Non ho iniziato di recente. A mettermi nei guai sono sempre stato bravissimo. Una specie di genio del male precoce. Colpa della noia, perlopiù.
Comunque, oggi mentre girovagavo per tantissimi km in bicicletta
sotto la calura e il sole martellante, ho attraversato un gigantesco campo di
grano, non ancora trebbiato. Con i colori accesi, abbaglianti ed il silenzio
assordante di quando in giro non c’è (saggiamente) nessuno.
E siccome quando pedali molto a lungo la mente vaga senza
controllo, oggi sono tornato ad un’estate rovente di moltissimi anni fa. Avevo 7
anni e l’Italia era campione del mondo ma io di queste cose non capivo nulla e
non è importante. Prendetelo per quello che è: un riferimento temporale.
Fatto sta che tra fine luglio ed inizio agosto avveniva un
passaggio importante per la mia infanzia, passavo dalle cure dei nonni materni
alle più generalizzate cure del clan paterno, più numeroso e strutturato.
Cambiava l’ambiente, dalla borgata di periferia alla campagna
più profonda, dai giochi di città alla vita di fattoria, in attesa di andare al
mare con i miei, a pochi km da lì, per la parte centrale delle vacanze. Oggi sospetto
che vi fosse una sorta di patto familiare: ce lo ciucciamo un po’ tutti, a
turno. E zitti.
Le estati a quel tempo e a quell’età erano lunghissime, vere
e proprie cesure temporali nella vita di chi ne aveva viste appena una manciata
prima di quella. Quando tornavo a scuola, a settembre, in classe dovevamo fare
di nuovo le presentazioni tanto eravamo cambiati nel frattempo.
Ebbene, abbastanza inspiegabilmente io ero un bambino molto
attivo. Introverso, solitario, amante dei libri e, in generale, anche pigro. Ma
con una spiccata predisposizione per l’esplorazione, la scoperta e il cacciarmi
nei guai da far invidia a qualsiasi ragazzino americano dei film.
Anche quella volta non delusi le aspettative. Immaginatevi
questa enorme fattoria (dalla mia prospettiva di settenne almeno), composta da una
casa nel mezzo, tre grandi stalle, diversi magazzini, e tutt’intorno ettari ed
ettari di campi di grano maturo, a perdita d’occhio su entrambi i versanti
della valle. Colline tondeggianti che a guardarle sembravano disegnate con i
pastelli (tutti solo gialli, però).
Immaginatevi anche un piccolo me, che non amava fare il
riposino post prandiale come tutti i sani di mente e quindi, completamente
libero, giravo ovunque mi spingesse la curiosità e la fantasia. Quel giorno mi
spinse nel grano, verso una collina lontana, con un albero solitario sopra. Ero
convinto che da lì avrei visto il mare. Quindi partii. Così, senza alcuna
remora, infilandomi nel campo di grano puntando nella direzione generale della
collina distante.
Le spighe erano alte quasi quanto me ed era divertente attraversarle,
così camminai parecchio (immagino che tutto sia relativo, quindi parecchio per
il me di allora) e, ad un certo punto, come è facile immaginare, mi accorsi che
non avevo idea di dove fossi. Mi ero, ovviamente, perso. Nel mezzo al nulla
agricolo dell’Italia centrale degli anni ’80.
Ricordo benissimo la paura immensa che mi colse realizzando
che, davvero, non sapevo come tornare a casa. Ero solo. Nel nulla. Per la prima
volta in vita mia non c’era nessuno in vista. Non vedevo case, non vedevo punti
di riferimento (che a 7 anni sono molti pochi comunque). Ero davvero
terrorizzato. E come ogni bambino terrorizzato feci la cosa più saggia che
potevo fare. Piangere.
Davvero utile, lo so, ma nemmeno ora che Bear Grylls mi lega
le scarpe in tema di orienteering e survival riesco a farne una colpa al
povero, spaventatissimo me di allora.
Ma la paura più grande doveva ancora arrivare. Il terrore
più primordiale mi assalì quando iniziai a sentire muovere le spighe intorno a
me. Le sentivo spostarsi, come quando qualcosa di grosso le attraversa. Smisi persino
di piangere, ma non riuscivo a scappare. Quando sentii il pericolo incombere
vicinissimo, chiusi gli occhi e mi accucciai.
Sentivo ansimare. Sentivo toccarmi. Sentivo un muso ferale
farsi strada tra le mie braccia chiuse.
Aprii gli occhi. Era il pastore tedesco di mio zio. Oggi,
per quanto mi sforzi, non riesco a ricordarne il nome. Ma lo aveva, allora.
Mi tirai su, felice e sollevato. E lui, che sapeva
perfettamente cosa stava accadendo, iniziò a farmi strada verso casa. Camminava
avanti e poi si fermava, si voltava verso di me e mi aspettava. E io, gambette
corte e tutto, lo seguivo indefesso.
Impiegai parecchio a tornare a casa e, appena giunto, corsi
in cucina. Nessuno pareva essersi accorto della mia scomparsa, anche se ero
stato via qualche ora. Era abbastanza normale. Si aspettavano di vedermi a
pranzo e cena, per il resto ero libero (era prima che i bambini divenissero i
delicati e preziosissimi Fabergé che sono oggi).
Chiesi a mia zia della carne per il cane perché, le dissi, “dovevo
ricompensarlo per avermi salvato la vita”. Dissi proprio così. Lei non mi diede
nulla, ovviamente. Alla fine riuscii a mercanteggiare un vecchio osso di
prosciutto che era tenuto da parte per il brodo.
Scesi di nuovo nell’aia e il cane (davvero, pagherei per
ricordarne il nome, mi par di fargli un torto parlando di lui come il cane. Facciamo
che lo scrivo con la maiuscola, come Agnelli che era l’Avvocato). Il Cane, dicevo,
mi attendeva attento e con sguardo fiero e compiaciuto. Sapeva quello che aveva
fatto e sapeva di meritarsi qualcosa.
Ci sedemmo per terra, io guardavo lontano, cercando di
scorgere il mare, lui masticava il suo osso mentre lo tenevo abbracciato.
“A’ Ra’! Nun ce devi
de sta’ così vicino ar Cane, che è pieno de pulci! Lo devo fa’ desinfettà! Viè qua”.
Io guardai il Cane. Lui sollevò appena la testa e ricambiò
lo sguardo con aria palesemente colpevole. Le orecchie basse.
Le braccia di mio zio mi afferrarono e mi portarono verso la
stalla bassa, dove c’era la sistola. Mi lavò con il sapone disinfettate in polvere.
Quello che usava per le bestie. Mi brucia ancora.