venerdì 16 aprile 2010

Misplaced Loveliness


Voglio descrivervi il sogno di stanotte.
Ho dormito pochissimo eppure sono riuscito ad infarcire quelle due ore di incubi. Nemmeno troppo piacevoli.
Ero al Club (e per Club intendo quel fantastico posto pieno di coglioni vestiti di arancione fluò con strisce catarifrangenti), quando a causa mia (si, lo so che è difficile da credere…) si scatenava una furibonda rissa, di cui io ero il fulcro. Non ricordo bene il motivo, ricordo solo scene di cruda violenza (tipo io che prendevo una per i capelli e le sbattevo la testa al muro più e più volte, fino a farle perdere i denti, il naso, i sensi) oppure di io che venivo tenuto da tre persone mentre una quarta mi colpiva il viso con un sasso o ancora io che riuscivo a scansare un colpo agli occhi vibrato con delle forbici di cui ancora ora vedo le punte arrivare. Le impugnava una donna.
Peculiare, l’unica cosa di cui ero consapevole in quei momenti era la certezza assoluta e fondata che alla base avessi ragione io e non altri e che mi sentivo assolutamente fuori posto, come rigettato dal corpus sociale.
È una sensazione che avevo anche da sveglio per la verità. Infatti ieri sera al Club c’era una specie di triste e alcolicamente nostalgica rimpatriata di ex. intendendo quelle persone che frequentavano il club 20 anni fa, più o meno il periodo in cui ho iniziato a frequentarlo pure io.
Ed io ero l’unico tra quelli che ancora lo frequentano attivamente a conoscere le storie che venivano raccontate e che risalivano a quegli anni lontani, a ricordare vecchi scherzi, a capire perché tizia non salutava nemmeno caia eppure un tempo erano molto amiche (semplice, Caia scopò con Sempronio, il fidanzato di Tizia. Successe un gran casino e gli anni passarono. Il figlio che ora Sempronio porta in braccio è di Caia, sua moglie).
C’erano questi gruppetti di ex militi, ex amici, ex ragazzi brillanti che giravano su e giù, entrando in ogni stanza per rivivere ricordi e momenti. Io ho pensato a quanto fossero patetici e ho pregato chi mi stava intorno di spararmi (lo so, è più forte di me…) qualora tra dieci anni mi fossi ritrovato a fare quelle cose.
Poi mi sono unito a loro, sentendomi alquanto fuori posto. Fino al momento dei saluti. Quando ognuno di essi si è allontanato per conto suo, declinando l’invito a tornare a prestare il proprio servizio al Club e camminando deciso verso le loro rispettive vite, fatte di altre donne, altri lavori, altri amici. Le loro splendide vite fuori dal Club.
All’improvviso quello fuori posto ero io ed io solo. Che appartenevo ad un'altra epoca, rimasto indietro, tra le pieghe del tempo trascorso, incapace di andare avanti come invece avevano fatto loro.
Le scene di lotta si susseguivano, unite a momenti di calma in cui ero investito dallo sprezzo totale delle persone, per lo più anziane, che intorno a me discutevano della gravità del mio comportamento e delle sicure conseguenze disciplinari che questo avrebbe avuto.
Finché da una stanza chiusa usciva il mio avvocato e con aria tranquilla (quella che ci insegnano a tenere quando parliamo con chi sta per beccarsi l’ergastolo, onde mantenere accesa la fiducia in noi fino all’ultimo) mi annunciava che mi avevano ascritto dieci differenti capi d’accusa. io rispondevo che ne avevo contati solo nove.
È una bell’immagine. Io che picchio la gente contando mentalmente: “testa di cazzo, figlio di puttana” (ingiurie), schiaffo ad uno (lesioni lievissime), pugno ad uno e testata ad un altro (rissa), due pugni nello stomaco ad un terzo (lesioni lievi), ginocchiata in piena faccia, naso rotto (lesioni gravi), a terra, calci in testa, via i denti, gli zigomi, il naso ecc. ecc. (lesioni gravissime).
Alla fine la lotta riprende ed io mi trovo in mezzo ad un cerchio di gente che mi disprezza e mi tiene a bada con ogni tipo di attrezzo atto alla bisogna: bastoni, pezzi di ferro, vasi, aste di bandiera. Ed io mi giro e rigiro all’interno di questo cerchio che si restringe sempre più, ogni tanto riuscendo a sferrare qualche calcio o morso. Finché il cerchio non si allarga e vedo una faccia conosciuta e odiata che imbraccia un fucile da caccia, una doppietta, e con aria seria come se dovesse svolgere un compito spiacevole ma necessario (come infilare le dita nel tubo di scarico otturato per intenderci) mi guarda e pronuncia le fatali parole: “bisogna fare come con i cani rabbiosi”. Mi sveglio al momento del colpo che a giudicare dall’angolazione del fucile, mi deve essere arrivato dritto in testa.
Il problema è che ha proprio ragione lui. In effetti sono una specie di cane rabbioso. Mi sembra addirittura di comprenderne perfettamente lo stato d’animo: il cortile che ti va stretto, la catena che ti strozza ad ogni movimento che fai, la sensazione che tutti abbiano troppa paura per venirti vicino e poi, la peggiore, che quando vuoi parlare, quando vuoi disperatamente far capire che c’è altro in te oltre la rabbia, la bocca ti si riempie di bava rossastra ed inizi a ringhiare scoprendo i denti.
Non è che sono pazzo. È che mi fa schifo vivere.

Nessun commento:

Posta un commento