mercoledì 5 gennaio 2011

Kadifecale




Arrivammo a Izmir poco dopo le due. Faceva caldissimo e noi spingevamo a mano le bici nel baazar, il mercato. In realtà l’impressione era quella di scivolare in un fiume di gente, seguendo la corrente. Sarebbe stato pressoché impossibile andarvi contro. Ogni tanto qualcuno ci guardava. La polvere e il sudore ci incrostavano dalla testa ai piedi e le bici facevano comunque il loro effetto. Sembravamo cowboy fuori tempo massimo. Io avevo una maglietta rosa, gli occhiali da superman e una bandana in testa. Ah, anche i guantini da ciclista. Non una delle mise di cui vado più orgoglioso per la verità.
Comunque avanzavamo. Troppo stanchi per soffermarci ad apprezzare la varietà di colori, odori e suoni che ci arrivavano da tutte le direzioni. Ogni pochi metri alzavamo gli occhi verso qualche stranezza locale. I banchi delle spezie con i sacchi pieni di colori, le macellerie con i capretti squartati appesi sulla strada e i banchini che vendevano immagini e feticci dell’ataturk ci attiravano magicamente.
Izmir è fatta così. In mezzo c’è il mercato e ovunque tu voglia andare, devi passarci.
Cercavamo un posto dove dormire. Eravamo entrati in diversi posti lungo le strade del mercato, ma nessuno ci attirava particolarmente. Fu A. a risolvere la situazione.
- Laggiu c’è un buon posto. Disse, indicando un vicolo fatiscente che si inerpicava stretto verso l’alto.
- E come cazzo fai a saperlo?
- C’è scritto lassù fece lui.
In effetti all’imboccatura del vicolo c’era un cartello, sotto un balcone che cadeva a pezzi: hotel very good diceva.
Caspita, non ci saremmo certo fatti abbindolare dalla pubblicità più ingenua che avessi mai visto pensai. Sarebbe ridicolo.
Invece facemmo proprio così. L’albergo si trovava nel quartiere povero, proprio prima che questo iniziasse a salire verso l’antica fortezza di Kadifecale. Le sue stanze erano piene di fascino, esotiche come un campo nomadi, si affacciavano su un orto giardino fatiscente ma profumatissimo ed estremamente silenzioso.
Il padrone, un tipo anziano e paffuto, con i baffi curvi ed un cappello buffo fece un po’ di storie per le bici, ma quando gli spiegai che senza di loro non avrebbe avuto neppure noi, acconsentì a farcele portare dentro. Immagino che nonostante il grande investimento in pubblicità, l’Otel Hikmet non fosse proprio in alta stagione in qual periodo. Per la verità non era in alta stagione da almeno vent’anni, a giudicare dalle sue condizioni. Ma per 4 euro a testa a notte ci andava benissimo. Nel suo turco internazionalizzato da qualche parola in inglese e tedesco il proprietario mi chiese se volessimo la doccia in camera o no. Costava 2 euro in più a testa. Era un furto, ma dissi di si. Quindi lui entrò in bagno e tolse il lucchetto che chiudeva il rubinetto. Ora avevamo la doccia in camera. Ci lavammo e lavammo i pochi vestiti che ci portavamo dietro. In mezz’ora la camera diventò effettivamente un accampamento di nomadi, con tanto di panni stesi. Poco male, in effetti era proprio quello che eravamo. Nomadi in bicicletta.
Quando viaggio lo faccio per il gusto del viaggio e non per turismo. Preferisco passare il tempo a parlare con le persone, a mangiare per strada quello che offre il posto. E così anche a Izmir non ci ponemmo neppure in mente di fare il giro dei monumenti, che pure sapevamo splendidi, risalenti alla dominazione greca e romana. Invece decidemmo di vedere il tramonto di Flaubert, tanto caro a N.
Infatti da qualche parte aveva letto che Flaubert in visita ad Izmir un centinaio di anni prima di noi, aveva dichiarato che, se c’era un tramonto che bisognava vedere almeno una volta nella vita era quello che dalla sommità del Kadifecale si tuffava nell’egeo.
Sulla Lonely Planet di quell’affermazione non v’era traccia. In compenso però sconsigliava di avventurarsi per le strade intorno al Kadifecale dopo il tramonto. Infatti quello era il quartiere povero e malfamato di Izmir. Aveva ragione la guida naturalmente. Ma preferimmo seguire il consiglio di uno scrittore dell’ottocento e ci avviammo a piedi verso l’altura che ospitava la vecchia fortezza del Kadifecale. A guidarci una bandiera turca immensa che sventolava sulla sommità.
Per un paio di kilometri ci inerpicammo per vicoli desolati, su cui si affacciavano catapecchie aperte il cui unico mobilio era un tappeto. Decine di bambini e di gatti spuntavano ovunque. Magri, scalzi e cenciosi. Sembrava un special del National Geographic Channel. Stranamente non ci fecero una grande impressione. Eravamo affamati e cenciosi anche noi.
Ad un certo punto ci trovammo spersi. Le vie non avevano nome solo, ogni tanto un numero. Noi del resto non avevamo una cartina ma solo una vaga indicazione. Così, mentre l’ora fatidica del tramonto si avvicinava, iniziammo a procedere un po’ a casaccio, ma sempre in salita. In fondo la fortezza era in cima. Quindi bastava salire. Almeno speravamo.
Su una strada un po’ più larga ci raggiunse una macchina della polizia. Si affiancò a noi e un poliziotto con un mitra sulle ginocchia ci chiese, in un inglese appena comprensibile, cosa ci facessimo in quel posto. Glielo dicemmo e lui ci disse che non era il caso. Era un Quartiere Molto Pericoloso. Lo disse proprio così. Con le maiuscole. ci disse di tornare indietro. Lo ringraziammo, lo assicurammo che avremmo senz’altro seguito il suo consiglio (in fondo non volevamo finire accoltellati vero?) e, appena la macchina della polizia svoltò l’angolo, continuammo a salire. Non credevamo davvero che avremmo potuto rappresentare una tentazione per nessuno. Io avevo le scarpe bucate e i pantaloni strappati. In tasca avevamo dieci lire turche. Probabilmente se avessero voluto rapinarci non sarebbero nemmeno riusciti a farsi capire e sarebbe finita con noi che gli chiedevamo indicazioni. E in ogni caso noi tre correvamo veloci e le lunghe ore di pedalata ci avrebbero dato un certo vantaggio sugli emaciati abitanti del Quartiere Molto Pericoloso. Almeno speravamo.
Alla fine ci arrivammo davvero al Kadifecale. Intuimmo subito che qualcosa doveva essere cambiato dai tempi di Flaubert. La fortezza costruita da Alessandro Magno non aveva precisamente l’aspetto di un monumento patrimonio dell’umanità, come l’ha definita l’Unesco.
Tanto per iniziare un patrimonio dell’umanità dovrebbe avere un biglietto d’ingresso. Lì invece non c’era nessuno. A parte una decina di ragazzi di tutte le età che giocavano a pallone proprio in mezzo alla fortezza, usando come porta dei pezzi di muro, un palo e delle magliette.
Inoltre in mezzo alle torri invece dei cartelli che spiegano in due righe un paio di millenni di storia del posto c’erano delle tessitrici di tappeti, con degli strani telai orizzontali che tessevano degli stranissimi tappeti coloratissimi.
Una delle torri poi era usata come camino. Qualcuno ci stava facendo un fuoco dentro. La cosa un po’ mi irritò. Cazzo pensavo, questa torre ha duemila anni e tutto quello che questi trogloditi riescono a farci è usarla come barbecue. Però. Però, girando lo sguardo, mi rendevo conto della differenza. Da noi ogni pietra antica è racchiusa in sofisticate gabbie, il cui accesso costa un sacco di soldi e dentro le quali, alla fine, ti trovi insieme a un mucchio di deficienti armati di macchina fotografica che non vedono l’ora di uscire da li per andare a mangiare. Qui invece ero libero di andare ovunque, senza cordoni, divieti d’accesso, guardiani e, soprattutto, stronzi in gita domenicale.
Infatti al Kadifecale non c’erano aree delimitate. puoi andare dappertutto. Proprio dappertutto intendo. Anzi, per arrivare in alcuni punti dovevi camminare in bilico sui muri alti. A metà di uno di quei muri A. confessò che soffriva di vertigini e aveva terrore delle altezze. Da li in poi procedette a carponi. Proprio un bel momento per fare outing.
Comunque sia riuscimmo a convincerlo ad arrampicarci fino all’angolo sud occidentale. Il più propizio per ammirare il tramonto che, prima o poi, sarebbe arrivato.
Ci sedemmo ansiosi di ammirare lo spettacolo della natura. Aspettammo un po’. Poi un altro po’.
Non succedeva niente. Nel senso che il tramonto non è una cosa di pochi istanti. No, ci mette un sacco. E a noi faceva pure freddo. Dentro di me pensai che Flaubert era un cazzone. A me Madame Bovary non era neppure piaciuto.
Mentre attendevamo si avvicina un ragazzino. Che mi porge dell’uva e, in tedesco, mi chiese perché fossi li.
Rimasi un po’ stupito. Gli chiesi come facesse a sapere che parlavo tedesco (tirato a caso, immagino). Lui mi guardò e mi disse che si vedeva, che ero tedesco. Bhé, immagino che non sia precisamente un complimento. Poi arrivò suo padre, suo nonno, un paio di zii, qualche fratello e le donne della famiglia. Si piazzano tutti e 160 accanto a noi. Il nostro angolo romantico era stato trasformato in un picnic.
Invece di irritarmi ero curioso.
Subito il padre ed il nonno si misero a parlare con noi. O meglio, con me, visto che parlavano solo tedesco.
Non erano turchi, erano curdi. Vivevano in germania, ma d’estate tornavano a casa.
Ora, i curdi sono il popolo più sfigato del medio oriente. Sono divisi tra turchia, azerbaijan, Iraq e Iran e nessuno li vuole. Eppure sono inoffensivi, gran lavoratori e abbastanza simpatici. Solo che stanno sul cazzo un po’ a tutti da quelle parti e tutti li hanno perseguitati, scacciati, fatti oggetto di simpatici e folkloristici genocidi. Il Kurdistan è un posto che non esiste. Nessuno di quei paesi lo riporta sulle carte. Eppure c’è, e ci sono i curdi.
Questi mi spiegarono un po’ la faccenda, mentre dividevano con noi frutta di ogni tipo. Senza che ce ne accorgessimo eravamo divenuti parte del picnic curdo. Parlammo per diverso tempo, mi raccontarono la loro vita in germania, io raccontai loro del viaggio che stavamo facendo e che pareva entusiasmarli un sacco.
Ad un certo punto però, come ad un segnale di un regista nascosto tacquero. Tutti. Mi voltai piano e su tutta la lunghezza delle mura del Kadifecale erano apparse persone in piedi che guardavano verso ovest. I ragazzi avevano smesso di giocare a calcio ed erano saliti, anche le tessitrici di tappeti avevano fatto faticosamente i gradini. Tutti guardammo verso ovest in silenzio. Il sole impiegò una decina di minuti a scomparire dietro l’orizzonte. Il cielo era oro, rosso, porpora e indaco. Dietro di noi l’oscurità iniziava ad avvolgere la fortezza come una coperta calda, ma davanti era uno spettacolo assoluto.
Flaubert aveva ragione. Naturalmente.
Aspettammo che anche le nuvole fucsia acceso scolorissero nel viola prima di iniziare a scendere.
-speriamo che i poliziotti si siano sbagliati, pensammo. E iniziammo a correre ridendo in discesa.

3 commenti:

  1. più passa il tempo e più mi convinco che quello sia il ricordo più bello di tutto il viaggio.

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