giovedì 1 luglio 2010

A Dream of a Thousand Cats

01.47 am

Il sonno non vuole arrivare neppure stanotte. È la terza notte. Oramai perdo il controllo sempre più facilmente. Stamattina alle 06.45 ho minacciato di morte un vecchio che lavava un secchio sotto la mia finestra. Mi sembra di cogliere ovunque sguardi interrogativi e straniti. Nelle persone che conosco e in quelle che non conosco. Saigon. Cazzo, sono ancora solo a Saigon. Chi riconosce la battuta capisce anche come mi sento. Ho anche i Doors sotto, che non aiutano per niente.

La birra è calda. Neppure il mio frigorifero funziona più. Dall’odore direi che orami c’è qualcosa di marcio dentro. Verdura probabilmente. Spero si decomponga in fretta, perché so già che non lo toglierò di li. Non io almeno.

Prima mi sono anche guardato allo specchio. Non ho un aspetto sano. Non mi ricordo da quanto tempo non mi rado. Oggi ero in udienza con la barba lunga. Sono passato avanti a due avvocati e ho imposto al giudice di farmi un rinvio. Senza formalità, senza spiegazioni. L’ha fatto. Sono corso via.

Mi sembra di vivere in un mondo ovattato. Fuori dal tribunale c’era una gruppo di persone con delle bandiere rosse. Urlavano qualcosa e ho pensato che l’avessero con me. Anche loro. Mi ci è voluto qualche secondo per capire che era la cgil che si prendeva un anteprima allo sciopero di venerdì. Li ho guardati estraniato per qualche secondo e ho lasciato cadere il volantino che mi hanno messo in mano.

Se almeno sapessi da dove è iniziato tutto. Sapessi cosa ho, cosa mi succede.

Prima di arrendermi all’evidenza del non sonno anche per stanotte stavo pensando alla casa dei miei nonni. Ora è diventata la casa di mio zio per la verità.

Ci vive con tre gatti. La casa in cui ho passato le estati della mia infanzia è diventata una specie di ricovero per animali sommerso dai libri, abitato da un intellettuale privo di vita sociale perché disgustato dalle persone. È come guardare nel futuro.

Comunque non pensavo a questo. Pensavo ai gatti.

Da che ho memoria in quella casa hanno sempre abitato gatti. Mia madre dice che li ci sono stati gatti da quando mio nonno costruì la casa, negli anni cinquanta.

I gatti sono animali territoriali. Ed io scomposto al centro del mio letto, sdraiato solo su un lenzuolo aggrovigliato che lascia in parte scoperto il materasso, li guardavo camminare in quella casa, così familiare, così distante nel tempo.

I gatti di oggi che camminano rasenti i muri si staccano da ombre antiche, di cui conosco i nomi.

Li riconosco tutti. Li accarezzo tutti.

È come se la casa mi restituisse la loro memoria. I loro posti preferiti, i loro modi di fare, le loro stranezze.

Hanno dei nomi assurdi, anni ottanta, quando ancora li associavo ad un essenza e non ad un idea. Pippo, lilla, gatto, nero, grigione e altri, altri altri.

Le ombre si allungano sinuose sui muri scoloriti, su mobili di epoche dimenticate, su ambienti che ogni volta che vi torno mi meravigliano per come siano rimpiccioliti. Saltano su cassettiere che scopro vuote, mentre le ricordo piene. Spero sempre di ritrovarvi dentro quel foglio di soldatini di carta che smarrii un tempo e che ho cercato invano per tre estati di seguito.

Anche li, solo ombre e un odore familiare che non sono sicuro di sentire davvero.

Le ombre dei mille gatti dei miei ricordi saltano sul mio letto. si fondono insieme, si accovacciano e si raggomitolano, nonostante il caldo, nonostante la loro immaterialità. Dietro l’ombra c’è una scritta, a lapis, tracciata da mano infantile. “lascio il mio letto a pippo il gatto”. Avevo 8 anni e la mania dei testamenti. Non so perché la scritta sia rimasta lì, sul muro di camera mia. Ma c’è ancora e ci resterà per anni ancora.

Persino le coperte sono quelle di sempre. Anche i pigiami. Non uso un pigiama da vent’anni, ma loro sono sempre li. Immoti ed in attesa. L’ombra si stiracchia e si avvia giù per le scale. Non posso che seguirla. Arrivo in cucina, odori e rumori che echeggiano lontani, quasi che l’eco non si esaurisca mai. Mi volto a guardare l’ora ad un orologio da muro che non c’è più. È stato tolto. Rimane solo il chiodo. Eppure vi leggo l’ora, anche se ora non la ricordo più.

L’ombra gattesca cerca il mangiare nel solito posto. Anche se è perplessa.

Alcuni cercano gli avanzi in un vassoio di plastica, altri croccantini nella ciotola. Ognuno abituato ad un diverso regime alimentare, al passo con i tempi.

Apro gli occhi e mi distacco dal passato, dai miei pensieri sgangherati. Guardo l’ora e mi rendo conto di essere ancora qui, solo, mentre fuori la notte umidiccia e maligna mi appiccica addosso. Bestemmio in silenzio un dio qualsiasi. Ma non Bastet.

Con la mente li accarezzo ancora una volta. Li so laggiù, vaganti nella memoria di una casa immensa, di cui conoscono ogni angolo di ogni piano. Ognuno padrone della stessa casa, degli stessi ambienti degli stessi cuscini. Ma in tempi diversi, lontani fra loro, che nessuno, a parte me, ricorda più. Tornano stanotte a raccontarmi le loro storie, a farmi sognare di mille gatti che non ci sono più.

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