mercoledì 7 aprile 2010

Come un legno nel mare


Il viaggio che inizia per mare è sempre un grande viaggio.
Salire a bordo di una nave, una nave qualsiasi, per un viaggio che durerà giorni, settimane. A volte, mesi.
L’enormità della nave è la prima cosa che ti colpisce. Ti eccita la forza con cui ti risucchia, gli odori così familiari e così esotici, nafta, olii, mare, cibo. I rumori, le urla in lingue a te sconosciute frammiste allo stridore dei pneumatici sul piano di carico, che rispondono ai gabbiani che fanno loro il verso, lontani, sul mare aperto. Il buio della stiva e dei corridoi stretti che all’improvviso sfocia nella luce abbagliante del sole, sul ponte. E tu, solo in mezzo al mare, ti senti un po’ Ulisse, un po’ Quasimodo.
Lasciammo il porto di notte. Una splendida notte. La luna si rifletteva immensa verso est, dalla parte del mare, dalla parte della destinazione a noi ancora ignota, celata dalle ombre dell’avventura. La affrontavamo con lo stesso spirito un po’ incosciente con cui un bambino troppo piccolo sale la prima volta sulle montagne russe. È sicuro, ma non del tutto, è spaventato, ma non può fare a meno di salirci. E quando salimmo a bordo fu un po’ come dire addio alla terra, sicuri certo, di rivederla. Ma, in fondo, in fondo, non così tanto sicuri.
Le navi, quando partono, salutano festose chi rimane, le sirene ululano i loro canti di addio e avvisano che sì, è proprio vero. Stanno partendo.
Quella notte invece la nave salpò in sordina, quasi non volesse disturbare noi, che soli sul ponte, ognuno perso nei suoi pensieri, guardavamo la terra allontanarsi tra le mille luci del porto e la nave attraversare la scia della luna.
È incredibile pure come sparisca in fretta la terra dietro l’orizzonte. Pensi che ci vorrà un sacco prima di essere in mare aperto ed invece, in un attimo, ti volti e lei non c’è già più. La sua immagine è stampata sulla tua retina, come accade quando fissi qualcosa di luminoso e poi chiudi all’improvviso gli occhi. Mi sono voltato e lei non c’era più era sparita dalla mia vita quasi senza una parola, lasciandosi dietro una maglietta e poco altro. Appena il tempo di un ultimo sms, poi neppure più quello.
Ti accorgi solo ora che quello che volevi dirle, non potrai più dirglielo. Quello che ti legava alla tua vita di prima è reciso, come quando immergi le dita nello zucchero filato e poi le tiri via. La massa soffice e appiccicosa ti rimane attaccata, poi si sfalda in tanti fili colorati, poi sempre meno, poi d’improvviso non sono più attaccati e a te rimangono solo i brandelli di storie vecchie, troppo dolci e troppo appiccicose. Avrei voluto sapere che non sarei tornato. Invece sapevo che l’avrei fatto. Perciò non potevo ancora leccarmi le dita.
Eravamo entusiasti della nostra cabina. Perché era la peggiore. Era incuneata nel punto più basso della nave, diversi metri sotto la linea di galleggiamento, con i letti minuscoli e fatti di ferro, con qualche coperta sopra. Costava meno del treno che avremmo preso al ritorno, meno di una delle vostre serate in discoteca, delle vostre cene al mare e ci portava lontano. Ma non potete capirci, perché siete esseri di un altro mondo, perché siete inconsistenti. E perché, in fondo, non capite un cazzo. Noi invece adoravamo quella fetida cabina sul fondo di una sgangherata nave turca che aveva a bordo meno persone di un autobus qualsiasi.
Quando ti svegli in mezzo al mare sei sospeso nel tempo. Tutto ti sembra immobile, a parte il sole che è l’unica cosa che si muove nel tuo universo relativo.
Non avevo mai sete, bevevo al bar di bordo solo per passare il tempo e studiare gli altri viaggiatori, immaginandone le storie e tessendo fantasiose trame con le americane. Il bar della nave è un po’ come un suk. Ognuno prende quello che vuole, parla in qualsiasi lingua gli aggradi e paga in dollari, euro, sterline, lire turche. Tutto va bene a tutti. Tanto siamo persi in mezzo all’egeo e intorno non c’è niente.
Il terzo giorno il vento aveva seccato i nostri volti. Conoscevamo ogni angolo della nave, ogni anfratto. Avevamo conosciuto qualche viaggiatore, ma non molti. Però sapevamo di godere di una certa ammirazione a bordo. Noi eravamo quelli che avrebbero fatto in bicicletta la strada che loro facevano in auto, moto o pullman. Ci fermavano e ci dicevano che ci ammiravano. Poi scuotevano la testa. Ma la maggior parte in fondo ci ignorava. Facevano bene, alla fine non fregava un cazzo neppure ai nostri amici, di dove eravamo. anche se ancora non lo sapevo, i miei, di amici, mi avevano prontamente sostituito… con la mia ex. che in quel momento faceva le stesse cose che di solito facevo io con loro, nello stesso posto. Ma non rimpiango quegli amici, in fondo sono più adatti a lei che a me.
E ancora la nave andava. Mancava ancora una notte, poi saremmo arrivati.
Non ho mai visto tante stelle, come in quelle notti in mezzo al mare. Quando non c’è nulla a fermare lo sguardo, quando ti ritagli un angolo di ponte tutto per te, e stai li, per ore, senza parlare, senza pensare, senza respirare. Sei come un pezzo di legno tra le onde. E ti accorgi che non è brutto. Affatto.
Viaggiare in nave risvegliava alcune curiosità patologiche che mi porto dietro fin da quando sono piccolo.
Mi succede spesso di averne, ad esempio, quando sono fermo alla stazione ed il treno sta arrivando. Lo vedo dai binari che compare, prima immobile, poi lentissimo, lento e poi, infine, incredibilmente veloce. Insomma, quando arriva, tutti fanno un passo avanti, preparandosi a salire.
Io faccio un passo indietro. Perché non mi fido di me stesso. Ho sempre paura di non riuscire a controllarmi e di gettarmi all’improvviso sui binari, appena prima che il treno sopraggiunga. Non perché abbia istinti suicidi (anzi, probabilmente ce li ho, ma non coscienti), ma per curiosità. Mi figuro l’attimo, le urla, il fischio lancinante e poi, pochi istanti prima del botto, la mia faccia che dice “che cazzo stai facendo? E ora come ne esci?”.
Lo so, sarebbe proprio così. Mi succedeva anche da piccolo quando mi buttavo da scogli altissimi, senza sapere dove sarei atterrato. Se ci sarebbe stata abbastanza acqua sotto di me. Mentre ero in volo c’era un attimo di terrore puro, in cui mi rendevo conto di aver osato troppo, che avevo ali di cera ed io ero troppo, troppo vicino al sole. Mi succede anche oggi, dalla finestra del mio studio che dall’alto dei cinque piani del palazzo guarda sui garage della camera di commercio. Guardo giù e mi immagino volare. Allora faccio un passo indietro.
Sulla nave era lo stesso. Guardavo giù e pensavo che se mi fossi lasciato scivolare fuori bordo non se ne sarebbe accorto nessuno. E io mi sarei trovato a galleggiare nel nulla senza più possibilità di essere ritrovato. Allora rientravo, scendevo nella mia cabina e, quasi senza una parola agli altri, facevo finta di dormire.
Passammo dei luoghi bellissimi, isole brulle su cui spiccavano bianchissime le case basse, come gesso, brillanti di luce.
Le guardavo e ne scorrevo mentalmente i nomi. Le guardavo e mi rendevo conto che non si vedeva traccia di civiltà. Nessuna auto, nessun palo della luce, solo qualche casa bassa e gli ulivi coltivati. Stavo guardando le stesse isole che ha guardato Ulisse. Lo stesso vento, lo stesso sole. Le seguivo fino a che, piano, sparivano.
Poi giungemmo all’altezza di Mikonos e mi resi conto che la odiavo. Come si possa odiare un isola, allora proprio non lo sapevo. Oggi lo so. E penso anche che quel sentimento fosse ricambiato. Io, che a volte vorrei essere un’isola, ne odiavo un’altra, bellissima.
Ma piena di stronzi.
Dopo Mikonos le cose peggiorarono, il vento si fece teso e le onde più lunghe. Il fondo della nave non era il miglior posto dove trovarsi con il mare grosso, ma proprio non ce la facevamo a stare in piedi. Potevamo solo giacere e cercare di non vomitare. Tranne A.. lui giaceva e mangiava.
Poi iniziammo a giacere e a cercare di vomitare. Intorno a noi lo facevano in molti. Si sentiva gente che vomitava ovunque.
Ad un certo punto non ce la feci più. Affrontai la faticosa salita verso il ponte, nove ripide rampe di scale, e… mi trovai davanti la costa turca.
Ancora sotto la luna, che però era così uguale e così diversa da quella che avevamo lasciato tre notti prima… e poi la baia, il porto, le luci. Eravamo arrivati, non ero più un isola, non mi ero abbandonato ai flutti, non avevo intrecciato improbabili relazioni e non ero morto sul fondo della stiva. Un viaggio era finito. Ora ne iniziava un altro. Casa era molto, molto lontana.



3 commenti:

  1. chissà..forse anche yussuf ha pensato le stesse cose nella sua vita passata viaggiando per nave.. anche lui con la sua Mikonos, anche lui con la sua cabina incuneata sotto il livello del mare..

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  2. Sì, una bella epigrafe.
    La adorno con questa poesia che componemmo io ed il mio compagno di banco David in IV liceo, alla gloria M.G.Nistri M., nostra ineguagliata professoressa d'Italiano e maestra di vita.

    :-)

    "Inno a Nistri Regina

    Dall'arte prendete esempio di Colei
    Che lietamente per i vestiboli del grande offizio
    A gloria move i giovanili animi dei pigri discepoli, o stolti precettori!
    Erroneamente altera la sua sapienza
    da menti facili venne intesa.
    Sciagurati che confondeste per vane farneticazioni eclettiche menzioni di perpetua sapienza.
    Come l'adultera l'innocenza ha perduto
    in eterno, eterno in voi sarà della mortificazione di sì proficui attimi il vuoto."

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