una turbolenta corsa nel nulla di montagne, strapiombi, alberi che sbucavano dal nulla, salti improvvisi e urla, tante urla. Mentre stringevo il remo sentivo che non era una giostra, un otto volante dove devi solo aspettare che finisca. Non potevo neppure aggrapparmi, sdraiarmi nel mezzo del gommone e tenermi stretto. Dovevo spingere con forza, cercare di capire gli ordini del rematore, sperare di riuscire a spostare la prua prima di colpire i sassi davanti e, soprattutto, pregavo di non ribaltarci. Finire in acqua era un’idea terrificante. E fu esattamente quello che mi successe.

Non fu colpa mia, credo di nessuno in realtà. Forse avevo perso un ordine, forse avevo spinto sul remo troppo presto. Non ricordo. So solo che dopo un salto, mi trovai a volare in avanti e poi giù, in acqua. Era gelata. La testa finì immediatamente sotto. Mi sentivo trascinare con forza, non sapevo da che parte era la superficie. In più, il giubbotto salvagente che mi stava largo, si sfilò. Non del tutto, ma si alzò verso l’alto, così che mi trovai la cinghia della vita sotto le ascelle e, mentre il resto del giubbotto galleggiava, io ero sotto, come una specie di boa. Ricordo solo la paura. Avevo davvero paura di morire. Anzi, ne ero certo. Sotto di me c’erano metri di acqua fangosa, non riuscivo a nuotare, neppure a galleggiare. Nulla. Stavo solo sott’acqua attaccato ad un giubbotto salvagente troppo largo, o forse indossato male.

Finché non sentii un colpo al torace. Forte. Poi alle braccia, che erano alzate fuori dall’acqua. E strinsi qualcosa di solido. Un remo. Mi aggrappai esausto e mi lasciai tirare. Le mani trovarono un bordo di plastica dura. Un corda. Tirai la testa fuori dall'acqua e respirai. Era il tizio nepalese, con la canoa con cui ci seguiva. Aveva fatto il suo lavoro. Mi aveva raccattato. E così mi lasciai trascinare a valle, aggrappato alla canoa come ad un tronco, senza forze fino ad arrivare ad uno specchio d’acqua più ampio e calmo. Galleggiavo alla deriva guardando in alto. Con le dita arpionate ad una cordicella sul bordo della canoa di salvataggio. Mi sembrava fossero passate ore. Finché non sentii sotto la schiena dei sassi. Ero a riva. Mi voltai, nuotai un poco e poi, finalmente, uscii dall’acqua. Ero disorientato. E vedere che gli altri, quelli che erano rimasti a bordo, erano tranquillamente seduti a mangiare, mi lasciò un po’ deluso. Evidentemente la mia odissea non era interessante quanto il riso e la carne (yes, in Nepal mangiare carne non è reato capitale, evviva!).

Comunque, dopo un paio di ore di sosta, gettammo nuovamente il gommone a fiume e ripartimmo. Ripresi il mio posto, ma senza tutto l’entusiasmo di quella mattina. Anche Claude era più calmo. Mi chiese come stessi. Risposi solo OK.
Arrivammo a valle verso le 16, che il sole era già andato via. Montammo le tende e cenammo. Dopo cena, il tizio nepalese mi si avvicina. Tira fuori una cartina e me la mostra. Col dito indica un sentiero su un affluente del fiume, un torrente. Mi guarda e mi fa: ”Tomorrow, Canyoning. 80 dollars. OK?”. Guardo Claude. Sorridiamo. “OK!”