Stanotte proprio il sonno mi sfugge. Come ieri notte. Come tutte
le notti a parte alcune, di solito quando torno dai trekking in montagna.
Oramai sono abituato, quasi, a questa fastidiosa
irrequietezza, che mi vorrebbe sempre da qualche altra parte rispetto a dove
sono. Senza mai avere pace.
Allora, le notti come questa, mi siedo alla scrivania,
davanti al PC. Nel silenzio ascolto un po’ il mio respiro. Poi metto su una
playlist. Stasera tocca ad Eddie Vedder con la colonna sonora di Into the Wild.
Un film che amo. Un film pericoloso. Un film che guardo solo l’ultima sera, la
sera prima di partire per uno dei miei viaggi. Le sere precedenti guardo
Mediterraneo di Salvatores ed il Paziente Inglese di Minghella. Sono i miei
film preferiti. Li avrò visti decine di volte. Prima di decine di viaggi
diversi. In posti diversi. Con persone diverse. L’unica costante è l’irrequietezza
che mi spinge a prendere lo zaino, la bici e i miei pensieri e partire per l’altro
capo del mondo. Mancano meno di 4 mesi e riguarderò questi film. Sto per
partire di nuovo.
Ma non ancora. Stasera non guardo film. Sto guardando Google
Earth.
Google Earth è un programma meraviglioso. Lo uso da anni per
programmare, mappare, tracciare i miei viaggi, i miei itinerari. Permette di
vedere ogni centimetro di questo mondo grandissimo che abbiamo. Ogni strada,
ogni pista nel niente. Poi, il fatto che le persone possano caricarci le
proprie foto è fantastico. Guardo le foto di sconosciuti sorridenti a caccia dei
particolari che gli stanno alle spalle, sullo sfondo, come traffico, condizioni
della strada, o addirittura per capire se quel casottino in mezzo al nulla è un
ovile o un negozio di alimentari (o, come spesso accade in Asia, entrambi).
Funziona così: prima traccio un percorso di massima che mi servirà
come linea guida per la direzione generale. Connetto con una linea nera città e
paesi, seguendo più o meno la viabilità secondaria scegliendo a occhio i passi
di montagna meno irti, le strade meno trafficate ecc. Poi traccio le singole
tappe, in mille colori, annotando distanze, dislivelli, punti acqua, paesi,
guadi, stato della strada (per quello che permettano di capire le foto
satellitari). Poi, una volta stabilito l’itinerario definitivo, lo traccio
nuovamente, con una sottile linea continua rossa. Solo allora mi rendo conto
della portata dell’impresa. Della distanza, della fatica, del numero di
passi/pedalate che saranno necessari.
Ora, seduto qui al buio, sto guardando la prossima strada
rossa che ho tracciato. Attraversa il deserto del Gobi. Parte da Ulaan Baatar,
la capitale della Mongolia e arriva fino a Piazza Tienanmen a Pechino, in Cina.
1632 km in 14 tappe. Mi fa già paura. Guardo i 700 km di deserto dal satellite.
Sono così vuoti, così accidentati. Un paesaggio lunare senza anima viva. Ce la
farò? Mi basteranno le forze? Riuscirò a portarmi acqua a sufficienza? E se mi
si spacca un raggio, una forcella o la catena in mezzo al nulla? Mentre penso a
questo, Eddie inizia a cantare la mia canzone preferita: Long Nights (se siete
in vena, la trovate qui: https://www.youtube.com/watch?v=6H8optu9rTU).
E allora mi ricordo perché faccio tutto questo. Lo faccio per perdermi. Parto con
la speranza di non tornare, di arrivare alla fine della strada e vedere com'è. Disperdermi
lontano, distendermi sulla terra vuota, sotto un cielo pieno. Ed essere lontano
da tutto, soprattutto da me stesso. Penso a cosa lascerei, e non è molto. Penso
alle persone della mia vita, alle ragazze che ho amato, al mio lavoro. Mi rendo
conto che, davvero, non c’è nulla da cui tornare. È una specie di
consapevolezza buddista. Non c’è nulla dietro, nulla davanti. Solo una lunga
strada sotto i piedi.
Ecco perché, ogni volta che torno da un viaggio, rimango un
po’ deluso. Quasi che l’essere riuscito a tornare sia una specie di fallimento,
di obiettivo mancato. Allora, mi siedo al PC e, come tutte le volte, ricomincio
a tracciare sottili linee rosse, sempre più lontane, sempre più difficili.
A guardarle bene, zoomando fuori e allontanando la
prospettiva, quelle sottili linee rosse sembrano dei tagli, delle ferite aperte
sul mio mondo. Ferite che solco partendo e che non guariscono mai. Almeno fino
alla volta che, davvero, non tornerò. Allora, probabilmente, riuscirò a
dormire.
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